Una guerra delle desinenze, una lotta degli -isti e gli -ofobi, uno scontro di preposizioni, di filo- e di anti-, perché non ne risulti altro che un guazzabuglio retorico: questo molto spesso abbiamo sotto gli occhi quando sentiamo parlare di razzisti, di fascisti, di sessisti… Lo abbiamo visto all’opera nel caso dell’omicidio di Macerata e nel dibattito psicotico che ne è derivato, lo vediamo in opera negli azzanni antileghisti contro Tony Iwobi e in quelli anticomunisti di certe frange che si vogliono filofasciste, continuiamo a percepirlo nelle condanne culturali a colpi di etichette (populista! fascista! neoliberista! capitalista! comunista! sessista!), una mentalità culturale il cui cuore è uno, uno soltanto: bollare, stigmatizzare, identificare, nominare, definire, classificare, timbrare con le parole, e non capirci più nulla. Il problema è che le parole non sono affatto innocenti, il problema è che queste talvolta si traducono in fatti, in manifestazioni di pubblico odio o di pubblica ipocrisia, con un fondo comune: la contraddizione e la perdita di contatto con la realtà.

tony iwobi

Nelle Ricerche filosoficheWittgenstein si poneva una domanda importante:

Il denominare è simile all’attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all’uso della parola. Ma a che cosa ci prepara?

Rispondere è difficilissimo: è in gioco la questione stessa dell’essenza dell’uso del linguaggio in ogni circostanza umana, anche quella culturale e sociale. Il gesto di un bambino di indicare e nominare le cose, anche con un linguaggio apparentemente privato, è un gesto preliminare, preparatorio. Ma che gesto è? Qual è la sua funzione? Sembrerebbe che il carattere di questo fenomeno che chiamiamo in genere, con una certa innocenza, linguaggio, sia nient’altro che il tentativo umano di avere un’immagine del mondo: alle cose facciamo corrispondere le parole. Quando Wittgenstein scrive queste frasi, negli anni Cinquanta, ha già compreso non solo che alcune tesi soggiacenti a questa visione del linguaggio sono probabilmente fallaci, ma che questa idea, che il linguaggio si limiti a denotare il reale, è troppo semplicistica. No, il linguaggio è una macchina molto più complessa e molto meno infantile, e quella di denotare il mondo è solo una tra le molte funzioni, tra i molti giochi (termine di Wittgenstein) che il linguaggio è in grado di mettere in atto. Da qui, la metafora e il termine gioco, che prendiamo a prestito.

I giochi, si sa, possono essere molto pericolosi. Tutt’altro che candidi e ingenui, i bambini quando giocano non stanno facendo nulla di scontato. Anzi, mettono in atto un meccanismo infinitamente articolato che, alcune volte, può avere toni anche molto inquietanti. Uno degli aspetti più interessanti è quello sottolineato a più riprese da molta (filo)pedagogia: il gioco è una parentesi della realtà. Ma lungi dall’essere una semplice simulazione, questo mettere da parte la realtà mentre si è mosca cieca o lupo affamato non solo sospende il reale (con le sue regole) ma ne produce un altro (con altre regole). È solo un gioco d’altra parte, ma è anche una realtà dove nessuna giurisprudenza ci vieta di uccidere, dove si diventa animali e fate, dove la moralità può vacillare, dove la cultura muta, talvolta con effetti psicologici piacevoli e terapeutici, talvolta con conseguenze non da poco sulla realtà alla quale si fa ritorno. La filosofia ci mostra come linguaggio e gioco siano profondamente accomunati, come, anche banalmente, anche il giocare con la parola può nascondere problematiche.

Ludwig Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein

La stigmatizzazione sociale, l’etichettatura culturale, tutto questo è anche un fenomeno linguistico. Quando giochiamo in questo modo non ci limitiamo a esprimere un contenuto soggettivo sulla realtà, la oggettiviamo, la creiamo. Quando si etichetta qualcuno, ad esempio, come razzista non ci si limita a identificare con una parola un (probabile) esempio in vivo di razzismo. Frantz Fanon, uno dei filosofi francesi più importanti in questo contesto, diceva che è proprio il razzista a creare il nero come era il colonialista a creare il selvaggio: in questo l’operazione linguistica ha un valore fondamentale. Diciamo razzismo (ma potremmo parlare di altri -ismi), perché la questione razziale in Italia ha forse assunto, in questo senso, i connotati più marcati. È l’esempio lampante che su suolo italiano – virtuale e non – sembra che non abbiamo tanto un problema con il razzismo e l’antirazzismo, ma con i razzisti e gli antirazzisti, con gli esempi di questo o quel razzismo: è ovunque pieno di razzisti e di antirazzisti, di uomini e donne che passeggiano con un cartello addosso con su scritta la parola o che, di prepotenza, scrivono il termine (talvolta indelebilmente) sulla fronte di qualcun altro.

Dall’essere figurata, la questione diventa più concreta che mai: io sono antirazzista, io sono antifascista, io sono…, con tanto di marchio sul proprio profilo Facebook. Mi etichetto, quindi sono, ti etichetto, dunque sei, versione scheletrica di un cogito linguistico in grado di fare molti più danni rispetto a quelli che si propone di evitare: inscatolare semplicisticamente l’altro con poche sillabe, sentirsi la coscienza pulita, magari umiliando, odiando, evitando, fare una cernita tra i propri compagni in questa guerriglia di carta e di hashtag, essere attivi in un gioco di ruolo in cui si gareggia con le parole, le urla e i gesti. Qualche bottiglia viene spaccata, poi, per rendere tutto meno discorsivo e inattuale, e talvolta si perde il lavoro e la faccia… Ma d’altra parte, se si gioca bisogna farlo bene.

Frantz Fanon

Frantz Fanon

Se solo ci fosse un po’ più di coscienza non emergerebbero affatto le incrinature che rendono questo creepy show nient’altro che una pericolosa caciara. I rischi di un gioco preso troppo seriamente sono chiari anche solo dalla definizione che abbiamo dato: il ritorno alla realtà diventa sempre più difficile e si vedono pedine di gioco dappertutto. Si rischia di dare del razzista al proprio vicino di casa, a chiunque sembri proferire qualsiasi parola che assomigli, anche vagamente, a un canto di difesa razzista. Non sono razzista, ma… e si è già razzisti. Io sono favorevole all’immigrazione, ma… e già si è degli xenofobi e fascisti convinti.

In altri termini, è molto difficile non essere bollati come razzisti: per farlo non bisogna ragionare, bisogna etichettarsi con molta delicatezza, bisogna affermare refugees welcome, bisogna essere per le frontiere aperte, bisogna essere anti-Trump, bisogna magari avere una copia del 18 brumaio di Marx in tasca, magari votare a sinistra (ma non la sinistra renzusconiana) e non inneggiare a Grillo, Salvini o alla Le Pen, bisogna cancellare la parola “populismo” dalla Treccani di casa, bisogna insomma essere tutto quello che (alcuni de)gli antirazzisti etichettano come tale. Ciò è a maggior ragione confermato dalla sua controprova, dal suo negativo, quando si dimentica il colore della pelle e il primo senatore nero italiano, che non è la Kyenge, è automaticamente oggetto di battute a sfondo razzista dai sedicenti antirazzisti (come già ben sottolineato), in quanto gli è mancata l’etichetta politica adeguata: allora il razzismo, con una paradossalità a dir poco maligna, è accettabile, allora l’antirazzista in questione può permettersi una sana dose di razzismo.

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Ora, qui non si tratta di fare una riflessione astratta sul linguaggio o sui mezzi di comunicazione di massa (che fanno funzionare ad libitum questo meccanismo) né di discutere di una problematica socio-culturale visibilmente attiva nel nostro paese né tantomeno di fare lo stesso gioco degli etichettatori e bollare alcuni di coloro che si professano antirazzisti come dei ciarlatani. Si tratta di affermare che è pericoloso giocare con le parole. Che ipostatizzare il razzismo etichettando compulsivamente il razzista (a volte finendo con l’indicare dei semplici fantasmi), secondo i propri requisiti, viene meno allo stesso scopo di chi compie questo gesto, cioè dimostrare l’esistenza del fenomeno, individuarlo, definirlo, magari risolverlo.

Ciò di cui si parla poco è, davvero, del razzismo, della natura del fenomeno così come appare nei nostri contesti, di che cosa sia, di come si mostri, di come venga concepito e attuato, quale sia la contestura del soggetto razzista e del soggetto che subisce atteggiamenti razzistici (che sia il soggetto migrante o ancora il soggetto colonizzato o il soggetto “di colore”…). Non basta indicare un presunto razzista e lanciare qualche hashtag per parlare di razzismo, come non basta indicare un ente per parlare dell’essere. Anzi, così facendo, si rischia di confondere il fenomeno, di mescolarlo con tutte le sue componenti interne senza comprendere più nulla, addirittura si rischia di sbagliare clamorosamente, nel caso il nostro dito finisca sul soggetto sbagliato. Se lo scopo è annullare il fenomeno, poi, così si è distanti anni, quando i problemi in questione sembrano tutt’altro che inattuali.