Out of the blue

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  1. stefano.dandrea ha detto:

    Un lettore ha sollevato critiche acute a Gianluca Freda, relativamente alla recensione ad Avatar. E Gianluca Freda ha risposto.

    Inserisco in questo commento sia la critica del lettore che la risposta di Freda

    Ancora su Avatar

    di Gianluca Freda – 21/02/2010

    Fonte: Blogghete!

     


    Il lettore Daniele Boscaro mi scrive nei commenti:

    Questa volta voglio intervenire e dirti la mia su Avatar, perchè mi sembra, Gianluca, che qui si abbia tutti un po' di confusione in testa. Certo che Avatar proietta quel poco di consapevolezza presente nei nostri simili (d'altronde la consapevolezza "profonda" mica la si più raggiungere al cinema, per quella bisogna sbattersi un po' di più) in una dimensione immaginaria… è un film!!! non stiamo parlando di un documentario, ma cosa vorresti dire, che siccome la trama di significato trascende uno scenario reale, allora "uga uga…" facciamo fatica a capire a cosa si riferisce? boh, non riesco a seguirti. Altra cosa, gradirei un chiarimento (in "out of blue" non l'hai fatto) rispetto alla tua posizione sulla "guerra giusta" dei na'vi, che non sembra andarti tanto a genio: cos'è, dovevano organizzare una protesta in piazza? dovevano presentare le loro "istanze" alle ambasciate americane su pandora? dovevano leggersi Ghandi e imparare l'opposizione non violenta? Caro vecchio e saggio Gianluca, te lo dico con i Prodigy: "Invaders must die", anche troppo che è una guerra giusta quella, perchè dagli invasori (di quel tipo, non leggerla come un'apologia leghista) ci si protegge, non si negozia. Punto. Che tu possa interpretarla come una furba riabilitazione delle attuali occupazioni americane mi trova perplesso: Camerun nel film nobilità gli invasi, non gli invasori, quindi mi sembra che tu stia forzando la mano. Un altro punto di cui volevo parlare è il discorso un po' troppo superficiale con cui cassi gli ideali che il film sembra veicolare: che siano rappresentati in modo banalotto e ipersemplificato sono d'accordo, ma allora cosa facciamo, non si può parlare di indipendenza a meno che non si citi qualche filosofo? non si può parlare di liberazione della donna senza tenere un seminario? concludendo, mi sembra che tu, assieme a qualche intellettuale un po' pieno di se, sia andato a vedere e ad analizzare questo film con un potentissimo pregiudizio, che alla fine della fiera ha orientato e predefinito il quadro critico nella direzione di una bocciatura inevitabile, d'altronde come potrebbe il regista di titanic fare un film decente? Io non sono sicuramente un buzzurro, o comunque sto lavorando per non esserlo, e sono il primo a rovinarmi quotidianamente il fegato con una visione ipercritica della nostra società, con la sua superficialità, il vuoto culturale e la "rarefazione delle categorie di pensiero" o rincoglionimento cronico/indotto che dir si voglia, parole SANTE. Ma sai cosa ti dico, che è più formativo un film come avatar che dieci film di Almodovar o woody Allen… si, perchè ognuno è figlio del proprio tempo, Gianluca, e la mia generazione non ne può più di assorbire i modelli dell'imperfezione, del "peccato inevitabile" delle "umane contraddizioni" e delle mezze virtù. Ci hanno convinti che le sozzerie e le menzogne più schifose facciano parte della nostra natura, senza scampo. Ne siamo saturi, ma non è così. Abbiamo bisogno di modelli aurei, di racconti epici, di modelli cazzuti, con i cattivi che sono cattivi, ed i buoni che sono buoni. Anche banali, perchè, ripeto, sicuramente non pretendo di acculturarmi al cinema, ma non si può vivere solo di libri di filosofia. A complessificare ed a relativizzare le categorie di analisi ci penseremo in seguito, intanto ai ragazzini delle medie facciamo vedere Avatar. Saluti sinceri da un tuo estimatore.

     

    Caro Daniele, in “Out of the blue” parlavo soprattutto degli effetti che Avatar intende produrre sul rapporto del pubblico occidentale con il proprio stesso habitat identitario (passività, straniamento, sradicamento dalla nostra cultura e dalla nostra storia). Riguardo invece ai suoi risvolti strategico-propagandistici la mia modesta idea in proposito può essere così riassunta: ciò che vediamo in Avatar non ha niente a che vedere con i problemi o con la cultura  delle popolazioni occupate e sterminate dagli occidentali nel passato o nel presente. Ciò che vediamo esaltato in Avatar è, al contrario, il nostro ideale di “guerra giusta”, di ribellione al tiranno, di contrapposizione armata e violenta contro tutto ciò che ostacola l’affermazione dei “valori” occidentali (che sono contingenti e variano di epoca in epoca, a seconda delle parole d’ordine). I Na’vi non rappresentano le ragioni dei popoli che l’occidente ha cancellato nel corso della sua espansione. Rappresentano l’occidente stesso e servono a giustificare i suoi massacri, a esemplificare le ragioni per cui l’esportazione dei suoi valori a suon di spada e mitraglia deve essere ritenuta accettabile. Il film si serve di un astuto camuffamento, trasponendo su una popolazione indigena fittizia una prospettiva sul mondo che è nostra e solo nostra. E’ nel nostro immaginario che le donne devono essere forti ed emancipate come la protagonista digitale del film, non certo in quello di una tribù Navajo. E’ nel nostro immaginario che la guerra serve a conquistare risorse e territori o ad emanciparsi da una tirannia, non in quello dei Povos o degli Amarakaeri. Per fare un esempio di quanto questa rappresentazione mentale del conflitto sia solo nostra, basti pensare che le popolazioni azteche dell’epoca di Cortés furono sterminate anche perché non riuscivano minimamente a comprendere questa concezione della guerra, la quale per loro era più che altro un mezzo per procurarsi prigionieri da sacrificare agli déi. Gli stessi ideali di “libertà” e “giustizia” implicano una forma di pensiero astratto e simbolico che è nostro, e non appartiene necessariamente alle popolazioni indigene del passato o del presente, per le quali simbolo e simboleggiato tendono a coincidere (credo si chiami “pensiero mitico”, è quello che troviamo alla base della letteratura epica di ogni tempo). Sempre per fare un esempio, presso le popolazioni native americane, le donne venivano spesso scuoiate durante i riti della fertilità, per poi permettere agli uomini senza figli di rivestirsi della loro pelle. L’idea di “fertilità” e il suo oggetto materiale (la donna) non erano separate, erano la stessa cosa. E’ nella cultura europea che è nata e prosperata la scissione tra rappresentante e rappresentato, il “pensiero simbolico”. Avatar non ci parla dunque delle ragioni o della visione del mondo degli indigeni, ma delle NOSTRE ragioni e del nostro mondo, sfruttando un rovesciamento prospettico che rende più difficile (ma poi neanche tanto) identificare l’antichissimo meccanismo di propaganda culturale, già in opera all’epoca delle prime spedizioni di Colombo. La cultura indigena non è minimamente presa in considerazione, se non per rappresentare gli indigeni come noi vorremmo che fossero, e cioè corrispondenti in tutto e per tutto ai modelli sociali del nostro tempo. E’ ciò che l’occidente ha sempre fatto: il contatto tra culture diverse viene gestito con la negazione delle diversità inaccettabili e con l’assimilazione del diverso ai nostri modelli, imposta prima con la propaganda, poi con la forza. Storia vecchissima. Perfino per i “difensori” storici dei nativi americani, come Bartolomé de Las Casas, le popolazioni indigene erano tutte “dolci e pacifiche”, già dotate per natura di caratteristiche cristiane e non aspiranti ad altro che a ricevere la dottrina della Chiesa. Las Casas, per quanto animato da ottime intenzioni, non parlava degli indigeni, parlava di se stesso e della necessità di ridurre ogni cultura alla sua personale prospettiva. Ciò che nella cultura indigena non corrispondeva agli ideali europei veniva semplicemente negato. Avatar fa esattamente la stessa cosa, con l’unica differenza che le sue intenzioni mi sembrano molto meno nobili di quelle del vescovo spagnolo. L’assimilazione culturale cui Las Casas offriva il suo contributo era inconsapevole, quella di Avatar è consapevole e studiata a tavolino. Mutatis mutandis, Avatar ci spiega come noi dobbiamo fare la guerra (con coraggio ed eroica disposizione al sacrificio), per quali motivi noi dobbiamo combattere (la libertà, la giustizia, la “convivenza culturale”, che si realizza ovviamente solo a patto che gli altri si conformino a noi), in nome di quale religione (quella ecologista e new age, visto che il cristianesimo, dai tempi di Las Casas, ha perduto un bel po’ della sua forza identitaria), contro quali persone (tutti coloro che non accettano questa visione del mondo, occidentali come il “cattivo” del film o no). Soprattutto, Avatar ci spiega – con un’ideologia che dovremmo ben conoscere – che lo scontro violento è l’unico modo di affrontare queste questioni. Cosa su cui, essendo anch’io occidentale, tenderei ad essere d’accordo. Anch’io, come te e come i Prodigy, di fronte alla brutalità dei colonizzatori penso istintivamente: “Invaders must die”. Solo che, al di fuori dei cinema e del pianeta Pandora, la lotta armata contro gli eserciti delle multinazionali non rappresenta affatto una possibilità di riscatto, ma una garanzia di sterminio. Sterminio che soddisfa non solo i colonizzatori, ma anche i Prodigy: i quali non pensano realmente al diritto delle popolazioni di vivere secondo il proprio spirito e le proprie tradizioni (che troverebbero spesso mostruose e inconciliabili con il proprio immaginario etico, se davvero le conoscessero), ma aspirano a veder realizzato quell’”ideale di sé”, tutto occidentale, che trova nella risposta armata alla violenza coloniale una sorta di catarsi consolatoria del proprio inespresso senso di colpa. Nella realtà le cose vanno diversamente. Cortés riuscì a conquistare l’enorme impero azteco con poche decine di uomini perché comprese che l’astuzia, la tattica, la conoscenza del nemico, la manipolazione delle informazioni, la diplomazia, sono gli strumenti più idonei a conseguire la vittoria. Sfruttò le rivalità tra le popolazioni locali, imparò la lingua nahuatl per essere in grado di comunicare con i nativi, utilizzò spie, traduttori e informatori, curò l’immagine del proprio esercito per farlo apparire divino e invincibile, mise a punto un sistema informativo efficientissimo che gli consentiva di conoscere in modo rapido e circostanziato ogni forma di dissenso esistente tra i nativi, studiò i meccanismi sociali e culturali degli aztechi per individuarne i punti deboli e poterli sfruttare a proprio vantaggio. E’ così che gli occidentali hanno sempre fatto la guerra, è così che hanno sempre vinto, non con la pura forza bruta. La forza bruta è solo il mito che la propaganda semplificatrice del colonialismo è felice di diffondere presso i propri sudditi, interni ed esterni, affinché siano sempre sconfitti. Per vincere ocorre invece una strategi

    a, occorre conoscere a fondo i meccanismi del sistema d’informazione, imparare a inserirsi in essi, a manipolarli ed eventualmente a ritorcerli contro i loro ideatori. Proprio l’evenienza che l’apparato di rincoglionimento globale – cui credo che Avatar appartenga a pieno titolo – cerca di scongiurare.

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