L’eredità del 10 febbraio 1947
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Non sappiamo se il nuovo Parlamento sarà in grado di esprimere e sostenere un governo. Non sappiamo neanche se l’eventuale governo sarà in grado di incontrare l’aspettativa generale di uscire dal degrado economico e culturale a cui vent’anni di dittatura mondialista ci hanno condannato. In ogni caso le ultime elezioni hanno avuto un risultato esplicito: il ceto politico che ha rovinato l’Italia per conto del potere mondialista ha perso per sempre la fiducia degli italiani.
Di cosa abbia bisogno l’Italia non è affatto chiaro, perché spesso manca la consapevolezza della posizione dell’Italia nel mondo. Si tratta di un fatto troppo banale per essere percepito e diventare presupposto di ogni considerazione politica: l’Italia in cui siamo nati e vissuti è basata sì sulla Costituzione del 1948, ma anche sul Trattato di pace del 10 febbraio 1947; e tra i due documenti è aperto il più amaro contrasto. Per la Costituzione del ‘48 siamo infatti un popolo sovrano, per il Trattato di pace del ‘47 siamo una nazione sconfitta, colpevole, senza forze armate, senza politica estera, senza controllo del territorio, senza magistratura indipendente. Una nazione indotta a dividersi in partiti inesorabilmente ostili, che si appoggiano a potenze straniere e si nutrono di esterofilia.
Evitata la ruralizzazione dell’Italia nei disegni della Gran Bretagna, i nostri padri hanno con tenacia riconquistato l’emancipazione economica, ma non quella quella politica e culturale. È stato dunque fatale che alla prima svolta storica finissimo nelle mani di un ceto politico e culturale così supino agli interessi stranieri da lasciar distruggere la stessa emancipazione economica.
Negli anni ‘80 l’agonia dell’URSS, anziché condurre a un ripensamento dell’essenza della guerra fredda, a un riesame dell’ossessione anticomunista – come le recenti vicende internazionali dimostrano: non un confronto del bene con il male, ma una strategia per vincolare i vassalli al carro anglosassone –, esasperò questa ossessione in un delirio. Ci fu allora chi squalificò la Resistenza come un fenomeno marginale e inopportuno, chi sostenne l’equivalenza tra repubblichini e partigiani; si dimenticò che la giustificazione più nobile che i “ragazzi di Salò” avevano saputo dare alla loro scelta consisteva nel desiderio di non tradire l’alleanza con i tedeschi, dunque in un’adesione alla “Neue Ordnung” per cui l’Italia sarebbe stata schiacciata nei ranghi inferiori del Reich millenario germanico; si sorvolò sul fatto che con la Resistenza partigiana l’Italia acquisì almeno l’esigenza di sovranità rispetto alle potenze occupanti. Enrico Mattei, partigiano ed eroe dell’emancipazione economica dell’Italia, è il simbolo di questa esigenza. Negli anni ‘80 un ceto politico e intellettuale che ossessionato dall’anticomunismo si era lasciato irregimentare nell’esercito combattente per il ‘Manifest destiny” non poté trattenersi dall’insultare chi aveva preferito reagire all’invasione. Il disprezzo della Resistenza si estese alla Costituzione elaborata dai partiti del CLN e alla sovranità che essa comportava. Non fu un nuovo inizio; la seconda Repubblica che disprezzò il documento del 1 gennaio 1948, si illuse di essersi inserita nel nuovo ordine mondiale in una posizione di forza, quella di membro della UE, ma in effetti era regredita al Trattato del 10 febbraio 1947. A proposito del quale Benedetto Croce, nel suo discorso alla Costituente, paventò: “E non vi dirò che … le generazioni future dell’Italia … ci terranno responsabili … di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso”1.
1 Intervento all’Assemblea Costituente durante la discussione sulla ratifica del trattato di pace. Consultabile al seguente indirizzo: http://www.camera.it/_dati/Costituente/Lavori/Assemblea/sed200/sed200.pdf
Ma Benedetto Croce chi? Quello che votò la fiducia al governo Mussolini a partire dalla Marcia su Roma fin dopo il delitto Matteotti? Oppure il filosofo dialettale del “i gungetti nin zo’ caciocavalli appisi”?
Comunque uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento. Non credo che lei, con il suo facile disprezzo, riuscirà a fare meglio.
Un “intellettuale” che fuori della provincia italiana è del tutto sconosciuto (fortunatamente). Un idealista hegeliano con un secolo di ritardo. Ah, mi sono dimenticato un’altro dei “meriti” del compagno Benedetto Croce: la propaganda al referendum sulla monarchia a favore della monarchia.
La rovina intellettuale del Paese Italia è stata fatta dall’idealismo di Gentile e di Croce (il primo ad un livello intellettuale molto superiore al secondo) che ha improntato l’insegnamento nelle scuole italiane, dove è stata insegnata la storia di un mondo mai esistito, dedotto dalle categorie dello spirito. Altra rovina gli “intellettuali di sinistra” crociani, spesso tali a loro insaputa. E così leggiamo continuamente la parola “liberismo”, che esiste solo nella lingua italiana, quando tutto il resto del mondo la chiama “liberalismo” (o
“classical liberalism” in inglese). Ma chissà perché non si può dire in Italia “liberale” o “neoliberale” come fanno in tutto il resto del mondo. Perché no, sul liberalismo non si puòoo! È come l’orso Panda, non lo si può toccare! La sparizione di ogni forma di sinistra in Italia che rimonta ai primi anni ’90 è il lascito di questa eredità.
Non sono un estimatore né di Croce né di Gentile: sono il primo a conoscere l’enorme distanza che separa Hegel dal neoidealismo. Ho citato Croce solo per mostrare come alla Costituente si sia vissuto il Trattato di pace come un trauma. Tuttavia il suo intervento è zeppo di errori (sorvolo su quello ortografico). Li elenco: quanto al provincialismo, il neoidealismo fu un movimento europeo (vi appartiene anche Bergson e la stessa fenomenologia husserliana ne ripete l’impostazione) e Croce fu il filosofo italiano più noto all’estero nella prima metà del Novecento; quanto all’attuale rovina intellettuale del paese, essa ha il marchio dell’esterofilia ed è un frutto dell’allegra rinuncia degli italiani alla sovranità; quanto alla scelta referendaria, votarono per la monarchia quasi la metà degli italiani – era una scelta legittima, non un delitto. Quanto alle categorie dello spirito, ogni scienza è applicazione di categorie al materiale empirico e non si capisce cosa ci sia di illegittimo nell’applicare quella di spirito. Infine, quanto alla distinzione tra liberalismo e liberismo, essa può avere una sua legittimità: liberalismo è la difesa dei diritti civili, liberismo è la distruzione dei diritti sociali nel nome di quegli stessi diritti.
Vado in ordine sparso, altrimenti facciamo l’Enciclopedia Treccani.
La scienza non è l’applicazione di categorie al materiale empirico. È una cosa un po’ più complessa. Perché, lo dico a lei che è un idealista, non è vero che “il razionale è reale e il reale è razionale”. La scienza è in totale antitesi con l’idealismo, perché è piuttosto materialista. Quanto alla notorierà di Croce, certo, data la scarsezza della popolazione filosofica, Croce era forse il più noto (o il meno ignoto) fino alla metà degli anni 90, non ho statistiche. Ma a me è capitato di vedere facce interrogative al suo nome in diversi “Cafés des philosophes” in giro per l’Europa, a suo tempo. Oggi non lo ricorda più nessuno. E pour cause, aggiungo.
Quanto al referendum, certo che non era un delitto. Non sto accusando Croce di avere mangiato bambini. Sto sottolineando la sua “lungimiranza” e lucidità politica, per così dire. Immaginate un’Italia del dopoguerra sotto i Savoia.
Quanto al liberalismo e al liberismo, il liberalismo non è “la difesa dei diritti civili”, che era propria anche dei comunisti, dei democratici, dei socialisti, dei repubblicani e di tanti altri (non sto parlando solo dell’Italia, ma dell’europa intera tra ‘800 e ‘900), cioè di quelli che fino a Jean Jauèrs incluso erano considerati come sinonimo di “sinistra” (come ci ricorda anche Boris Souvarine). Il liberalismo (in Francia è quasi un insulto) come recita una nozione vecchia come il cucco, include la diffidenza verso la democrazia (e la tendenza all’alleanza coi conservatori), ed agli inizi anche l’avversione, perché la forma di governo preferita era un dispotismo “illuminato” (éclairé, per essere esatti, perché illuminé anche lui è un insulto, in Francia). E questo perché “il popolo” avrebbe finito per eleggere il suo tiranno, cadendo vittima dei suoi imbrogli e delle sue vacue promesse, non avendo sufficienti strumenti per giudicare (che era poi la posizione tipica degli enciclopedisti, ma questi pensavano a cavallo della caduta dell’Ancien Régime, quando il popolo era fatto di servi della gleba). Fu Toqueville a renderla “accettabile” ai liberali (purché a condizione di una previa instaurazione di una “democrazia economica”, ovvero la creazione di un ceto medio “colto” e “agiato” numericamente prevalente), con la sua disamina della democrazia USA. Che è poi il pensiero di Milton Friedman, che dichiarava che il capitalismo era il presupposto necessario (e anche sufficiente!) della democrazia. Giustificando così il suo intervento a supporto del governo Pinochet ed altri.
Niente a che vedere tutto ciò con la concezione di Raspail e delle suffragette, cioè degli inventori della democrazia (suffragio universale) così come la si intende ovunque, salvo l’Italia, dove si pensa significhi “votare” (ed anche “non trattare male la servitù”).
Si domandi ora come mai la parola “liberismo” esiste solo nella lingua italiana. Non esiste in francese, in castigliano, in catalano, in portoghese, in inglese, né in tedesco.
Esiste in italiano perché – consapevolmente o meno – bisogna salvare il “liberalismo”, il “compagno” Benedetto Croce, l’antifascista (sic!). Per concludere, che a Croce si rifaccia un liberale a me va benissimo. Ma non si azzardi a farlo qualcuno che si dichiara di sinistra, per quello che questa parola significa e ha sempre significato nella storia del pensiero politico europeo (e non solo, anche USA) fin dalla rivoluzione francese, perché lo querelo per diffamazione.
Lei continua a non capire perché è troppo pieno di sé per potersi chinare a leggere: ho scritto che Croce FU, non È, il filosofo italiano di maggiore notorietà all’estero; e che la citazione non implica affatto una mia convergenza filosofica con il neoidealismo, ma serve da testimonianza del trauma inflitto dal Trattato di pace ai costituenti (potevo citare qualcun altro, ho preferito Croce perché lo esprimeva meglio). Quanto al liberalismo, lei non si rende conto che diritti civili e diritti sociali sono in contrasto: il primo diritto civile è la proprietà, l’assolutizzazione del diritto di proprietà, quale per esempio si esprime nelle teorie contrattualistiche del potere dello Stato o nella finalizzazione esclusiva delle scelte delle imprese agli interessi degli azionisti, è il liberismo; viceversa, il socialismo consiste nell’assolutizzazione dei diritti sociali innanzitutto a costo della proprietà privata. Entrambi, socialismo e liberismo, producono mostri: non solo affermano come assoluto ciò che è condizionato; applicati, si risolvono nella negazione di se stessi: il liberismo, da difesa della persona e della proprietà privata, diventa espropriazione universale e schiavismo; il socialismo, da difesa del lavoro, diventa regime poliziesco che distribuisce la povertà.
Quanto alla questione epistemologica, l’identità di ragione ed effettività (meglio di ‘realtà’) è appunto la scienza; oppure vuole negare che lo sforzo scientifico sia razionale, che gli scienziati pensino?