La fine del capitalismo. Dieci scenari

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2 risposte

  1. Stefano D'Andrea ha detto:

    Sebbene il lessico sia talvolta discutibile e comunque impolitico, la prima parte dell’articolo è un’ottima sistemazione, con spunti importanti.
    C’è però l’idea che, sotto il profilo del diritto pubblico dell’economia, si sia in presenza di un neoliberismo e non del liberismo. Perciò le fasi del capitalismo diventano due: quella in cui il sociale imbriglia l’economico tramite il giuridico, usando la terminologia dell’autore; e quella dell’economico che vince su tutto.
    Se invece si prende atto che i principi del diritto pubblico dell’economia statale oggi vigenti sono del tutto identici a quelli dell’ottocento e si prende atto che siamo TORNATI INDIETRO all’ottocento, allora non vi è ragione per escludere che si possa tornare indietro agli anni sessanta-settanta o, se si vuole, che dall’ottocento, nel quale siamo tornati, si possa “TORNARE AVANTI”, dapprima agli anni trenta e poi agli anni sessanta settanta. (ci sono poi nuovi problemi, dovuti ai mutamenti antropologici, ma sono altri problemi)
    Negare che il capitalismo sia tornato indietro, anziché andare avanti, ossia negare che gli STATI NAZIONALI avevano paralizzato e fatto arretrare il potere sociale del grande capitale (che ora si è preso una rivincita), serve a rimuovere l’astratta possibilità di pensare, volere e agire continuamente, in ambito nazionale, per decenni, per la LIMITAZIONE DEL GRANDE CAPITALE, che invece è la prospettiva sovranista.
    Negata la possibilità reale, concreta, di lottare PER LA LIMITAZIONE DEL POTERE DEL GRANDE CAPITALE a livello nazionale – unico luogo ove può astrattamente e logicamente svolgersi una o altra lotta, che è sempre LOTTA PER IL DIRITTO (STATALE) – prospettiva che già richiede molta pazienza, in ragione della demenza televisiva e digitale di massa e di altri fenomeni connessi, primo fra tutti i monopoli capitalistici della formazione dell’opinione pubblica – si valorizzano autori che anziché sollecitare la volontà e l’azione, hanno svolto previsioni di un fenomeno oggettivo – il capitalismo – che non esiste: esiste il potere sociale del grande capitale, che trova sostegno e appoggio nella legge, e che incessantemente cerca di condizionare ed emanare leggi a suo favore, tramite i partiti capitalistici; ed esiste, potenzialmente, il potere sociale dei partiti popolari che si oppongono e comprimono limitano a livello nazionale il potere del grande capitale.
    Dunque ricostruzione ottima; rimozione psicologica che causa un errore logico. Prospettiva della fine del capitalismo insensata e debole. Nichilistica e da condannare la svalorizzazione del pensiero, della volontà, della organizzazione e dell’azione dell’uomo.

  2. Simone Garilli ha detto:

    Purtroppo i marxisti sono oggi, in gran parte, strutturalisti depressi: morto Dio è morto anche l’uomo e a dominare sono le strutture (il capitalismo). Una volta, per lo meno, molti marxisti erano sì strutturalisti, ma credevano anche nella dialettica conflittuale tra la struttura e il soggetto politico organizzato. Oggi, persa la speranza intima della rivoluzione del partito proletario, le vie d’uscita per un marxista che non è disposto a innovare la teoria, sono solo tre:

    1) settarismo esasperato ma rassegnato in movimenti o partitini condannati alla marginalità

    2) marxismo debole, cioè fuga nel foucaultismo politico (quello analitico è una miniera d’oro da valorizzare)

    3) fuga nel campo dei vincitori, i liberali.

    Questa terza opzione è resa psicologicamente accettabile dal fallimento del socialismo reale sovietico, nella misura in cui entrambi i progetti (liberalismo anglosassone e comunismo sovietico) erano teleologici e non ammettevano compromessi di lungo periodo. In un contesto ideologico di quel tipo il vincitore è per definizione dalla parte giusta della Storia e quindi i comunisti devono semplicemente prendere atto che i liberali avevano ragione e loro no.

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