Lo scorrere del tempo non è mai stato un dato indiscusso nel clima intellettuale post-illuminista. Piuttosto, i cospicui documenti della cultura filosofica, religiosa, storica e biografica, testimoniano una grande competizione tra le generazioni a spiegare i movimenti ineluttabili delle epoche, a fare i conti con i benefici e le devastazioni dei movimenti ciclici e, soprattutto, a tener conto dell’uso corretto da parte dell’uomo della durata della vita a lui assegnata. In questo quadro generale, poche domande hanno preoccupato le menti degli uomini europei così insistentemente come quelle che sondano le ragioni dell’ascesa, del progresso e della caduta delle imprese compiute sulla Terra – incluse le vicende delle nazioni, degli Stati, delle correnti intellettuali. Un punto di vista avvincente, in questo senso, è stato fornito da Piero Buscaroli, in decine di scritti pubblicati su giornali e riviste nel corso di una lunga carriera, che ci hanno lasciato tracce indelebili nel panorama della troppo spesso richiamata (e mai del tutto compresa) “decadenza” del Vecchio Continente.

Nato ad Imola il 21 agosto 1930 e scomparso pochi anni fa, egli frequentò il liceo classico “Torquato Tasso” a Roma, dove si era trasferito con la madre, e successivamente si laureò in Giurisprudenza a Bologna. L’attività giornalistica iniziò appena terminati gli studi, con la rivista “Il Reazionario”, che gli valse la presentazione a Leo Longanesi da parte di Mario Tedeschi, e cominciò a lavorare per “Il Borghese”. Scrisse di storia e di politica internazionale, ma anche di critica musicale (aveva studiato organo) e fu inviato di guerra nel conflitto arabo-israeliano, in Vietnam e durante la “Primavera di Praga” del 1968. Le competenze in materia musicale portarono alla pubblicazione di tre monumentali monografie dedicate a Bach, Mozart e Beethoven. Negli anni Settanta venne la direzione del quotidiano “Il Roma” di Napoli, mentre nel 1979 iniziò una nuova collaborazione con “Il Giornale” di Indro Montanelli. Una raccolta di suoi articoli, offerta ai lettori con il titolo “Paesaggio con rovine” nel 1989, alla vigilia dell’inattesa caduta del muro di Berlino, è ora riproposta dall’editore Bietti di Milano nella collana l’Archeometro diretta da Andrea Scarabelli. Si tratta di acute riflessioni sulla condizione politica, sociale e culturale dell’Europa in disfacimento al tempo della “Guerra Fredda”, oltre a brillanti resoconti di viaggi compiuti tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, nei quali riecheggia – in uno stile sagace e raffinato, ricco di stimoli intellettuali – la perduta grandezza delle nazioni europee.

Il volume si apre con un breve saggio sull’evento che aveva impresso al declino una brusca accelerazione, il primo conflitto mondiale (1914-1918). L’uragano che ne seguì, difatti, distrusse gli ultimi imperi, creò nuovi Stati senza alcuna base storica, ne riesumò altri, incoraggiò movimenti di indipendenza nelle colonie e costrinse per la prima volta gli Stati Uniti d’America ad assumere un ruolo di potenza guida al tavolo dei vincitori – mentre la miopia della Francia di fronte alla questione tedesca portò dritti agli sconvolgimenti successivi. L’approccio dell’equilibrio di potere nelle relazioni internazionali andò in frantumi e le promesse fatte (e non mantenute), soprattutto nel lontano Medioriente, tornarono a perseguitare gli europei decenni dopo.

Paesaggio con rovine, Bietti edizioni

Dalla Prima Guerra Mondiale, l’Europa uscì ferita. Dalla Seconda, uccisa” – afferma l’autore; infatti, non solo la Germania e i Paesi dell’Asse persero l’ultima guerra: tutte le nazioni europee ne uscirono con le ossa rotte, anche quelle rimaste neutrali. La Gran Bretagna entrò in guerra nel 1939 in difesa dell’integrità della Polonia e finì col vedere la parte orientale del continente schiacciata dal pugno duro di Stalin; inoltre, sempre in nome della “libertà” e della “democrazia”, schierò eserciti nei cui ranghi vi erano uomini di pelle scura che erano considerati e trattati come cittadini di seconda classe. Per ben due volte cercò di sbarrare la via alla Germania per la supremazia nel continente e ne rimase annientata essa stessa; volle impedire inoltre all’Italia la preminenza nel Mediterraneo e la concorrenza in Africa, ma perse in breve tempo il suo impero. Per gestire queste contraddizioni, ricorda Buscaroli, il governo britannico tentò di riformulare la concezione dei domini coloniali come progetto di partnership; eppure, le gerarchie razziali attorno alle quali era ordinato l’impero erano evidenti anche nella propaganda progettata per sminuirle. Un poster in tempo di guerra, creato per promuovere l’idea di unità e partenariato, mostrava i soldati delle varie nazioni che marciavano insieme, con la bandiera della Gran Bretagna che sventolava sopra le loro teste; ma le divisioni erano nette ed evidenti: in prima fila un britannico, un australiano e un canadese, dietro di loro un sudafricano e un neozelandese. Nascosto in un angolo c’era un soldato dell’esercito indiano e in fondo, pigiato nell’angolo in alto a sinistra, un africano. I due militari dalla pelle scura appaiono letteralmente emarginati. La questione etnica e religiosa, sotto forma di immigrazione post-coloniale, tornerà ad agitare la politica inglese a partire dagli anni Sessanta.

Viaggiando sul corso del Danubio tra Vienna, Bratislava e Budapest, tra i resti della gloria imperiale e le bruttezze delle costruzioni sovietiche, le osservazioni di Buscaroli riflettono il declino generale della cultura vigorosa dei secoli trascorsi, verso la società di massa meccanizzata. Ricorda che Spengler, e ancora prima Tocqueville, avevano presentito il futuro dell’Europa, schiacciata dalle grandi potenze periferiche e dalla prepotenza del denaro; al contrario della maggior parte degli scienziati politici e degli storici, che vedevano l’ascesa della democrazia moderna come il risultato più solido e ammirevole dell’Occidente, come una forza progressista negli affari mondiali, egli è dubbioso su questo punto; è quindi persuaso che il parlamentarismo sia stato in realtà un fenomeno di piena decadenza, nel periodo di transizione al liberismo economico, e che le istituzioni democratiche mascherino semplicemente il vero potere del capitale finanziario e dei suoi agenti.

Numerose pagine del libro sono dedicate alla Germania, ai suoi personaggi, alla politica, alla musica, alla letteratura. L’esempio compiuto di Stato moderno presentato della Prussia è affascinante, così come il suo modellatore Federico II “il Grande”; identificata come l’ultima grande nazione europea, un capolavoro di organizzazione politica, fu concepita dal re-filosofo come uno “stato di servizio”, che associò ad un’etica del dovere secondo cui il monarca doveva pensare se stesso come “il primo servitore dello Stato”. Nulla a che vedere con il substrato sociale che andrà a caratterizzare le nazioni nei secoli successivi, quando ad una élite cosciente dei doveri verso lo Stato si sostituirà una borghesia urbana che vive lo Stato come un fardello, preoccupandosi principalmente del proprio benessere.

Tra le righe si intuisce che il trionfo e la tragedia dello Stato moderno europeo coincidevano con il rilievo della borghesia, da un lato lodata per la sua creatività, per il culto della bellezza, l’amore per la libertà e la determinazione a sostenere la causa della cultura; dall’altro, tuttavia, questa classe sociale non era mai del tutto padrona delle sue azioni e il suo atteggiamento individualista presagiva il passaggio alla smorta monotonia di una vita insignificante. Il principio di individuazione, che suscitava l’inventiva oltre che il dubbio, era rimasto il fattore costitutivo dominante nell’Europa moderna; ma nel secolo di Buscaroli venne sfidato dalle teorie del determinismo economico e dalle ideologie che sostenevano il rovesciamento delle istituzioni politiche ed economiche tradizionali. L’Europa era dunque destinata a scivolare in ritirata?

Mentre assistiamo all’annientamento definitivo delle nazioni, cadute una dopo l’altra a ritmo sempre più svelto dopo il 1989, per via di “guerre private” che il “libero mercato” ha lanciato a danno dei popoli, paurose perché invisibili e legate alle ambizioni di pochi, le riflessioni sui tempi oscuri che ci attendono devono essere affrontate raccogliendo la volontà di resistere in modo autentico per lo meno nel mondo dello spirito. “Dorme lo spirito?”, chiede Buscaroli nel 1983 solcando il suolo tedesco; ma sono considerazioni che possono valere oggi per ogni contrada del globo:

C’è un confine nella coscienza, oltre il quale il tedesco non spinge il pensiero. Opinioni politiche è abituato da decenni a non possederne, e non ne vuole più […]. Va a votare, e poi basta. La sua testa politica è vuota, la sua anima collettiva è narcotizzataAvrà progetti sul futuro personale, ma su quello generale e nazionale, non ne ha. Quanto al passato, se aveva opinioni, le ha cancellate. Del presente, sa quel che può riassumere in cifre. Desidera in cifre, spera, sogna, paga, viaggia, risparmia, perde, in cifre […]. A noi spetta l’economia, si ripetono i Wunderskinder, i pensionati della storia, come li chiama Thilo Koch […]; lascia che il mondo si accapigli: tu, o felice Germania, produci.

Piero Buscaroli