Trump visto dal campo di battaglia mediorientale

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4 risposte

  1. Stefano D'Andrea ha detto:

    Un’analisi molto importante, che segnala sia le oggettive difficoltà nel cambiare la politica medio-orientale, quand’anche ve ne fosse la volontà, sia il fatto che la volontà statunitense, in questa materia, dipende dal complesso militare-industriale e non dal presidente.
    Su questo punto non vi è dubbio che le parole di Trump sono soltanto flatus vocis: sia perché non sono chiare, sia perché sembrano prospettare come facile ciò che è molto difficile, sia perché, in questa materia, le parole di una persona, sia pure di un presidente degli stati uniti, negli stati uniti contano poco e niente.
    Lascia invece perplessi la ricostruzione della politica medio-orientale che gli stati uniti avrebbero fino ad ora effettivamente perseguito.
    Infatti, gli Stati Uniti hanno attaccato l’islamismo sunnita talebano: è un fatto.
    Poi hanno attaccato l’Iraq laico, regalandolo a partiti sciiti settari (e in definitiva all’Iran, con il quale sono palesemente alleati nella guerra irachena contro lo Stato Islamico) e hanno combattuto per anni contro una resistenza che noi occidentali credevamo costituita e diretta dal partito Baath clandestino e che tuttavia si esprimeva in milizie tutte salafite, sebbene in alcuni casi nazionaliste, le quali avevano per nome: Ansdar Al Sunna, Al Qaeda in Iraq poi ISI (Stato Islamico in Iraq), Jaish al-Mujaheddin, l’Esercito islamico in Iraq, Hamas in Iraq, Army of the Men of the Naqshbandi Order.
    Infine, nel giugno 2016, gli Stati Uniti hanno tentato il colpo di Stato contro i fratelli musulmani in Turchia.
    Contro gli sciiti c’è stato soltanto l’appoggio agli islamisti sunniti combattenti in Siria e la tolleranza (quando non attaccavano gli alleati curdi socialisti) verso formazioni non finanziate e armate ma che credevano di poter utilizzare (IS e AL Nusra, dal 3 gennaio 2014 in guerra tra loro).
    Se gli Stati Uniti avessero invaso l’Iran, anziché l’Iraq, per darlo in mano a fondamentalisti sunniti, avessero aggredito direttamente la Siria, come hanno aggredito l’Afghanistan, e fossero intervenuti in Egitto nel golpe contro i fratelli musulmani, allora si che avremmo potuto dire che gli Stati Uniti combattevano gli sciiti o comunque sostenevano i fratelli musulmani e i salafiti combattenti.
    Insomma, se si guarda ai fatti e non alle declamazioni, la politica statunitense non appare per niente chiara, perché è stata confusa e piena di errori strategici (a prescindere, per una volta, dal giudizio negativo su ogni politica imperialista)

  2. Simone Garilli ha detto:

    Una sola osservazione: continua a non convincermi la presunta preminenza dell’economia (il settore militar-industriale in questo caso) sulla politica. Ma è un’obiezione teorica, che può essere anche contraddetta nel caso particolare (anche se gli Stati Uniti, per grandezza e potenza, sono un caso più generale che particolare).

    In breve, io non penso che vadano ricercate negli interessi economici del settore militar-industriale le motivazioni di ultima istanza delle scelte di politica estera americana. Sono scelte politiche, sulle quali i fornitori militari possono illudersi di contare qualcosa, ma probabilmente non è così. Dario Fabbri scrive su Limes che il meccanismo decisionale della politica americana si regge su tre pilastri: Presidente, Congresso e Burocrazia (dai servizi segreti ai funzionari pubblici di varia natura). Il Presidente è il pilastro meno importante dei tre, ma rimane un pilastro. Le aziende, anche grandi, non rientrano nel processo, secondo Fabbri.

    Poi magari ho malinteso io quello che intendevi.

  3. Stefano D'Andrea ha detto:

    Simone, certo che è politica. Per esempio, sembra che Obama ci sia rimasto male quando gli hanno detto che avevano bombardato 82 soldati siriani. Chi ha deciso di bombardare? Chi è il sovrano che decide nello stato di eccezione? Tra coloro che decidono c’è appunto la “burocrazia” che comprende la CIA e i vari servizi segreti, gli alti comandi militari, gli ex generali come Campbel, che ha tentato il golpe in Turchia (Obama è stato informato? è stato convinto? In questi due casi ha deciso?), e petrolieri e grandi industriali che, quando non diventano presidenti, o membri del congresso (i senatori sono in grandissima parte grandi miliardari), finanziano, condizionano e eventualmente ricattano i membri del Congresso.

  4. Simone Garilli ha detto:

    Siamo d’accordo. Scrivendo che l’obiezione è teorica, infatti, intendevo che sarebbe utile chiarire a livello di analisi in cosa consista il processo decisionale di uno Stato, sempre di natura politica, e a cui eventualmente partecipano anche interessi che potremmo definire economici (grandi aziende).

    La mia preoccupazione è che l’assenza di elaborazione teorica su questo punto fondamentale lasci intatta l’idea fallace dell’Impero acefalo, di natura industrial-finanziaria, sdoganato ufficialmente da Hardt e Negri. Il sovranismo ha bisogno di una teoria che rimetta al centro, anche dell’immaginario, la Politica.

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