Si è ormai convenuto che l’italiano è uno spirito più intelligente che fattivo, più idealista che pratico, più povero quindi che ricco – materialmente parlando. Con queste parole l’inserto Pagina degli artigiani del quotidiano L’impero iniziava un articolo dal titolo piuttosto esplicito: “Una meta che gli italiani devono raggiungere, esportare“, firmato con lo pseudonimo de “Il lupo di mare”. Il suggerimento di quest’ultimo, dunque, è chiaro: “Noi siamo maestri di artigianato e dobbiamo assolutamente guadagnarci i mercati stranieri“. Correva l’anno 1928.

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Da allora, se non sono cambiati poi molto gli obiettivi, lo sono certamente le scelte economiche, se è vero che almeno da trent’anni in Italia e nel mondo vengono portate avanti politiche di libero mercato, e dunque di guerra totale ai dazi doganali – e alle barriere non tariffarie, ma questa è un’altra storia. Per questo motivo si spiega il messaggio di pochi giorni fa del ministro Mise Carlo Calenda, che con un tweet si è scagliato contro l’idea di Matteo Salvini di “mettere i dazi come Trump”, proposta che per il ministro è “fessa e irrealizzabile“, sia perché “i dazi li può mettere solo la Ue” e secondo poi perché l’Italia “ha un surplus superiore a 50 miliardi mentre gli Usa hanno un deficit di 500 miliardi”. La conclusione è che il leader del Carroccio abbia per “obiettivo” quello di “distruggere il made in Italy“. Su questa diatriba virtuale è intervenuta anche l’Agenzia giornalistica italiana (Agi) con un fact checking per valutare chi dei due avesse ragione: la risposta è “Calenda” – seppur “con lievi imprecisioni” – perché “solo l’Unione europea può imporre dazi”, e l’imposizione eventuale di questi ultimi per noi sarebbe una cosa “probabilmente dannosa”. Le imprecisioni però sono tutt’altro che lievi, perché sia il ministro che l’Agi non hanno offerto il quadro più ampio: sulla politica fiscale la realtà è ben peggiore, e le esportazioni, da sole, non riusciranno a salvare la nostra economia.

Cominciamo dai dazi:

le parti convengono che le tasse e altre imposizioni interne, così come leggi, regolamenti e prescrizioni riguardanti la vendita, l’acquisto, il trasporto la distribuzione o l’uso dei prodotti nel mercato interno e le regolamentazioni quantitative interne che prescrivono la mescolanza, la trasformazione o l’uso di certi prodotti, non dovranno applicarsi ai prodotti importati o nazionali in maniera da proteggere la produzione nazionale.

Questo è l’articolo III del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) al quale l’Italia partecipa dagli anni ’50; se non fosse sufficiente, lo stesso articolo viene ripreso e inglobato dal WTO (1995), ossia l’Organizzazione mondiale del commercio, nonché da praticamente ogni trattato di libero scambio internazionale (Ceta, Ttip, ttp eccetera). Detto altrimenti, non solo l’Italia ma praticamente il mondo intero – sulla carta – è impossibilitato a poter sovranamente decidere la propria politica fiscale da almeno settant’anni, e certamente da più di venti viene impedito agli Stati di fare gli Stati e dunque di “proteggere la produzione nazionale”, come dicono i trattati stessi.

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L’obiettivo è quello di aprire completamente i mercati e sostenere il commercio internazionale, impedendo al contempo ogni azione di tipo pubblico che, al pari di mera concorrenza sleale, viene vista come un mezzo “di discriminazione arbitraria o ingiustificata tra Paesi in cui vigono identiche condizioni”. Eliminare ogni tipo di barriera poi fa sì che, come noi abbiamo – teoricamente – più facilità di esportazione, altri hanno – più praticamente – la stessa facilità di entrare nei nostri mercati. Difatti “regole uguali per tutti” significa non-regole, che per forza di cose vanno a vantaggio di taluni e a svantaggio di altri. Un esempio? L’etichettatura “a semaforo” che si sta diffondendo in Europa: pretende di “allertare” il consumatore su quanto o meno sia sano il cibo esposto sulla base di semplici valori nutrizionali (come grassi e zuccheri) e non sulla loro qualità, cosa che paradossalmente va a discriminare le produzioni certificate come le Dop italiane, avvantaggiando prodotti di dubbia origine e di basso prezzo.

Eppure, ha giustamente sottolineato Calenda, l’Italia è “in surplus di 50 miliardi”. Significa che esportiamo più di quanto importiamo, ed effettivamente le nostre esportazioni nel 2017 sono state di oltre 450 miliardi, contro i circa 400 di importazioni. Tutto a posto allora? Non proprio. Perché 400 miliardi di importazioni sono una cifra esorbitante andata nelle tasche di aziende straniere che vendono i loro prodotti in Italia. E imprese straniere significa lavoratori stranieri, e lavoratori stranieri significa non italiani, e quindi non a vantaggio dell’economia italiana. Sembra banale e in effetti lo è.

Il nostro “record” nell’export è l’unico valore che ha tenuto in alto la nostra timida e accennata “crescita”, ma si tratta di un valore falsato, che non tiene in considerazione le esternalità negative. Gli ultimi governi hanno particolarmente spinto per l’internazionalizzazione delle imprese, ossia per aggredire i famigerati mercati stranieri; questo perché gli italiani hanno il Pil pro capite tra i più bassi d’Europa – per via di molteplici ragioni che per questioni di spazio non andremo a approfondire, quali la moneta unica, tagli alla spesa pubblica, aumento della pressione fiscale, etc. – e quindi sono andati all’estero a cercare chi ancora, banalmente, avesse i soldi.

in questo negozio

Nel frattempo gli italiani, sempre più squattrinati per politiche interne e esterne, vanno a comprare prodotti a basso prezzo, spesso appunto stranieri, mentre le nostre aziende chiudono – togliendo ulteriore lavoro, stipendi e economia – o peggio vendono. Come ha recentemente ricordato Il Sole 24 Ore, soltanto nel settore del cibo “Tra il 2015 e il 2017 gli investitori stranieri hanno rilevato i marchi dell’alimentare italiano per oltre 5,4 miliardi, mentre lo shopping oltreconfine delle aziende italiane del settore è stato di soli 360 milioni. Un quindicesimo”. Per non parlare poi delle migliaia di imprese che hanno delocalizzato e continuano a delocalizzare. Puntare tutto sull’internazionalizzazione è una visione miope. Prima di tutto, il consumo interno è fondamentale, e molte imprese di prodotti o servizi locali non possono fisicamente né devono esportare; le stesse danno, o darebbero lavoro a moltissime persone, sempre più destinate alla disoccupazione o a lavorare per aziende forestiere. Ancora Calenda ha di nuovo ragione, allora, quando in un altro tweet sottolinea come dalla crisi l’Italia abbia perso il 25% di produzione industriale. Peccato che è proprio per i motivi che abbiamo visto che non siamo mai riusciti a recuperarla.