Dopo i paradisi fiscali protetti dalla corona britannica è il momento di quelli all’ombra della bandiera a stelle e strisce.

Che senso ha parlare di lotta alla criminalità quando gli stessi USA forniscono protezione al denaro illecito?


A partire dagli anni ’80, la crescita ipertrofica del settore finanziario si è sviluppata entro una cornice generale caratterizzata dal più totale vuoto normativo, in cui la deregolamentazione dei singoli mercati nazionali non è stata sostituita con nuove normative internazionali atti a disciplinare i movimenti di capitale. Il che non poteva che consolidare la piuttosto diffusa pratica, da parte delle aziende, di aggirare le imposte vigenti nei Paesi d’origine sussidiando le proprie attività presso le società off-shore. L’ex presidente tanzaniano Julius K. Nyerere ha evidenziato a questo proposito che:

«le transazioni finanziarie internazionali vengono effettuate in un regime che rasenta la totale anarchia. Molti organismi e commissioni tentano di coordinare politiche di regolamentazione a livello nazionale e di negoziare standard internazionali, ma non hanno poi alcun potere di garantirne l’effettiva applicazione. Le Isole Cayman e le Bermuda non offrono soltanto belle spiagge, ma anche porti al riparo da ogni regolamentazione e accordo internazionale sui movimenti dei capitale».

L’approfondimento del deficit di bilancio registrato dagli Usa nel corso degli anni ‘80 era strettamente connesso alla fuga di profitti aziendali non registrati nei bilanci, che vennero depositati nelle banche off-shore delle Cayman, delle Bahamas, della Svizzera e del Lussemburgo. Da uno studio condotto da James Henry, ex capo economista della società di consulenza finanziaria McKinsey, è emerso che alla fine del 2010 il patrimonio occulto custodito nelle Cayman o in altri ‘paradisi fiscali’ ammontava a oltre 21.000 miliardi di dollari se si prendevano in esame solo i depositi bancari e gli investimenti finanziari, mentre tenendo conto delle proprietà fisiche (immobili, mezzi di trasporto, ecc.) si arrivava a 32.000 miliardi di dollari, equivalenti grosso modo al doppio del Pil statunitense. Ma non solo soltanto le grandi aziende a ricorrere ai ‘paradisi fiscali’; trafficanti di droga e di organi, mafie, politici corrotti, evasori fiscali di altissimo livello e criminali di vario genere depositano regolarmente i propri fondi sporchi – ‘neri’ se nascosti al fisco e ‘rossi’ se macchiati di sangue – in conti correnti off-shore nei ‘porti franchi’, i quali non si limitano a garantire l’anonimato e un bassissimo livello di tassazione, ma provvedono a riciclare denaro sporco e reintrodurlo successivamente nei regolari circuiti finanziari.

La Gran Bretagna, e più specificamente l’epicentro finanziario della City di Londra, sono state per decenni il centro di questo sistema. Come spiega l’analista Nicholas Shaxson:

«la Gran Bretagna è al centro di una rete di ‘paradisi fiscali’ che alimentano in capitali la City di Londra, procurandole il gigantesco volume d’affari che sappiamo. Il primo cerchio della rete è costituito dalle cosiddette dipendenze della Corona: Jersey, Guernesey e l’Isola di Man, che fanno affari specialmente con Europa, Russia e Medio Oriente; il secondo cerchio è costituito dai territori britannici d’oltremare, come le Cayman e le Bermuda, che raccolgono soprattutto dalle due Americhe».

Stando alla diagnosi proposta da Shaxon, la vasta rete del sistema finanziario ombra si diramerebbe quindi da Londra per articolarsi ed estendersi all’interno pianeta attraverso due ‘cerchi’ intermedi. Il primo ‘cerchio’ corrisponde alle tre isole della costa inglese – Jersey, Guernsey e Man – ed è rivolto verso l’Africa e l’Asia. L’altro ‘cerchio’ coincide con le Isole Cayman (che ospitano 80.000 società – per 44.000 abitanti – e domiciliano il 75% degli hedge fund del mondo) e le Bermuda, ed è orientato verso le Americhe. Potendo contare su tali ramificazioni, la City di Londra è riuscita ad attirare l’inaudita somma complessiva di fondi esteri di 3.400 miliardi di euro. Ma se la Gran Bretagna gestisce l’enorme struttura finalizzata alla raccolta dei fondi, gli Stati Uniti rimangono la principale destinazione del denaro. Gli Usa sono stati i primi a dar sfoggio all’universo off-shore, in forza della loro consolidata inclinazione a chiudere i loro conti con l’estero, cronicamente in deficit, anche attirando denaro di provenienza poco chiara al quale offrono esenzioni fiscali e protezione legale.

A partire dal 2008, le forti pressioni esercitate da diversi Paesi ed organizzazioni non statuali hanno indotto Washington a porre ufficialmente l’abolizione del segreto bancario – che è la principale arma dei ‘paradisi fiscali’ – in cima alla scala delle priorità. Nel marzo 2010, il Congresso ha approvato il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), una legge che impone a qualsiasi istituzione finanziaria a fornire alle autorità tutte le informazioni riguardanti i clienti statunitensi. Dietro sollecitazione Usa, i Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) avevano emulato l’esempio Usa, mettendo a punto una normativa, modellata sul calco del Fatca, che prevedeva l’introduzione di uno schema mondiale di scambio di informazioni teso a permettere alle autorità competenti di stanare gli evasori fiscali e assicurarli alla giustizia. Dal 2014, 97 Paesi hanno sottoscritto la normativa Ocse, compresi Svizzera e Lussemburgo, e tantissimi altri hanno cominciato a valutare la possibilità di aderire al progetto.

Solo quattro Stati hanno declinato la proposta, vale a dire Bahrein, le isole di Nauru e Vanuatu, e gli Stati Uniti. In buona sostanza, gli Usa hanno chiesto ed ottenuto trasparenza dal resto del mondo senza ricambiare il favore, permettendo così a Stati federali come Delaware, Nevada, South Dakota e Wyoming di mantenere il loro elevatissimo livello di opacità finanziaria e di consolidare la loro posizione di ‘paradisi fiscali’ on-shore, in cui i grandi evasori depositano i propri redditi per nasconderli alle autorità e dove le grandi multinazionali statunitensi domiciliano proprie società di comodo utili ad aggirare il regime fiscale in vigore nel resto degli Usa.

È il caso di Apple, che, come documentato da una dettagliata inchiesta del ‘New York Times’, ha fondato Braeburn Capital, sussidiaria della Apple incaricata di gestire l’ingente patrimonio liquido della società, a Reno, in Nevada. Il regime fiscale del Nevada, che non prevede né la corporate tax né l’imposta sul capital gain, permette all’azienda non solo di sottrarre i profitti sulla liquidità investita al regime fiscale della California, dove l’azienda è domiciliata, ma anche di alleggerire il carico fiscale in Stati federati quali Florida, New Jersey e New Mexico, le cui giurisdizioni allineano la tassazione della società principale a quella cui è sottoposta la sua sussidiaria domiciliata in un altro Stato. Il ‘caso Apple’ ha quindi spinto la altre imprese della Silicon Valley (Intel, Microsoft, Oracle, ecc.) ad esercitare pressioni sullo Stato della California affinché adottasse il regime fiscale in vigore in Florida, New Jersey e New Mexico dietro la minaccia di fondare a loro volta proprie società finanziarie nel vicino Nevada per aggirare la tassazione californiana. Dopo un lungo braccio di ferro che ha determinato un’emorragia di capitali tradottasi in 1,5 miliardi di dollari in meno di gettito fiscale e conseguente dissesto dei conti pubblici, la California ha ceduto, allineando il proprio regime fiscale a quelli indicati dalle grandi aziende della Silicon Valley.

Grazie a questo livellamento verso il basso indotto dall’attività lobbistica delle grandi imprese e alla diffusione generalizzata della normativa Ocse che ha imposto ai Paesi firmatari un giro di vite sulle norme in materia di spostamento e deposito dei capitali, gli Stati Uniti hanno rapidamente scalato le posizioni del Financial Secrecy Index, la graduatoria redatta – e aggiornata ogni due anni – dall’autorevole contro studi ‘Tax Justice Network’ che classifica i Paesi in cui il segreto bancario è più forte, superando persino Isole Cayman, Lussemburgo e Singapore. Non a caso, il potente gruppo Rothschild ha creato una società a Reno, in Nevada (esentato dalle regole sulla disclosure), in cui ha cominciato a spostare i patrimoni dei suoi facoltosi clienti che fino a poco tempo fa venivano custoditi presso le Isole Bermuda, che con l’adozione della normativa Ocse sta conoscendo una progressiva contrazione della rendita da ‘porto franco’ del grande capitale. «Gli Stati Uniti sono il più grande paradiso fiscale al mondo», ha commentato Andrew Penney, managing director di Rothschild. Cisa Trust e Trident Trust, due grandi nomi della finanza elvetica, hanno emulato l’esempio dei Rothschild trasferendo ingenti quantità di denaro dalla Svizzera e dalle Isole Cayman al South Dakota. Alice Rokahr, dirigente di Trident Trust, ha rivelato che molti clienti stanno abbandonando le banche di Zurigo e Ginevra per approdare negli Stati Uniti, nella convinzione che in pochi anni la Svizzera vedrà decadere il crisma di capitale mondiale del segreto bancario che ha saputo conservare per secoli, forse in favore degli Usa.

Una recente inchiesta di ‘Global Witness’ ha fornito una pratica dimostrazione di quanto sia facile trasferire denaro di dubbia provenienza negli Stati Uniti; spacciandosi per ex funzionario di un Ministero straniero, un giornalista munito di telecamera nascosta si recato presso tredici tra i più prestigiosi studi legali di New York chiedendo delucidazioni su come trasferire in sicurezza e rimanendo nell’anonimato grosse somme di denaro ottenute tramite corruzione. Come risultato, dodici dei tredici studi legali consultati dal reporter sotto copertura hanno suggerito di utilizzare società anonime statunitensi domiciliate in Stati come il Delaware. Alcuni avvocati di grido specializzati in questioni finanziarie sono persino giunti ad indicare alcuni loro conti correnti di riferimento come canali sicuri per trasferire denaro in maniera ‘discreta’, mentre altri si sono limitati a consigliare di creare società ad hoc. Tutto in conformità alle leggi statunitensi. Il che ha portato Stefanie Ostfeld, coautrice dell’inchiesta, a concludere che «gli Stati Uniti sono divenuti da parecchio tempo uno dei ‘porti franchi’ più frequentati da politici corrotti, cartelli della droga, organizzazioni terroristiche e grandi evasori fiscali […]. Utilizzando una società anonima statunitense, qualsiasi criminale può facilmente nascondere la propria identità e la provenienza del denaro».