Pasquale Saraceno: unità nazionale e Mezzogiorno
di GERARDO MAROTTA [Presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici]
Fu una costante del meridionalismo di Saraceno la ferma consapevolezza che la questione dell’unificazione economica dell’Italia fosse anche una questione di unificazione politica, perché l’obiettivo del superamento del divario tra il Nord e il Mezzogiorno chiamava in causa le responsabilità dello Stato e perché il permanere di quel divario poteva riflettersi negativamente sulla stessa unità nazionale, con conseguenze che a lungo andare potevano risultare esiziali anche dal punto di vista politico.
Questa consapevolezza colloca Saraceno nel solco di una lunga tradizione ideale che va al di là del pensiero meridionalistico “classico” e del dibattito sul Mezzogiorno che ebbe luogo nel secondo dopoguerra.
Infatti la tenace battaglia di Saraceno si accosta idealmente ai motivi ispiratori della Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce in cui il filosofo avvertiva, proprio a proposito della questione meridionale, che «bisogna con ogni cura guardarsi dal compiere un indebito trapasso dalla storia etica e politica alla storia economica e sociale e pretendere di ritrovare in questa il movimento storico e la virtù nazionale che si deve invece ritrovare e mostrare nell’altra».
Questa tradizione in cui si collocava Saraceno, la tradizione che concepiva il problema dell’unificazione economica del Paese come una questione etico-politica, è quella che lega il pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento al Risorgimento italiano e arriva fino alla fondazione della Repubblica. Proprio Antonio Genovesi aveva aperto il cammino verso una concezione del primato dell’etica nell’economia, del pubblico sul privato, dell’interesse generale e del bene comune sugli interessi particolari.
E ancora, il richiamo ai filosofi e ai riformatori napoletani ci pare del tutto pertinente proprio per la forte attenzione che Saraceno ha dedicato al consolidamento dello Stato moderno in Italia e per la chiarezza con cui egli ha visto che questo consolidamento si realizza attraverso la lotta della giustizia e delle istituzioni contro gli interessi di quella «violenza privata» che Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano individuarono come l’ostacolo da combattere per l’affermazione dello Stato moderno.
Croce la chiamava «eterna rapina», sulle orme di Silvio Spaventa, che aveva denunciato l’opera nefasta delle «forze neofeudali», quando, ministro del giovane Stato unitario, fu impegnato in una lotta senza quartiere per difendere il pubblico erario dall’assalto delle grandi imprese dei lavori pubblici: quelle società anonime concessionarie della costruzione delle reti ferroviarie, con alla testa il banchiere Rotschild e i politici toscani, che congiurarono con la Sinistra di Agostino Depretis e di Giovanni Nicotera per provocare nel 1876 la caduta del partito risorgimentale della Destra storica che aveva fondato lo Stato unitario e ne aveva elaborato le leggi fondamentali.
Quella battaglia culminò, nel secolo appena passato, prima nell’inchiesta Saredo e infine nell’inchiesta Scalfaro, ed è una lotta che continua ancora oggi senza tregua perché ancora oggi vengono continuamente sacrificate le leggi sulla contabilità dello Stato e calpestati gli interessi generali della nazione, con il rischio che venga irrimediabilmente compromessa la vita delle istituzioni repubblicane e affievolita nelle nuove generazioni la virtù nazionale.
La tradizione in cui si colloca Pasquale Saraceno è, dunque, quella che si fonda sulla separazione tra amministrazione e potere politico e sulla difesa e valorizzazione dello Stato unitario. Ciò può apparire in contrasto con la rivendicazione, che egli sempre sosterrà, e con grande vigore, della necessità di un intervento dello Stato nel Mezzogiorno che abbia un carattere straordinario.
L’intervento, afferma Saraceno, poiché deve affrontare problemi che sono solamente del Mezzogiorno, non sembra che «possa collocarsi nel quadro di un ordinamento uniforme per tutto il Paese: la diversità dei modelli di sviluppo postula la diversità degli ordinamenti» [Introduzione al Rapporto 1984]. E quindi «l’intervento straordinario è necessario fin quando l’economia italiana risulterà composta di due sistemi, caratterizzati da modelli di sviluppo diversi; ignorare e negare questo persistente dualismo significa conformare l’azione pubblica esclusivamente al modello del sub-sistema più forte, consumando così una sostanziale sopraffazione degli interessi del sub-sistema più debole».
Tuttavia, è importante rilevare che in questa stessa pagina in cui si rivendica la necessità di un intervento pubblico straordinario, commisurato alla specificità dei problemi che si presentano nel Mezzogiorno, il discorso si allarga subito e coerentemente alla politica economica dello Stato nel suo complesso e alla stessa unità nazionale. Infatti, «l’obiettivo dell’unificazione economica [….] non può essere affidato esclusivamente all’intervento straordinario, ma richiede che il vincolo meridionalistico sia presente nella determinazione delle politiche nazionali».
Si aggiunga – ed è il punto fondamentale – che Saraceno, sempre nella stessa pagina che abbiamo citato, afferma che la specificità «dell’ordinamento» dell’intervento statale nel Mezzogiorno «non è in contrasto con la concezione fortemente unitaria che ha sempre ispirato il meridionalismo. Si potrebbe anzi dire che la separazione degli ordinamenti, in quanto strumento dell’unificazione economica e sociale del Paese, è esattamente condizione per prevenire l’insorgenza di tentazioni e velleità di separatismo».
Qualche mese prima della pubblicazione del Rapporto 1984, e precisamente il 19 maggio dello stesso anno, durante una conferenza sul tema “Il nuovo meridionalismo”, tenuta a Napoli presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Saraceno aveva pronunciato parole analoghe, in cui si avvertiva la preoccupazione per i primi forsennati attacchi all’unità nazionale: «In sostanza l’intervento straordinario costituisce una forma di separazione in due parti della nostra economia, separazione temporanea che, circoscritta alla sola politica di sviluppo economico, può coesistere con il permanere dell’unità politica; anzi esso ha come obiettivo quello di rafforzare l’unità».
Saraceno è stato un grande statista e un grande patriota, ma si badi bene, uno statista e un patriota che non amava l’Italia in modo astratto e non riduceva i suoi problemi a problemi di tecnica economica, ritagliati al di fuori della storia e di una visione umanistica. Egli amava disperatamente la sua gente ed in questo sentimento vivevano aspetti diversi della sua forte e poliedrica personalità: l’uomo di Stato e il maestro di scienza economica, il tecnico dell’economia e il difensore dell’ambiente.
Le sue proposte nascevano da un’analisi appassionata ma rigorosa della realtà economica del Mezzogiorno e del Paese, dalla conoscenza puntuale delle tendenze “oggettive” dello sviluppo, dalla frequentazione delle teorie che circolavano nel dibattito teorico del dopoguerra. La sua convinzione che la base imprescindibile di uno sviluppo autonomo del Mezzogiorno fosse l’industrializzazione non gli impedì di considerare con attenzione le opportunità connesse allo sviluppo di un terziario moderno e avanzato, nonché il rapporto di interdipendenza tra sviluppo economico e assetto sociale e civile delle grandi aree urbane.
Nella sua visione il mercato resta una “oggettività” innegabile, ma per il Mezzogiorno esso non è sufficiente: è necessaria l’azione dello Stato, che non è solo la disponibilità di fondi aggiuntivi e l’adozione di procedure più agili di quelle dell’amministrazione ordinaria, ma è «l’idea di governare secondo un programma».
Perciò, per Saraceno «resta più che mai viva la lezione di quei grandi servitori dello Stato che nel dopoguerra formularono l’idea stessa di uno speciale apparato pubblico non burocratico, al quale facessero capo unitariamente le responsabilità di programmazione, progettazione e finanziamento pluriennale degli interventi aggiuntivi e intersettoriali volti allo sviluppo della società meridionale […] una struttura funzionale sottoposta al controllo del governo per quanto riguarda l’indicazione degli obiettivi e la vigilanza sul loro perseguimento, ma pienamente autonoma sul piano organizzativo, tecnico e operativo» [Introduzione al Rapporto 1987).
Nel quadro di una irrinunciabile funzione di indirizzo che è propria della politica, Saraceno rivendica l’autonomia delle tecniche economiche nella sfera che è di loro competenza. La tensione morale che anima Pasquale Saraceno, dunque, quella tensione all’universale che gli fa dire che l’essenza della questione meridionale è di natura etico-politica, non è sovrapposizione di un astratto moralismo alle ragioni dell’economia.
In lui il rigore morale fa tutt’uno col rigore scientifico e tecnico, per cui si può ben a ragione affermare che Saraceno è stato, con la sua riflessione e con la sua opera, un esempio vivente, oggi più che mai da additare alle giovani generazioni, di come possano e debbano andare insieme economia e etica, e non per mera giustapposizione, ma perché una riflessione en économiste che voglia essere seria e rigorosa presuppone l’impegno per il bene pubblico e nello stesso tempo conferisce concretezza e incisività a questo impegno.
Non stupisce, quindi, il fatto che nelle Introduzioni ai Rapporti si manifesti sempre più vigorosa, di anno in anno, l’indignazione di Saraceno per la distorsione crescente cui è sottoposta la spesa pubblica nel Mezzogiorno sotto la pressione di quelle forze che sono interessate più ad una ripartizione privatistica dei fondi pubblici che al loro impiego per un effettivo sviluppo economico.
La denuncia delle conseguenze di questa distorsione diventa sempre più forte. Non solo essa è in contrasto con l’obiettivo dello sviluppo economico del Mezzogiorno – non si stanca di ripetere Saraceno – ma soprattutto finisce per aggravarne il degrado morale e civile. Nel 1900 Francesco Saverio Nitti scriveva su “La Riforma Sociale”: «Il problema di Napoli non è dunque soltanto economico, ma sopra tutto morale : ed è l’ambiente morale che impedisce qualsiasi trasformazione economica».
Novanta anni dopo Saraceno scrive che la modernizzazione è solo apparente; con essa convivono fenomeni ereditati da «un lontano passato lazzaronesco e feudale»: sopraffazione e asservimento, commistione tra pubblico e privato, scambio di protezioni e fedeltà personali. «Questa convivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali del passato – scrive Saraceno nell’Introduzione del 1990 – è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità».
Il tono si fa preoccupato ed accorato. La criminalità ha assunto dimensioni economiche così rilevanti e si manifesta in episodi così vistosi e terribili da determinare l’immagine che il Mezzogiorno propone di sé, oscurando l’impegno di quelli che, anche nel Mezzogiorno, partecipano alla vita economica, sociale e politica ispirandosi «ai principi della civile convivenza, dello Stato di diritto, del rispetto della morale e della legge».
Saraceno sottolinea la penosa condizione di isolamento in cui è costretto ad operare chi si ispira al bene pubblico e non all’interesse privato: un isolamento determinato dal potere di intimidazione e di corruzione della criminalità, dalla dissoluzione del meridionalismo politico, dalla paralisi decisionale e operativa dello Stato.
Ma il rapporto tra criminalità e politica è solo la punta più estrema e pericolosa della rete di rapporti che nel Mezzogiorno intercorrono tra gestione delle risorse pubbliche e interessi privatistici. Saraceno, che ha sempre insistito sulla necessità dell’intervento straordinario e ha sempre cercato di far capire che il vero problema è nell’uso che di questo strumento viene fatto, ha visto che col passare degli anni esso è diventato preda di famelici appetiti e fonte esso stesso di clientelismo e corruttela.
Intorno alla spesa pubblica nel Mezzogiorno, egli afferma, si è costituito un nuovo «blocco sociale», «molto più radicato e diffuso, e quindi molto più forte, del vecchio “blocco agrario”». È all’azione di questo blocco sociale che si deve il deperimento della politica meridionalistica, sostituita da interventi parziali per far fronte a questa o a quella emergenza «con il ricorso sempre più frequente a procedure e strumenti speciali e derogatori». In queste parole c’era la piena consapevolezza, come possiamo testimoniare, della rapina e del saccheggio della pubblica ricchezza da parte di forze neofeudali che nulla hanno a che fare con autentiche forze produttive, ma sono soltanto i residui «di un passato lazzaronesco e feudale» e di «residui socio-culturali».
Quando denunciava procedure e strumenti derogatori o l’uso distorto delle risorse, Saraceno si riferiva a quelle cattedrali nel deserto consapevolmente destinate alla rottamazione e che costarono al pubblico erario somme che avrebbero potuto salvare l’infanzia di interi paesi sottosviluppati, pensava a tutte quelle risorse impegnate in faraonici megaprogetti, pensava alle grandi dighe inutili, ai giganteschi ed inefficienti impianti di depurazione, alle rovinose cementificazioni di argini, agli infiniti lavori pubblici i cui progetti non furono mai valutati o rigorosamente valutati e spesso anche non approvati formalmente, ma eseguiti con la più spietata devastazione dell’ambiente e con spreco immenso di denaro pubblico.
La scandalosa vicenda del dopo terremoto aveva contribuito ad accentuare la vena di pessimismo presente nella riflessione dell’ultimo Saraceno. Tuttavia la conclusione alla quale egli perveniva era tutt’altro che il disarmo morale e la resa di fronte ad una ineluttabile degenerazione. Piuttosto, era improntata alla necessità di riconfermare il proprio impegno di lotta civile: «Ritornare ad una politica per il Mezzogiorno ispirata allo sviluppo e non all’assistenza, […] alla netta separazione anziché alla confusione tra potere politico e responsabilità gestionale, significherebbe battere il blocco sociale e dar vita alla formazione di un nuovo blocco sociale orientato al progresso» [Introduzione 1990].
Ecco che in questa affermazione emerge la ferrea volontà dell’uomo di Stato che pensa ad una vera e propria rivoluzione, in continuità con quella unitaria del Risorgimento, per eliminare dalla scena italiana quel «blocco sociale» che Giorgio Ruffolo ha definito «i nuovi briganti» e fare avanzare «il progresso economico e civile dell’intera Nazione. Nazione, la nostra, che, per dimensione demografica ed economica e per tradizione culturale, andrebbe iscritta nel novero delle grandi nazioni europee: solo che ne avesse, al pari delle altre, la volontà e l’orgoglio.»
Il lungo e doloroso travaglio di Pasquale Saraceno sui problemi della questione meridionale e tutta la sua amara esperienza sull’industrializzazione del Mezzogiorno collocano questa grande figura di uomo di Stato nel filone di pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento. L’uno e gli altri sono uniti in una medesima sofferta esperienza, nella faticosa analisi della vera contraddizione, derivante dalla permanenza di pesanti residui feudali nel Mezzogiorno d’Italia.
Infatti, la contraddizione principale non era per Saraceno la contraddizione di classe. L’idea che questa fosse la contraddizione principale ha sviato intere generazioni e quasi tutti i partiti politici nella riflessione sulla questione meridionale e ciò spiega fino in fondo l’isolamento terribile al quale fu condannato Pasquale Saraceno: egli non poteva essere compreso con le lenti delle teorie politiche correnti a cavallo dei due secoli, né con la storia viziata di sociologia che ha fatto perdere il proprio tempo a tante menti brillanti per lunghi neghittosi anni.
Solo se si colloca Saraceno nel filone del pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento e in particolare del pensiero di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano e della loro teorizzazione, costruita sulle orme di Vico, della faticosa formazione e della faticosissima e drammaticissima affermazione dello Stato e della sua giurisdizione contro gli interessi soffocanti e implacabili della «violenza privata», solo in questo quadro si può comprendere l’immenso valore dell’impostazione teorica e della battaglia solitaria di Pasquale Saraceno contro quel «blocco sociale» che è la robustissima sopravvivenza dei «residui feudali» e della «violenza privata» che Benedetto Croce chiamava «eterna rapina».
L’originalità del pensiero di Saraceno sta nell’affermazione della natura neofeudale di questo «blocco sociale». Esso è la violenza degli interessi privati che continua quella «eterna rapina» che era la caratteristica delle forze feudali che si opponevano al sorgere dello Stato moderno nel Regno di Napoli. Quelle forze si trasformarono e si mimetizzarono sotto la forma di società anonime nello Stato unitario, andando all’assalto delle grandi opere pubbliche necessarie alla costruzione del nuovo Stato: strade, ponti, grandi vie di comunicazione, la rete ferroviaria.
Saraceno comprese che le famiglie della piccola borghesia e gli intellettuali che si rifiutavano con sdegno di entrare a far parte del gioco parassitario, o che non riuscivano a conquistare qualche posizione di privilegio nell’anarchia imposta dai nuovi predoni, venivano ridotti in una condizione precaria ai limiti della povertà. È comprensibile, quindi, la vena di pessimismo che pervade l’ultimo Saraceno. Si era al fallimento dell’intervento straordinario, e con esso sembrava fallire un intero progetto civile e lo Stato di diritto. Prevaleva il «blocco sociale» con tutto il suo scenario di orrori, mentre si profilava il nuovo scenario delle privatizzazioni che avrebbe visto la liquidazione dell’IRI e delle grandi aziende di Stato.
Vale la pena ricordare, a questo proposito, una lettera di Silvio Spaventa agli elettori del Collegio di Bergamo, raccolta da Benedetto Croce negli scritti del grande statista protagonista del Risorgimento italiano che, liberato dall’orrendo ergastolo di S. Stefano, aveva assunto funzioni di governo nello Stato italiano: «…Erra grandemente, a mio giudizio, chi vorrebbe togliere al governo l’amministrazione propria di alcuni grandi e generali interessi pubblici, dove la partecipazione più o meno insindacabile dei privati cittadini si risolve, sempre, nell’arricchire i pochi e nell’immiserire i più. Bisogna guardarsi dal culto di certi principi astratti, che riescono, in ultimo, a questa conseguenza; che, quando si tratta degli interessi di tutti, il governo non deve far niente; e quando poi si tratta degli interessi di pochi, esso è indotto a fare, a spese di tutti, ogni cosa. E di queste anomalie e incongruenze abbondano gli esempi».
Vogliamo infine ricordare che al centro del programma civile di Pasquale Saraceno c’era lo sviluppo della ricerca scientifica e la formazione culturale e civile delle nuove generazioni. Nell’attuazione di questo programma Saraceno coinvolge il Ministero per il Mezzogiorno, l’IRI – Istituto per la Ricostruzione Industriale. La ricerca e la formazione delle nuove generazioni sono la base principale di tutto il programma civile di Pasquale Saraceno e possiamo ben a ragione affermare che anche questa ansia e questa sollecitudine per i problemi dell’educazione lo legano alla tradizione che da Antonio Genovesi passa attraverso tutti i grandi pensatori meridionali.
Negli ultimi anni della sua vita, Saraceno si rivelava ancora più convinto che fosse necessaria un’azione rivoluzionaria dello Stato per la lotta contro il blocco sociale che si era costituito per l’accaparramento delle risorse pubbliche nel Mezzogiorno e che da esse aveva tratto alimento per crescere ed espandersi con la complicità e il concorso di grandi imprese provenienti da ogni parte del territorio nazionale.
Nella Introduzione al Rapporto 1991 – che egli non fece in tempo a redigere personalmente ma che giustamente gli si può attribuire perché vi si sente la viva presenza della sua lezione – si può leggere la preoccupazione per «l’appassire del sentimento dell’unità nazionale», per «il diffondersi, in luogo di quel sentimento, di un rumoroso populismo dialettale che reclama, in nome di interessi e culture locali, la liquidazione fallimentare della nostra storia unitaria» e, aggiungiamo noi, della virtù nazionale. Una denuncia dell’involgarimento della società civile, del degrado del costume e della morale, della perdita del sentimento dell’unità nazionale.
Anche per lui possono valere, nonostante l’indubbia diversità di indole e cultura delle due personalità, le parole che in occasione del convegno promosso a Bergamo nel 1990 dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, sul tema “Il dibattito sull’unità dello Stato nel Risorgimento italiano”, Giovanni Spadolini dedicava a Silvio Spaventa: fu un uomo che ebbe una fede assoluta in «quell’unità italiana che sembra oggi ridiscussa e oggetto di contestazioni o di dissacrazione da parte di chi giura sui simboli dei vecchi comuni travolti dall’unità; o rievoca un’Italia federale che come tale non è mai esistita e che il Risorgimento in ogni caso trascese nella creazione di un nesso spirituale e politico».
fonte: www.iisf.it
un articolo senza testa e senza piedi, parla del’IRI e’ non fa riferimento al period o di nomina nel “periodo del male assoluto” non fa nessuno riferimento alla enorme mole delle leggi sociali del “male assoluto” e di tutti I pensatori scomodi come Auriti, Paund, Domenico Gianpietro Pellegrini ecc. dimenticavo il nome del male assoluto il FASCISMO. Noi vogliamo per la salvezza dell’Italia LO STATO NAZIONALE DEL LAVORO. Un soldato politico Domenico Capotorto
Una prospettiva che non ci riguarda minimamente.