Mi dichiaro studente lavoratore: la "cultura" della precarietà

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  1. Eugenio Orso ha detto:

    Ci sono delle attività umane e lavorative in cui la precarietà non ha necessariamente connotati negativi, di sfruttamento del lavoro.
    L'attore di teatro, che può stipulare contratti per periodi inferiori il mese o la settimana, una parte della docenza e dei ricercatori nel mondo accademico, che accettano contratti a termine con una nuova università per migliorare la loro formazione e per poter fare determinate ricerche, il consulente [in ambiente tipicamente capitalistico] che lavora per diverse entità aziendali, stipulando contratti prima con una e poi con un'altra, rientrano in questo ordine d'idee.
    La condizione precaria è sempre esistita nella storia umana, ma, come la povertà [dipendere dalla benevolenza altrui per la stessa sopravvivenza], ha riguardato minoranze del dieci per cento, o di poco superiori.
    E' con l'"evoluzione" del capitalismo, ed anzi, con la mutazione genetica dell'ultimo trentennio, che la precarietà nel lavoro che si diffonde e tende ad investire l'intera dimensione esistenziale del singolo, e la povertà che oggi, nel mondo, riguarda tre o [più probabilmente] quattro miliardi di individui [oltre la metà della popolazione mondiale], assumono una dimensione ed un'importanza come mai nel passato, dagli Elleni al Novecento.
    Per quanto riguarda la precarietà lavorativa, l'essere studenti-lavoratori senza posto fisso, interinali, collaboratori coordinati e a progetto, eccetera, con poche prospettive future di stabilizzazione, è niente altro che il riflesso culturale e sociale di un elemento strutturale [da intendersi in senso marxiano] del nuovo modo di produzione sociale che si sta affermando.
    Questo elemento strutturale, che porta le giovani generazioni a percepire come "naturale" la condizione precaria, comporta la manipolazione culturale ed antropologica dell'uomo, ed in particolare dei giovani, per adattarli alle dinamiche ed alle logiche del Nuovo Capitalismo, prevenendo il rischio della conflittualità.
    Ciò che bisogna combattere, nel conflitto asimmetrico con il Nuovo Capitalismo e i suoi agenti storici globalisti, è proprio la manipolazione dell'uomo con tutte le sue pesanti e decisive ricadute sociali e culturali, destinate a forgiare un subalterno "pauper" che trova naturale arrabattarsi per sopravvivere, fra un lavoro di tre mesi ed un periodo di disoccupazione, fra un reddito di cento ed uno, successivo, di novanta, inferiore al primo, magari convinto, nella sua penosa condizione che non consente alcuna crescita [né umana né professionale], di essere effettivamente l'artefice del proprio destino, e cioè, con una brutta espressione propagandistica dei maledetti liberisti, "imprenditore di se stesso".
    Ma facciamo bene attenzione, perché con il tempo che scorre e le generazioni che si alternano, senza alcun contrasto rivoluzionario questo processo di trasformazione e de-emancipazione [che io ho chiamato "processo di flessibilizzazione delle masse"] potrà giungere a compimento.
    Del resto, gli antichi vernae, cioè gli schiavi nati da schiavi e allevati come tali, spesso non riuscivano neppure a concepire, per se stessi e per i propri discendenti, una condizione di vita diversa …
    E ciò è atroce.
     
    Eugenio Orso
     

  2. stefano.dandrea ha detto:

    Eugenio,

    hai confermato, analiticamente, ciò che ho sintetizzato nell'ultima frase.

    Io, poi, volevo dire qualche cosa di più. Che studenti di oggi, che si trovano nella medesima condizione di studenti di ieri, si considerano studenti lavoratori, mentre quelli di ieri non avevano questa opinione di se stessi. Che c'è anche una tendenza a "cantarsela", a "tirarsela" e a convincersi di essere precari prima di esserlo diventati. Che molti ritardano gli studi per finanziare consumi futili, accettando di lavorare per pochi euro all'ora quando non ne avrebbero alcun bisogno.

    Chi, senza essere necessitato, ma soltanto per consumare come gli altri, studia part time e lavora part time per sette anni (allungando i tempi della laurea), in certo senso si candida ad essere part time tutta la vita. Gli studenti seri, non muniti di sufficiente ricchezza, vanno in campeggio, si laureano con celerità o comunque in tempi ragionevoli, vanno a correre anziché in palestra, utilizzano l'autovettura dei genitori e, se sono fuori sede, sono privi di autovettura nella città in cui svolgono gli studi. Questo è ciò che ho fatto io e decine di migliaia di studenti come me.

    Un conto è accettare un lavoro precario per vivere; un conto è desiderare un lavoretto settimanale per consumare di più. Gravissimo è che chi compie la seconda scelta si consideri uno studente lavoratore.

  3. Marco ha detto:

    Io sono un lavoratore studente. Ho iniziato da poco, 3 settimane, sto ancora cercando di organizzare bene sia il tempo che il metodo di studio.
    Mi alzo alle 4 del mattino, studio fino alle 7, faccio qualche esercizio fisico e poi vado al lavoro fino a.. beh fino a quando non finisco. Torno a casa e al massimo entro le 22 sono a letto. 
    Non lo considero un sacrificio. Solo non riesco ancora ad ottenere i risultati che vorrei. Se avesse qualche consiglio per aumentare la produttività del tempo che ho a disposizione, lo apprezzerei davvero molto.
    Grazie

  4. stefano.dandrea ha detto:

    Marco, direi che dovresti riuscire a imparare a studiare per tanto tempo al giorno. Diciamo dalle 7 alle venti, quando, per qualche ragione sei libero dal lavoro. Il sabato andrebbe benissimo, se non lavori. Oppure sei costretto ad esercitarti la domenica. A ridosso degli esami tra riposi,permessi  per studio, ferie e giorni festivi è importante saper dedicare allo studio (almeno) 12 ore al giorno per più giorni possibile. Chi ha la capacità di "andare in missione" ed estraniarsi pressoché da tutto (amici, amore, telefonino, internet – soprattutto) per quanti più giorni è possibile, rende di più ed è generalmente più bravo.

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