Diventare umani
di PIERO COPPO (medico, etnopsichiatra)
In società multiculturali ci sono spesso forti conflittualità tra il progetto di cui le diverse famiglie sono portatrici e quello della cultura dominante, per esempio attorno alla questione della proprietà dei figli. Appartengono ai genitori biologici e alle loro famiglie, oppure alla cultura, al gruppo proprietario del luogo dove nascono? In altri termini: sono destinati a rafforzare e continuare la cultura, l’identità etnica dei loro genitori, o quella di chi li sta ospitando? A chi appartengono, dunque, i figli? E quando divengono, se mai lo diventano, ”padroni di se stessi”?
Nel mondo governato dalla globalizzazione dei capitali e delle merci, parlare di identità etnica è certo sospetto e controcorrente, e in genere associato a ideologie reazionarie dai rappresentanti di quel mondo, il nostro qui e ora, che ritiene che etnici, e quindi non liberi, siano solo gli altri.
”Noi” saremmo invece umani astratti, estratti da specifiche appartenenze, esemplari dell’umanità universale, portatori del progetto di un futuro deterritorializzato e liberato da specifiche storie e diversità, e quindi buono per tutti; ideologia che fu proprio la matrice dell’imperialismo e del colonialismo.
Nel confronto con altri modi di fare e di vivere può essere utile provare a interrogarci su quelli che oggi e qui, in questa etnia che si nega come tale, sono il modello, la configurazione e il senso della famiglia e in particolare su quella che è la funzione paterna e materna in rapporto al destino dei figli.
Non solo mi sembra giusto dal punto di vista scientifico (psicologico, antropologico, sociologico, etnologico) guardare noi come guardiamo gli altri (e la forma e l’intenzione del modello dominante di famiglia fanno parte dei fondamenti di ogni cultura); ma potrebbe anche essere un modo per rimettere in gioco abitudini che diamo per naturali provando a riprendere in mano, noi specialisti della psiche e fabbricatori (insieme a tutti gli altri) di cultura, il senso di ciò che sta accadendo.
Con alcune cautele: non si tratta di proporre per oggi e qui modi o forme necessari e funzionali in contesti ben diversi, e neppure di tornare indietro; ma semmai di ripercorrere i passi fatti cercando di capire se, sospinti dall’accelerazione del tempo, non ci siamo lasciati dietro qualcosa di importante che potrebbe esserci utile oggi. Proporre di esplorare ciò che altri fanno e vivono non è quindi un invito allo sperdimento nell’esotismo e nella regressione, ma un esercizio per capire meglio cosa avviene oggi e qui.
Infine, per non cadere in tipologie e generalizzazioni abusive, meglio ricordare che viviamo tutti in società multiculturali e in continuo divenire: le culture non stanno in frigorifero: sono organismi viventi.
Tratto da La ragione degli altri: percorsi critici dell’etnopsichiatria contemporanea, in La salute mentale e il paradigma geopolitico a cura di L. Faranda e M. Pandolfi, Aracne, Roma 2014
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