(Il premier giapponese, Shinzo Abe. Brook Mitchell/Getty Images)

Per i cercatori d’oro, l’El Dorado è la terra promessa. Per gli epigoni di Indiana Jones, lo è il monte Ararat. Per i buddisti, la meta finale è l’annullamento delle passioni e dei desideri che risiede nel nirvana, mentre gli hippies di tutte le generazioni e sfumature hanno in Woodstock la loro patria di pace, amore e libertà, il loro ombelico del mondo a fiori. Per i cultori del sovranismo economico e monetario, il luogo dell’anima, l’heimat del deficit senza ritegno, né ricatto dello spread, è invece il Giappone.

Ovvero, il laboratorio del Qe più estremo, la sala operatoria del dottor Frankenstein dove si gettano le basi dell’helicopter money, la creazione di moneta senza limiti che dovrebbe garantire prosperità e progresso, a prescindere dal carico debitorio che questa comporta e deve contemporaneamente gestire e servire.

L’Abenomics è il mega programma espansionistico varato dal governo del premier Shinzo Abe nel 2013 come risposta alla grande crisi finanziaria e alla cosiddetta lost decade, ovvero alla lotta decennale del Sol Levante contro la deflazione. La missione? Acquistare asset per stimolare l’inflazione, attesa attorno alla quota obiettivo del 2% entro il 2015. Poi il 2016. E via fino ad oggi, quando il target è stato spostato in avanti all’aprile del 2020.

 

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Nell’attesa, però, il Giappone si sta tramutando in un’enorme economia pianificata a cielo aperto, un caso di studio di capitalismo di Stato da far impallidire la stessa Cina.

L’ultima conferma in tal senso è giunta a inizio aprile, quando l’agenzia Nikkei ha reso noti i risultati della Borsa nipponica relativi all’anno fiscale 2018, conclusosi il 31 marzo.

E cosa emerge? Nei 365 giorni presi in esame, gli investitori esteri hanno scaricato il massimo controvalore di titoli azionari giapponesi da 32 anni a questa parte, qualcosa come 5,63 trilioni di yen (circa 50 miliardi di dollari) di azioni su base netta. Come confermato dalla Tokyo Stock Exchange nel suo comunicato, si tratta della più grande sell-off dal 1987 e del secondo anno di fila di vendite nette da parte di detentori stranieri. Eppure nessun quotidiano o telegiornale ha parlato di un crollo dell’indice Nikkei nel corso dell’ultimo anno fiscale, nemmeno di un trend ribassista da mercato dell’Orso conclamato. Qualche scossone, certo. Ma, per il resto, l’indice nipponico ha viaggiato in perfetto sincrono con il resto dei mercati globali. Ovvero, rally pressoché ininterrotto.

Qualcosa formalmente non torna, visto l’outflow da record di investitori esteri. Ma la spiegazione esiste ed è connaturata proprio alla missione dell’Abenomics. Sempre stando ai dati ufficiali, si scopre infatti che nel corso del medesimo anno fiscale 2018, il controvalore di azioni giapponesi acquistato dalla Bank of Japan, in seno al suo programma di QE che contempla la possibilità di acquisto diretto di Etf, è stato di circa 5,65 trilioni di yen. Controbilanciamento perfetto.

Di fatto, il mercato azionario nipponico appare un meraviglioso vaso comunicante in perenne equilibrio e senza che sia versata una sola goccia di liquidità. Gli investitori esteri scappano a gambe levate dai titoli azionari domestici? Nessun problema, li compra tutti la Banca centrale e il Nikkei continua formalmente a scoppiare di salute.

E questo grafico mette la situazione in prospettiva: alla fine del mese di marzo, il controvalore dei titoli azionari in Etf aggregati a bilancio della banca centrale nipponica era pari a qualcosa come 29 trilioni di yen, circa 250 miliardi di dollari, ovvero circa il 5% della capitalizzazione di mercato della Borsa di Tokyo.

Bloomberg

La quale, sottotraccia, in realtà non sta festeggiando troppo questa dinamica da mercato pianificato ed essenzialmente a trazione statale.

Primo, perché non si compra la copia quando si può avere l’originale.

E, infatti, all’atto di chiusura delle contrattazione del 9 aprile, Hong Kong è tornato ad essere il secondo mercato azionario asiatico, superando con i suoi 5,78 trilioni di dollari di capitalizzazione i 5,76 di Tokyo. Di più, Hong Kong nell’ultimo anno ha aggiunto capitalizzazione per 937 miliardi di dollari contro i soltanto 371 miliardi del Giappone (il primo mercato asiatico resta la Cina con i suoi 7,6 trilioni di market cap, mentre a livello globale continuano a svettare i 31,3 trilioni di Wall Street).

E altri numeri cominciano a mettere in discussione il modello Abenomics, come ad esempio la chiusura di 30 dei 156 punti retail in patria di Nomura, un qualcosa che a detta della Nikkei Asian Review appare senza precedenti, visto che “quel ramo era ritenuto la vacca sacra del gruppo“. Inoltre,la banca nipponica eliminerà circa la metà dei suoi 11 dipartimenti amministrativi e “porrà in revisione la sua politica di mantenimento degli hub in Giappone, Usa ed Europa”. Il tutto come conseguenza diretta della perdita da 101,2 miliardi di yen (circa 911 milioni di dollari) riportata dal gruppo nei nove mesi terminati lo scorso 31 dicembre, peggior risultato dal 2008. E parliamo del gruppo che proprio in quell’anno si lanciò come un avvoltoio sui resti ancora fumanti di Lehman Brothers.

E non pare il solo a patire, visto che a inizio marzo il Mizuho Financial Group fu obbligato a un write-down da 680 miliardi di yen, inclusi 150 miliardi di perdite legate al suo portafoglio obbligazionario estero. Più in generale, il Tokyo Stock Exchange Index ha visto il suo return on equitycalare ogni anno negli ultimi cinque, arrivando al 5,33% del 2018 dal 9,77% del 2013. L’indice ha spuntato un misero 0,47 del book value senza, di fatto, un plus di valore garantito dal multiplo di prezzo espresso dalle contrattazioni sul mercato, peggio addirittura del tanto vituperato Euro Stoxx Bank Index, il quale ha portato a casa uno 0,62.

In compenso, il Giappone ha visto la sua Banca centrale accumulare asset, in ossequio al programma di stimolo iniziato nel 2013, per un controvalore di 557 trilioni di yen, equivalente al 101% del Pil nominale per il 2018, come mostra il grafico.

Zerohedge

Per mettere la questione in prospettiva, la Bce, ad oggi, è sì quasi al suo livello record nel rapporto fra stato patrimoniale e Pil dell’eurozona ma naviga comunque a un più sobrio 40,6%, mentre la Fed è addirittura al 19% di ratio.

E non basta, perché in base a quanto riportato dal Financial Times il 7 aprile scorso, grazie al suo sproporzionato bilancio, ad oggi la Bank of Japan controlla – non solo virtualmente – tutti i mercati di capitale della nazione. Oltre a detenere quasi l’80% di tutti gli assets relativi a Etf, i calcoli di Bloomberg vedono l’istituto guidato da Haruhiko Kuroda fare capo al 43% dell’intero mercato obbligazionario sovrano.

Relativamente facile, in una condizione simile, non avere problemi con lo spread. In compenso, è più difficile avere rapporti con chi – per lavoro – investe e rischia il denaro proprio e dei propri clienti. Ad esempio, Makoto Takashima, presidente della Sumitomo Mitsui Banking Corp. e numero uno dell’Associazione bancaria nipponica, il quale la scorsa settimana in un’intervista con Bloomberg ha messo in guardia la Bank of Japan dall’indulgere ulteriormente in politiche di tassi d’interesse negativi, il cui impatto “dovrebbe essere considerato con molta attenzione, poiché potrebbe creare effetti collaterali e un avvitamento della situazione”.

Stessa preoccupazione espressa il 3 marzo dal Ceo di Mizuho Bank, Koji Fujiwara, a detta del quale “è giunto il momento per riconsiderare l’intera politica di tassi ultra-bassi, poiché finora mi pare siano stati sottostimati i loro effetti negativi”.

Appello apparentemente caduto nel vuoto, poiché quasi in contemporanea, Haruhiko Kuroda ha confermato come “la politica di acquisto di Etf non sta affatto impattando sul funzionamento dei mercati, mentre la carenza di profittabilità delle banche è da ritenersi legata a fattori strutturali, come la contrazione demografica del Paese”.

D’altronde, dopo la lost decade causata dalla deflazione, per i sostenitori dell’Abenomics è giusto che il Giappone faccia di tutto, anche incorrere in errori ed eccessi, pur di combattere il ritorno di quello spettro, contraltare del fantasma teutonico di Weimar.

Peccato che ad oggi, come mostra questo ultimo grafico, trilioni e trilioni di acquisti e tassi sotto-zero hanno garantito un risultato pressoché nullo, visto che l’indice Cpi principale del Giappone è allo stesso livello di 10 anni fa, con le uniche impennate garantite da politiche una tantum di sgravio, stimolo diretto o incentivo ai consumi.

Zerohedge

Negli ultimi 36 mesi, l’inflazione Cpi nipponica ha avuto una media dello 0,45%, ben lontano dal 2% prefissato dalla Bank of Japan come target per il programma espansivo. In compenso, non solo il mercato è totalmente sconnesso dai fondamentali di fair value e price discovery e orientato unicamente dagli acquisti della Bank of Japan ma stando a un sondaggio condotto da Bloomberg fra 2.127 cittadini giapponesi in febbraio e marzo, metà degli interpellati ha dichiarato di “non aver mai sentito parlare dello stimolo monetario di Kuroda”, il livello di più alto di inconsapevolezza al riguardo da quando l’Abenomics è stata lanciata nel settembre 2013. Insomma, un successone su tutti i fronti. A cui ispirarsi.