Non c’è stato un giorno nei mesi estivi in cui non si è parlato su giornali e televisioni dei flussi migratori nel Mediterraneo, in particolare dopo lo scandalo delle ONG accusate di collusione con i trafficanti, in seguito ridimensionate dopo l’entrata in vigore (31 luglio) del codice di condotta voluto dal ministro di ferro Marco Minniti. Se rispetto all’anno scorso nel mese di luglio gli sbarchi sono stati dimezzati, ad agosto c’è stato un evidente calo dovuto agli accordi raggiunti dall’Italia sia con il governo presidenziale di Fayez Al-Serraj, sia con i sindaci del Fezzan (il Sud del Paese), ricevuti a Roma il 26 agosto. Ma il teorema non finisce qui: se diminuiscono le partenze dei barconi, diminuiscono inevitabilmente anche le vittime in mare(zero negli ultimi 20 giorni secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni). 

La fotografia che aveva accompagnato la campagna mediatica quando gli sbarchi partivano.

La fotografia che aveva accompagnato la campagna mediatica quando gli sbarchi partivano.

Eppure gli opinionisti “progressivi”, dopo aver martellato per mesi sui cadaveri galleggianti o inghiottiti dalle acque, invece di felicitarsi dei risultati raggiunti spostano l’attenzione sui centri per migranti in Libia dove le condizioni sono “inaccettabili”. Tra Tripoli, il Nord-Ovest del Paese e Sebha ne esisterebbero una quarantina con una capienza totale di 8 mila persone. Nessuno vuole negare la violenza di queste strutture, Domenico Quirico lo ha documentato magistralmente un paio di settimane fa su La Stampa, ma forse è il caso di spiegare a questi frequentatori di aeroporti, che i loro flussi migratori non sono un viaggio in prima classe e che da quelle parti, dove regna lo stato di emergenza, non si possono costruire “lounge” patinate con luci, buffet e poltrone massaggianti. Chi sceglie di partire, sceglie di lasciare tutto, affidandosi alla provvidenza prima ancora della sorte. I popoli cresciuti nelle società tradizionali in fondo hanno un rapporto diverso con la sofferenza, che affrontata virilmente, e non sarà la compassione di noi occidentali, immersi nel benessere, a farli sentire meno soli. Finiamola con lo spettacolo del dolore. Vale anche per i cattolici: la parabola del buon samaritano narrata nel Vangelo non può essere applicata agli Stati che hanno il dovere morale e civile di tutelare la loro comunità. E se l’immigrazione è un pericolo per quest’ultima occorre fermarla. 

“I membri delle nove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale o una località turistica non ancora scoperta. La loro è essenzialmente una visione turistica del mondo…” (Christopher Lasch)

A preoccupare è piuttosto la superficialità di coloro i quali, di fronte alla tragedia, continuano ad alimentare i flussi migratori sul piano simbolico. Quando in realtà bloccare gli sbarchi, le partenze dai porti della Libia, significa innanzitutto rompere la narrativa del sogno europeo venduta per decenni ai diseredati del pianeta e ricostruire nel loro sistema valoriale quello che Benedetto XVI definiva il “diritto a non emigrare”. Un principio sacrosanto che i sostenitori della open society, della società aperta, continuano ad ignorare egoisticamente ponendo sullo stesso piano lo sradicamento dell’uomo con il progresso umano.

Se ti è piaciuto l’articolo votaci al Macchianera Internet Awards (hai tempo fino al 15 settembre).

Se ti è piaciuto l’articolo votaci al Macchianera Internet Awards (hai tempo fino al 15 settembre).

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/editoriale/immigrazione-libia-minniti/