Questo cambia tutto
La realtà sociale e culturale del nostro tempo presenta una strana contraddizione: da una parte l’organizzazione capitalistica della società mostra sempre più chiaramente i suoi limiti, la sua incapacità di assicurare la riproduzione sociale in termini sostenibili nel tempo. Appare via via più chiaro il fatto che il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e che esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici. Allo stesso tempo però, e questo è l’altro lato della contraddizione, questi evidenti indizi di inceppamento dei meccanismi autoriproduttivi dell’attuale organizzazione sociale non suscitano un movimento politico che abbia chiara l’esigenza di superamento del capitalismo e sappia articolare tale esigenza inserendosi nelle linee di scontro che le crescenti complicazioni sociali fanno sorgere. Per usare un linguaggio d’altri tempi, crescono le difficoltà oggettive nella riproduzione del meccanismo sociale capitalistico, ma latitano le forze soggettive che dovrebbero iniziare la lunga e difficile lotta per una diversa organizzazione sociale.
Un piccolo esempio di questi problemi è fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell’ultimo libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein [1] e da alcune delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi fondamentale dell’autrice è che l’attuale organizzazione sociale non è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti drastici nella società e nell’economia, e in particolare è necessario l’abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è stato dominante negli ultimi decenni.
Ora, qui ciò che conta è naturalmente il fatto che una tesi simile sia sostenuta da una giornalista brava, ma soprattutto conosciuta in tutto il mondo, come Naomi Klein. Un personaggio simile, voglio dire, non è più una semplice opinionista come tanti o tante: quello che dice contribuisce a formare le convinzioni di una parte significativa dell’opinione pubblica mondiale. E d’altra parte, quello che scrive Naomi Klein è anche influenzato dalle evoluzioni dell’opinione pubblica. Basta leggere i ringraziamenti alla fine del libro (riempiono sette pagine, e pochissimi sono quelli strettamente privati) per capire che ciò che scrive Naomi Klein è la sintesi di elaborazioni, esperienze, lotte che vengono da tutto il mondo. Insomma, prese di posizione così nette da parte di un personaggio come Naomi Klein sono indice (insieme effetto e causa) di sommovimenti di grande importanza nella coscienza di settori non trascurabili dell’umanità contemporanea. Parti significative dell’opinione pubblica mondiale sono arrivate a convincersi che vi sia ormai una incompatibilità di fondo fra il capitalismo e il mantenimento di delicati equilibri ecologici, la distruzione dei quali può portare ad una gravissima crisi di civiltà; e che, di fronte ad una situazione “capitalism vs. the climate” (che è il sottotitolo dell’edizione inglese), si tratti ormai di scegliere.
Tutto questo è chiarito, fra l’altro, dal capitolo del libro dedicato ai “negazionisti”, cioè alle varie correnti di opinione, forti soprattutto negli USA, che appunto intendono negare o le tesi sull’esistenza del cambiamento climatico oppure le tesi che attribuiscono il cambiamento all’attività umana. Negli Stati Uniti tali correnti di opinione sono fortemente legate a vari settori del mondo conservatore. Il capitolo in questione è intitolato “La destra ha ragione”, e quello che Naomi Klein intende dire, con questo titolo, è che la destra USA si oppone alle tesi sul cambiamento climatico perché avverte correttamente che esse portano a mettere in discussione i principi del capitalismo neoliberista, e ovviamente è contraria a questo esito.
Insomma, la coscienza che le tesi sul cambiamento climatico portano a rivedere profondamente, e in senso anticapitalistico, l’attuale organizzazione sociale, sembra essere sempre più diffusa nel mondo, in tutto l’arco delle opinioni politiche.
Se questo è davvero il senso del libro, è abbastanza chiaro quale dovrebbe essere, di fronte al movimento di coscienza di cui esso è segnale, l’atteggiamento di una forza politico-sociale anticapitalistica, e degli intellettuali che, marxisti o no, fanno riferimento ad una prospettiva di pensiero critico nei confronti dell’attuale organizzazione economico-sociale. Chiunque abbia una intenzionalità anticapitalistica dovrebbe sforzarsi di dare la massima diffusione a queste tesi e dovrebbe cercare di interagire con il movimento di opinione di cui esse sono indice, per aiutarlo a crescere su tutti i piani: sul piano del rigore intellettuale, su quello della capacità di proposta politica, sul piano organizzativo. Mentre sarebbe ovviamente un segno di immaturità politica mettersi a fare i maestri di marxismo che sottolineano con la matita, non saprei se rossa o blu, gli eventuali “errori”.
Faccio solo un esempio: da quanto scrive nel libro non è del tutto chiaro se Naomi Klein ritenga necessario il superamento del capitalismo in quanto tale o piuttosto della forma “neoliberista” che esso ha assunto negli ultimi decenni. Si tratta di una questione un po’ astratta, rispetto all’urgenza dei problemi, ma che non può essere trascurata. La scarsa chiarezza su questo punto potrebbe essere uno di quegli aspetti di ingenuità teorica che spesso hanno i movimenti allo stato nascente. Sarebbe però una ingenuità ancora maggiore quella di un marxista che rifiutasse di interagire con queste tematiche per via di tali insufficienze teoriche. Il compito di una realtà anticapitalistica seria sarebbe invece quello di discutere queste insufficienze, quando emergono, e soprattutto di mostrarne il collegamento con la realtà concreta: di mostrare cioè come il mantenere insufficienze e ambiguità teoriche sia alla fine di ostacolo all’attività pratica.
Quanto fin qui detto non rappresenta, è ovvio, nulla di particolarmente originale. L’intera tradizione politica dei partiti anticapitalisti, socialisti o comunisti, porta in questa direzione: di fronte all’emergere di una contraddizione nel meccanismo di riproduzione del capitale, si cerca di lavorare sulle linee di faglia che in tal modo si evidenziano per farne emergere le potenzialità anticapitalistiche. Rispetto alla realtà descritta da Naomi Klein, questa impostazione porterebbe appunto a quanto dicevamo sopra: un movimento politico-sociale anticapitalistico dovrebbe mettere la questione del cambiamento climatico al centro della propria agenda e cercare rapporti costruttivi con tutte le realtà (forze politiche, movimenti sociali, singoli intellettuali) che si stanno muovendo in questa direzione. Compresa naturalmente la stessa Naomi Klein.
Mi sembra si possa constatare che non è questo ciò che sta avvenendo. Naomi Klein è certo molto nota anche in Italia, il suo libro è stato recensito, e ne sono pure state organizzate affollate presentazioni, con la partecipazione dell’autrice. Non intendo cioè dire che essa venga ignorata. Quello che intendo dire è che mi sembra sia mancata la spinta a inserire tale questione nell’agenda da parte delle poche frange anticapitalistiche residue. Mi è capitato di leggere alcune recensioni piuttosto acide, da parte di intellettuali marxisti o comunque “critici”[2], il cui contenuto era in sostanza il fatto che l’anticapitalismo di Naomi Klein non appare conforme ai canoni marxisti, oppure che essa non indica un programma concreto per un eventuale movimento politico: come se questo non fosse appunto il compito di tutti gli anticapitalisti, che essi non possono certo delegare ad una giornalista, per quanto brava!
Questo tipo di reazioni inducono fortemente il sospetto che l’anticapitalismo delle poche frange rimaste sia un semplice principio identitario inabile al confronto con la realtà, espressione di realtà incapaci di elaborare una autentica prospettiva politica e probabilmente, in fondo, anche scarsamente interessate ad una tale elaborazione.
La situazione è dunque questa: da una parte un movimento che si origina da una delle fondamentali contraddizioni del capitalismo contemporaneo, spesso senza avere chiara coscienza teorica della natura del capitalismo stesso; dall’altra realtà anticapitalistiche che avrebbero gli strumenti intellettuali per interagire proficuamente con quel movimento, ma invece lo snobbano, arroccandosi in chiusure identitarie.
È questa la situazione cui mi riferivo all’inizio, parlando del “latitare del fattore soggettivo”.
Credo che questo blocco del “fattore soggettivo” sia indice di un mutamento profondo nelle forme di coscienza del nostro tempo, rispetto a quelle prevalenti nel Novecento; e credo che questo mutamento sia la causa vera delle difficoltà di costruzione di una seria forza politico-sociale di resistenza anticapitalista. Su questo dovremo tornare.
(Marino Badiale)
[1] N.Klein, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli 2015. La scelta del titolo italiano è discutibile, il titolo originale This changes everything mi sembra molto più efficace.
[2] Per esempio queste:
http://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/4692.html
http://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/4691.html
Un intellettuale di spessore come Stefano Azzarà riporta, nel suo blog sempre interessante, una recensione poco simpatetica col libro e liquida il libro stesso con una battuta:
http://materialismostorico.blogspot.it/2015/02/la-rivoluzione-immaginaria-della-guru.html
Questo post è pubblicato anche sul blog di Badiale e Tringali: http://www.badiale-tringali.it/2015/04/questo-cambia-tutto.html
Caro Marino,
non ho letto il libro ma soltanto il tuo articolo e le recensioni che segnali.
Tuttavia mi sembra di capire, correggimi se sbaglio, che si riproponga l’ennesimo “movimento globale”, sebbene non,come nel 2001, no-global poi (divenuto) new-global, bensì ecologista, senza peraltro precisare come dovrebbe organizzarsi e agire questo ipotetico movimento.
L’idea, è soltanto una idea o desiderio visto che non sembra esservi una concreta proposta, si espone dunque a queste obiezioni:
1) nella storia non sono mai esistiti movimenti globali. L’internazionalismo è stata al più un’alleanza di movimenti o partiti nazionali;
2) io e te conveniamo che non è costruibile nemmeno un movimento europeo volto allo smantellamento dell’Unione europea, che d’altronde cadrebbe e cadrà quando un partito nazionale di uno degli stati centro deciderà che è giunta l’ora, per il proprio Stato e il proprio popolo, di mettere fine all’avventura unionista;
3) i movimenti ecologisti nazionali non hanno mai raggiunto livelli importanti in termini di consenso elettorale e quando hanno raggiunto livelli più o meno significativi sono al più riusciti ad allearsi con una o altra coalizione, recando un po’ di verde in uno o altro programma politico;
4) un movimento o partito nazionale che, avendo preso il potere, facesse pian piano – ossia con la lungimiranza strategica necessaria a mantenere il potere per avere la possibilità di attuare altre parti fondamentali del suo programma – sua tale idea, impiegherebbe una quarantina di anni a fare passi significativi nella direzione che segnali, sempre però che riesca a costruire una economia verde che soddisfi la gran parte del popolo;
5) un internazionalismo fondato su questa idea presupporrebbe, dunque, prima la presa del potere in uno stato nazionale, di un partito che ottenesse concreti e significativi successi. In tal caso esso riuscirebbe ad influenzare le politiche di altri stati;
6) un partito che vuole andare al potere negli stati nazionali, può al più collocare il problema ecologico in un spazio relativamente circoscritto della sua agenda. Soprattutto quando, andato al potere, dalla declamazione ideologica si passa ad affrotare i quotidiani problemi di disoccupazione, dell’ordine pubblico e della criminalità, della scuola, dell’università, delle pensioni,della sanità, dell’informazione, dell’organizzazione e ramifiazione del consenso, di politica estera, di politica militare, sia pure si spera pacifica (tanto più che si può prevedere un ventennio di continuo aumento di guerre).
Perciò, il dubbio che l’autrice si sia posta sul piano dell’irrealtà e dell’ineffettualità resta. Spetta a lei, comunque, dimostrare che da qualche parte l’idea riuscirà a radicarsi, concretizzarsi e ad assumere caratteri realistici ed effettuali. Marx non fu soltanto un teorico, scrisse anche un manifesto e fu un militante (non un attivista). Vediamo dunque cosa l’autrice saprà fare sul piano dell’azione, oltre a vendere libri tradotti in tutto il mondo, sperando di non essere in presenza dell’ennesima teoria ineffettuale, priva di concretezza e realismo, del tipo di quelle alle quali ci hanno abituati tanti intellettuali moderni, che non hanno avuto alcuna incidenza sulla realtà, pur avendo avuto anni o un lustro o addirittura due di notorietà, rivelatasi ex post assolutamente immeritata.
Caro Stefano,
probabilmente abbiamo immagini diverse del personaggio Naomi Klein: da quanto dici sembri considerarla una specie di leader politico (non sei l’unico, direi), e quindi le chiedi un programma politico concreto. Per me è essenzialmente una brava giornalista che ci informa sullo stato dell’arte riguardo ai dibattiti sul cambiamento climatico e alle lotte su questi temi in varie parti del mondo. La cosa interessante è che una brava giornalista, senza nessuna preparazione marxista, semplicemente studiando questo problema, è arrivata alla convinzione dell’insostenibilità del capitalismo. Per il resto, sono ovviamente d’accordo con te. Semplicemente, “il resto”, cioè un progetto concreto e sensato di conversione ecologica dell’economia, e l’azione politica per realizzarlo, è compito storico di noi tutti.
Ti segnalo un unico punto di possibile disaccordo fra noi: se è corretto quello che afferma la stragrande maggioranza dei climatologi, non abbiamo quarant’anni di tempo.
Un caro saluto
Marino
Un intervento, come tutti quelli di Marino, molto stimolante. Mi limito ad esprimere due osservazioni in forma provvisoria. La prima su questa frase: “… non è del tutto chiaro se Naomi Klein ritenga necessario il superamento del capitalismo in quanto tale o piuttosto della forma “neoliberista” che esso ha assunto negli ultimi decenni”. Non ho letto il libro della Klein e non so se sia lei a fare questa differenza; in ogni caso a me sembra che “il neoliberismo” SIA “il capitalismo in quanto tale”, che esso sia un enorme sforzo per tornare a privare il lavoratore dei diritti, per farne di nuovo un semplice venditore della merce forza-lavoro, cioè per riproporre quella riduzione del lavoro umano a merce che Marx ha considerato, sulla scorta degli economisti classici, uno dei caratteri salienti del capitalismo. Come il capitalismo in quanto tale, il neoliberismo è incompatibile con se stesso: il suo strapotere sul mercato depaupera il lavoratore, demolisce la domanda, induce crisi catastrofiche. Visto dal lato opposto, il capitalismo a elevato tasso di intervento statale è capitalismo spurio, a cui i capitalisti si sono rassegnati per paura del socialismo reale; questo capitalismo spurio (dal volto umano) può essere la forma economica con cui fronteggiare il problema ecologico. Ciò si connette al secondo pensiero. In uno stile volutamente vicino al materialismo storico Marino scrive: “… il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e(d) … esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici”. Mi rende perplesso la rappresentazione del capitalismo come un’individualità quasi naturale (con le sue fasi di sviluppo) e in particolare trovo che l’inciso “per continuare a sopravvivere” faccia troppo onore al neoliberismo, perché gli riconosce non solo una volontà, ma addirittura il SAPERE cosa voglia. Per sapere cosa si vuole bisogna avere il coraggio di rispettare i dati; invece gli studi in base ai quali è stata intrapresa l’imposizione mondiale del libero scambio sono sempre basati su dati truccati.
Al di là della Klein, mi sembra proprio scarsamente condivisibile l’analisi.
Una “Sinistra” internazionale non c’è proprio perché non c’è un’analisi condivisa che possa unire le classi subalterne.
Il neoliberismo è una cosa, il capitalismo è un altro: soprattutto sfugge la “matrice austriaca” della globalizzazione finanziaria, che ha ben poco a che fare con il neoliberismo della tradizione anglosassone. Come dovrebbe esser noto, l’Impero ha adottato Menger e nipotini, di cui Hayek è l’icona della dinamica distopica.
Non deve sfuggire la profanda differenza della scuola austriaca che vede nel free market un semplice strumento per la medievizzazione dell’ordine sociale: il punto fondamentale del capitalismo è la sua funzionalità all’industrializzazione. Industrializzazione odiata sia dalle vecchie aristocrazie, ovviamente, sia… da Menger e nipotini.
Ma perché gli elitisti austriaci conquistarono il potente e pragmatico pubblico anglosassone?
Proprio perché l’unica soluzione al consumismo anti-malthusiano – dal punto di vista della sostenibilità energetica ed ecologica – dello stato sociale keynesiano, era l’ammortamento del capitalismo moderno stesso.
Cosa si pensi significa TINA? Alternativa affinché non succeda cosa?
È il neoliberismo stesso la fine del capitalismo. Solo… uscendo da destra.
Lo spiega anche Monti: deindustrializzazione e dittatura oligarchica sono gli strumenti che sono stati considerati più “efficienti” per affrontare le durissime sfide del futuro…
Compris?
Mi riservo di intervenire domani, dopo le eventuali repliche di Marino e i chiarimenti di Junius a Paolo, invitando Junius, se gli è possibile, a utilizzare un linguaggio più chiaro perché tutti si possa comprendere (anche a me, come a Paolo, per ora non è chiaro qualche punto del suo commento).
Una domanda: Junius era lo pseudonimo di Einaudi, grande ammiratore di Hayek, pseudonimo che fu da Einaudi utilizzato per scrivere il libretto ispiratore degli autori del Manifesto di Ventotene. Come mai la scelta di tale pseudonimo da parte del nostro commentatore?
Ho compreso questo: non c’è opposizione strutturata al neoliberismo perché c’è la sinistra che (consapevolmente o meno) di Marx prende la parte inservibile – il materialismo storico – e lascia la parte utile – la critica del capitalismo. Il materialismo storico consiste in un’applicazione forzata alla storia della categoria hegeliana di MISURA, che nella “Scienza della logica” riguarda solo l’ambito naturale: l’incremento quantitativo della produttività umana comporta salti qualitativi (rivoluzioni) da determinati rapporti sociali di produzione ad altri rapporti sociali di produzione, finché l’abbondanza sarà così esuberante che un ultimo salto (dal capitalismo al socialismo) renderà superflua la cattiveria degli uomini. Si tratta di una concezione di scarso valore empirico perché nessuna spiegazione storiografica può limitarsi a un meccanismo così semplice, e di nessun valore filosofico perché rinuncia alla determinazione dei concetti che usa. Non c’è da stupirsene: Marx l’ha esposta in forma di appunti per un libro mai pubblicato (“L’ideologia tedesca”) e in una brevissima introduzione a un testo del 1859. – La critica marxiana del capitalismo consiste nel mostrare il suo costitutivo squilibrio: poiché il salario corrisponde al valore di scambio della forza-lavoro, non al valore generato dal suo uso, il produttore è sovrapproduttore, il sistema ipertrofizza l’offerta rispetto alla domanda ed è costretto ad adeguarla ciclicamente distruggendo forza produttiva. Scusate la lezioncina, ma Junior nel suo intervento, tra un’allusione e l’altra, fa delle affermazioni che a me sembrano enormi:”Il neoliberismo è una cosa, il capitalismo è un altro” – sarebbe come dire: “La quercia è una cosa, l’albero è un altro”. Oppure: “… il punto fondamentale del capitalismo è la sua funzionalità all’industrializzazione. Industrializzazione odiata sia dalle vecchie aristocrazie, ovviamente, sia… da Menger e nipotini.” – sarebbe a dire che c’è la possibilità che un economista qualunque voglia il ritorno a un sistema giuridico, quale quello medievale, SENZA diritto di proprietà privata. Questo non lo comprendo.
@Paolo
Grazie per la sintetica e chiara considerazione, è evidente che l’analisi proposta non è stata assolutamente chiara.
Innanzitutto son convinto proprio del contrario: “il materialismo storico”, inteso nella sua dimensione dialettica e conflittologica, è proprio quello che la Sinistra ha perso. E da un pezzo.
Le élite questo processo storico ce lo hanno incorporato nel dna: sanno ben riconoscere la tesi dei loro interessi materiali e l’antitesi che può metterli in discussione. Giusto per cambiare registro.
Credo invece che la parte inservibile di Marx, sia proprio quella parte della sua critica al capitalismo che è viziata dal modello teorico da lui usato (l’economia ricardiana), e il modello socioeconomico in cui si trovava a vivere completamente modificato nel tempo (anacronismo).
Su ciò che è la critica economicistica al pensiero di Marx rimando a Keynes e anche al recente e bellissimo lavoro fatto da Cesaratto.
Su ciò che di Marx è ancora fondamentale si rimanda al lavoro fatto dai post-keynesiani (da Kalecki a Kaldor) che Marx lo hanno reso, come affermò la Robinson, “intelleggibile”.
Quindi, dal mio punto di vista, la Sinistra odierna dovrebbe ristudiare tutta la lunga tradizione della “teoria del conflitto” basata sui diritti sociali (prima che civili) e assimilare e divulgare i contenuti scientifici“post-keynesiani” con un registro linguistico adeguato.
Poi, per provar a rispondere ai quesiti, segue.
La distinzione tra insieme e sottoinsieme e, soprattutto, tra forma e sostanza, converrai che può essere fondamentale: quindi metto in rilievo che, tra le tante forme che può assumere il rapporto conflittuale tra stato e mercato, tra pubblico e privato, l’ordine sociale che si produce in sintesi può essere sostanzialmente molto diverso.
L’archetipo “marxista”, se proprio vogliamo trovarne uno, parte dal presupposto per cui il modello sociopolitico ed economico promosso dal modello beveridge-keynesiano sia in qualche modo, come sosteneva anche la Robinson, qualcosa che “mette una pezza”, temperando, il modello capitalista di tradizione liberale (definito da Croce “liberista”).
Questo, come credo sia sufficientemente noto, è un concetto di “capitalismo funzionale” che in realtà, tra le menti più raffinate di Sinistra (in Italia si ricordi Basso) e piuttosto diffusamente condiviso nelle élite, non era visto come una scelta politica in sé. Uno delle “tante forme che il rapporto tra Stato e mercato” può assumere. No. La cosiddetta “economia mista” tipica delle varie forme di Keynesismo socialdemocratico, non veniva considerata una scelta “tra le tante”, ma una “non scelta”. Ovvero come un momento storico, una “tesi”, che aveva in se stessa una sua antitesi che sarebbe dovuta necessariamente esplodere in un ordine sociale come auspicato dal socialismo, o in un ordine sociale come auspicato dalle élite più colte e informate.
In particolare, la costituzionalizzazione di Keynes non avrebbe portato semplicemente a sviluppare un’economia mista, ma avrebbe avuto come esito la totale Rivoluzione dei rapporti sociali. (Si veda analisi marxista di Basso).
Caro Junius,
immagino che con “conflittologico” ti riferisca alla frase del “Manifesto”: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte tra classi”. Per decenni io stesso ho fatto di questa frase un oggetto di culto; nondimeno essa è insufficiente, perché riconosce la lotta all’interno della società ed è del tutto cieca alla lotta TRA le società, cioè alla guerra. Si tratta forse di una limitazione storica: nell’Europa dell’Ottocento in cui vive Marx la guerra è per lo più prerogativa del ceto aristocratico e sembra in via di estinzione come lo è l’aristocrazia. Poi però c’è stato il Novecento con le sue due guerre mondiali: ogni volta la classe operaia ha gettato alle ortiche lotta di classe e internazionalismo; gli stessi sovietici hanno vinto i tedeschi combattendo in nome della nazione russa (“la grande guerra patriottica”). Tu puoi obiettare che dietro queste guerre ci siano interessi di classe. Sono d’accordo. Ma non ci sono SOLO questi interessi: quando per sterminare gli ebrei intasano le ferrovie rendendo difficili i rifornimenti all’esercito che combatte a est, privandosi peraltro della loro forza-lavoro, i capi tedeschi obbediscono non a un INTERESSE, ma a un DESIDERIO elementare di distruzione totale (quel desiderio che Nietzsche non si è vergognato di difendere) che è nell’uomo e che nelle guerre, molto più che nella lotta di classe, ha il suo appagamento. La cecità della teoria della lotta di classe alla possibilità della guerra e quindi allo stato come presidio dall’aggressione esterna ha avuto effetti pesanti sulle organizzazioni della classe operaia: esse hanno per lo più disprezzato lo stato (da ultimo gli europeisti credono che gli uomini siano buoni e vogliano la pace, che gli stati siano cattivi e vogliano la guerra, che dunque soppressi gli stati siano finite anche le guerre!) e sono arrivate SEMPRE impreparate alle problematiche di politica estera, che però si sono poi mostrate SEMPRE di maggiore momento rispetto a quelle interne. Il neoliberismo, per esempio, non è solo un prodotto di interessi di classe: l’annullamento del potere dello stato è imposto all’Europa da uno STATO, cioè dagli Stati Uniti; oppure, le politiche del FMI sono il “Washington consensus” e Washington è tra l’altro la capitale degli Stati Uniti; oppure, il conflitto degli Stati Uniti con la Russia è rinato, nonostante questa non sia più comunista. La cecità in quest’ambito è tale che capita ancora di leggere di esponenti di sinistra che sussumono l’unione monetaria sotto la categoria dell’internazionalismo: qui l’antistatalismo di classe diventa un autolesionismo di classe.
@Paolo
Mi piace il tuo approccio eterodosso, e condivido le tue conclusioni: facendo tue simili riflessioni ho trovato interessantissime riflessioni da molta letteratura che nasce con Marx, ma che lo integra e ne rende “attuale” anche la sociologia (si veda Charles Wright Mills).
La “teoria del conflitto” va ben oltre a Marx: gli scontri che possiamo definire “inter-dinastici” – prendendo spunto dai conflitti tra “dinastie” nell’Europa medioevale – possono essere sempre descritti dalla teria del conflitto, anche se non propriamente “marxiana”.
I gruppi sociali sono in lotta tra loro per “ricchezza, potere e prestigio”: esistono una lotta “verticale” (quella tra classi) e una lotta “orizzontale”, tra i gruppi sociali dominanti, che portano ai “conflitti internazionali”, l’imperialismo bellico ed economico.
L’enfasi che la sociologia marxiana dà alla “lotta tra classi” è fondamentale perché permette di integrare in ottica storicistica la progressività sociale. La conformazione “piramidale”, e la sua reazione al cambiamento proporzionale all’ampiezza “della base” (in funzione del “grado di democrazia”) della comunità sociale, conferma empiricamente l’approccio marxiano.
La sinistra storica – in posizione di debolezza nei confronti del capitale – è stata disarmata, un po’ con la lusinga, ma, soprattutto con la forza bruta del capitale internazionale unito, facendole rinunciare alla “prospettiva del conflitto”.
Detto brutalmente: invece di continuare a promuovere la “lotta politica per la giustizia sociale”, la sinistra è stata coartata a promuovere sterili discussioni sul femminismo, sul diritto dei gay, sul “politicamente corretto”, sulla lotta all’etnocentrismo, “dimenticandosi” che questi sono diritti che si possono materializzare solo dopo aver ottenuto i diritti sociali. Infatti sono tutte “battaglie” promosse anche dall’estrema destra neoliberale.
Quello che conta è la giustizia sociale, e la giustizia sociale è un prodotto della “lotta di classe”. Bambin che non piange non mangia.
Le democrazie costituzionali portano la lotta di classe nelle istituzioni (si ricordi il secondo comma dell’art.3 Cost.): infatti sono state fondate sul lavoro come unico mezzo per la dignità dell’Uomo.
Purtroppo non esistono istituzioni nazionali in cui “civilizzare” il conflitto “inter-dinastico”.
Ma un democratico deve aver presente che “deve lottare per la sovranità” sia nella lotta di classe (interna, come da secondo comma art.2 Cost.) sia nella lotta “inter-dinastica” internazionalista (sovranità esterna, art.11 Cost.)
La Sinistra deve ritrovare, a parer mio, la prospettiva del conflitto.
Concordo con molto di quanto scrivi. Soltanto qualche precisazione. Scrivi: “I gruppi sociali sono in lotta tra loro per “ricchezza, potere e prestigio”. Purtroppo non è solo per questo. La lotta è nella natura intima del gruppo sociale: il suo costituirsi in unità implica una negazione dei singoli che ne fanno parte; così il gruppo è unità negativa; per questa negatività ha anche un esterno che respinge; questo respingere è la lotta. Detto in termini meno astratti: ci uniamo rinunciando alla nostra indipendenza naturale e acquistando i vantaggi della solidarietà IN QUANTO c’è un esterno che ci fa paura. Una seconda precisazione: non so se abbia più senso parlare di “sinistra” per intendere il soggetto di una piano sociale progressivo; mi limito a dire in modo del tutto provvisorio “partito progressivo”. Per questo “partito progressivo” la sovranità, anziché la lotta, è l’obiettivo compiuto. La sovranità non è infatti solo indipendenza dall’esterno, ma il riconoscimento, da parte di TUTTI i gruppi di interesse di cui una società si compone, del valore primario dell’interesse generale, e implica che nessun membro, nessuna istituzione, rivendichi la sua indipendenza assoluta (penso per esempio al divorzio del 1981 tra la Banca d’Italia e il Tesoro, provocato con l’obiettivo che la prima, resasi indipendente dallo stato ma dipendente dai banchieri, ostacolasse l’azione del secondo).
@Paolo
Condivido anche questo: il concetto di “sovranità” è strettamento legato all’autodeterminazione sociale e alla libertà individuale. Queste vengono massimizzate solo se, paradossalmente, limitate.
Se la politica economica della comunità sociale deve indirizzare il mercato a “fini sociali” – si vedano gli artt. 41 e 42 Cost. – è evidente che un ente ausiliario fondamentale per la sovranità come la Banca Centrale non può essere autonoma dai fini indergogabili che le istituzioni democratiche devono perseguire per obblighi costituzionali.
La Lotta non è né un fine né un semplice mezzo: è una constatazione, è un dato di fatto: è la coscienza di classe stessa.
Credo sia filologicamente corretto, e necessario, parlare di destra e sinistra, che sono squisitamente distinguibili SOLO dagli obiettivi sociali: la Sinistra difende il Lavoro (che sta in basso alla piramide sociale) la destra difende il Capitale (che sta in alto nella piramide sociale). Poiché il Potere è, soprattutto in una società capitalistica, il “potere del denaro”, chi ha tanto denaro si posiziona in alto nella piramide sociale ed ha interessi di “destra” (che bisognerebbe smettere di confondere con fascisti e leghisti tout court, ma come tutti i vettori di politiche liberal-liberiste); chi ha poco denaro, ovvero chi deve “lavorare per vivere”, ha quindi poco “potere”, e ha interessi di sinistra.
Questo è il conflitto distributivo: destra vs. sinistra, ovvero alto vs basso. Che poi non è altro che il conflitto di classe. Da qui la coscienza della prospettiva del conflitto. Da qui la necessità di una democrazia sovrana che ridistribuisca EQUAMENTE POTERE a TUTTI i cittadini lavoratori.
Grazie mille per questo scambio di opinioni, non vorrei però che stiamo abusando degli spazi messi a disposizione dell’ospite.
Un caro saluto.
Scusa, con tutti questi Reply mi sto confondendo. Quanto ho scritto sopra risponde alla tua prima replica. Sulla seconda ti faccio notare un altro punto problematico del materialismo storico: come si era accorto anche Benjamin, esso non è né storia né filosofia, ma TEOLOGIA MESSIANICA, ossia la forma moderna del disprezzo fanatico per tutto ciò che esiste. Cos’altro può significare questa tua considerazione: “In particolare, la costituzionalizzazione di Keynes non avrebbe portato semplicemente a sviluppare un’economia mista, ma avrebbe avuto come esito la totale Rivoluzione dei rapporti sociali. (Si veda analisi marxista di Basso)”?
@Paolo
No, no. Non c’entra nulla la “teologia messianica”: è una traiettoria sociopolitica che per motivi “tecnico-ridistributivi” portano a certi risultati sociali.
Se si “realizza la democrazia in Italia, come da obblighi costituzionali, “ogni essere umano sarà uguale”. Non è forse questo l’obiettivo della Rivoluzione auspicata da Marx?
“Messianesimo” sarebbe stato affermare una verità assoluta per cui “un giorno la democrazia italiana si realizzerà”. Son cose diverse.
Diverso è sostenere che se stai sul Freccia Rossa direzione Firenze… arriverai a Firenze. “L’acume” dovrebbe stare nel comprendere la direzione del treno.
Sintetizzando, Sinistra è LOTTARE per la Sovranità, interna ed esterna, e internazionalismo è cooperare con le forze resistenti delle classi subalterne di altri popoli per contrastare le lotte “inter-dinastiche” e la dinamica di feudalizzazione (uscita dal sistema capitalistico “da destra”).
(Credo che la battaglia culturale esiziale dovrà essere, oltre a divulgare gli “elementi di politica economica alle classi subalterne”, quella di sconfiggere il “relativismo liberale” assolutizzando e universalizzando il sistema di valori sulla “dignità dell’Uomo”)
Proprio l’uguaglianza è l’obiettivo del fanatismo. Gli esseri umani non sono SOLO uguali, sono ANCHE diversi: questa unità di uguaglianza e diversità è la PERSONA. Uno stato decente tiene ferme entrambe le esigenze, quindi difende la persona. Marx non sarebbe contrario: il comunismo non è la società di uguali, ma la società in cui a ciascuno si dà secondo i suoi bisogni, a ciascuno si chiede secondo le sue possibilità.
@Paolo
Verissimo se intendi per “persona”, non l’individuo – il Robinson Crusoe dei liberali – ma la “persona umana”.
Il tema che poni è quello della differenza tra “egualitarismo” ed “uguaglianza”.
Come ricordava Socrate ai sofisti, che arrivano all’ “estremismo degli eristi” e al totale “relativismo”, condizione propedeutica a quello che sarà il nihilismo niezstchano, «poiché è l’Uomo il soggetto del Tutto, esiste un fondamento che oggettivizza e universalizza il sistema di Valori». (Non è un caso che il “relativismo gnoseologico” è un portato dell’ideologia “liberale”).
Un sistema “assoluto” di Valori fondati sulla “dignità dell’Uomo”, non può essere considerato patologicamente estremista. E, se ci pensa, è piuttosto intuitivo nei “risvolti pratici”…
Il socialismo “distopico” e “totalitario” NON è fondato sulla “dignità dell’Uomo”, che, paradossalmente, è l’archè della speculazone di filosofia politica, a matrice giudaico-cristiana, che ha gettato le radici della speculazione “socialista”.
Se esiste un’universalizzabile “dignità dell’Uomo”, vuol dire che ogni uomo è uguale nella “sostanza”. Ciò non significa che deve essere uguale anche nella “forma”. (Anzi, si può dialetticamente dimostrare che insistere sull’uguaglianza formale si accresce la disuguaglianza sostanziale: a livello di narrativa sono interessanti le riflessioni di Orwell ne “La Fattoria degli animali”, che prende spunto dall’egualtarismo totalitario stalinista)
Gli elitisti infatti non a caso non parlano di “umanismo” ma di “filantropia” (dove l’anthropos è l’individuo narcisista, ovvero essi stessi). Perché sono “razzisti”, sostengono che c’è una élite che è nella sostanza “superiore” a tutti gli altri “zotici”, cioè che hanno un “sangue/spirito” di “natura” differente. La falsa coscienza che permette loro di giustificare l’ingiustizia sociale.
L’elitismo, per una questione di natura storico culturale, è molto più importante nell’Austria degli Asburgo che negli USA. Da qui gli spunti sulla “diversa natura (sostanza) dei cosiddetti neoliberismi”.
Qundi, se è questa la tua prospettiva, mi trovi perferttamente d’accordo.
Nel socialismo, come da obblighi inderogabili della Repubblica democratica italiana, lo Stato è la comunità sociale stessa, che si costituisce nazione in ottica solidaristica. Lo Stato sociale tutela l’individuo a livello sostanziale, non come nello stato liberale, che lo fa solo a livello “formale” (sono tutti eguali di fronte alla Legge ma il ricco è più uguale degli altri).
Lo tutela garantendo il Lavoro e i servizi essenziali, sanitari e previdenziali.
L’obiettivo del socialismo, così come dopo il ’48 in Europa e nella Dichiarazione Universale dei diritti Umani, è tutelare la dignità dell’Uomo abbattendo le ingiustizie sociali che non permettono la materializzazione di quell’uguaglianza dichiarata nel primo comma del terzo articolo della nostra Carta, e di tutti le costituzioni democratiche “borghesi”.
Il padre del modello tedesco (cosiddetto “ORDO-liberale”) Röpke, la cui “economia sociale di mercato” verrà poi imposta a livello sovranazionale con Maastricht, argomenterà chiaramente perché non potevano esistere “terze vie”: l’economia mista era un passaggio storico obbligato che i politici dovevano prendere, non potendo scegliere tra “liberismo tout court e socialismo tout court”.
Quindi, parlare di liberismo e capitalismo è fondamentalmente parlare della stessa cosa: l’unica alternativa – l’assenza di mercato – si chiama collettivismo.
Ma, come ho argomentato, in una dinamica progressiva, i vari tipi di “liberismo” possono portare a degli ordini sociali completamente diversi.
Spiegata “un po’ alla brutta”, il capitalismo “all’americana”, è stato un capitalismo che ha dato certe possibilità e benessere alle classi subalterne anche perché è stato “un capitalismo nell’abbondanza”.
Menger, già nell’800, che proviene dalla tradizione elitista europea (si ricordi Nieztsche a proposito) non poteva sopportare il modello di industrializzazione prussiana: il modello auspicato era quello medievista, non sicuramente quello “grasso e grosso” angloamericano.
Il modello austriaco trova ragion d’essere, oltre che in un contesto di guerra fredda, proprio di fronte alla necessità di conservare rapporti di classe messi in discussione dal keynesismo in via progressiva, e – con la diffusa paura (la loro falsa coscienza!) che il progresso scientifico non avrebbe compensato il consumo delle risorse – viene promossa l’idea che una deindustrializzazione e una soluzione “malthusiana” della demografia, poteva far quadrare il cerchio. E così pare sia stato.
È noto che la lobby finanziaria abbia interessi contrapposti a quella dell’apparato “bellico-industriale”: i banchieri generalmente le guerre non le vogliono (portano ad una gigantesca ingerenza dello Stato in materia economica), mentre l’apparato bellico-industriale… be’… oltre all’ovvio, è interessante far notare che alla fine i primi creano le ragioni sociopolitiche affinché “godano” i secondi.
La globalizzazione finanziaria fa contente tutte le élite che, unite, hanno stravinto la lotta di classe.
L’ecologismo, annessi e connessi, come tutto il letame “radical-cosmetico” con cui è stato avvelenato il ’68, è espressione proprio della destra reazionaria “neo-liberal”, quella della finanza.
Quindi, al centro dell’Impero, abbiamo degli pseudo-conservatori guerrafondai “libertari” e pseudo-progressisti “liberali” affamatori di popoli: questa è la globalizzazione english-speaking.
L’obiettivo è la cristallizzazione in aeterno dell’ordine sociale “kicking away the ladder”, e, il monopolio imperituro (con vincoli monopolistici di carattere tecnico, si pensi agli “ogm”) delle risorse scarse.
La mia analisi propone che il superamento del sistema capitalistico avvenga con uno stabile consolidamento dei rapporto di classe così come in età feudale.
La “proprietà privata”, quindi, secondo questa analisi, è interessante solo se la si paragona al socialismo reale: come già si intravvede in UE, la traiettoria sociopolitica assomiglia molto a quella distopico staliniana: la proprietà viene sottratta solo agli untermenschen. Ovvero a tutta la classe produttiva, piccoli capitalisti compresi. L’unica differenza è che il politburo sarà organizzato come un consiglio di amministrazione, senza un “centralismo democratico”, e con cariche e poteri ceduti come da tradizione dinastica. Come durante il Medioevo.
Da qui il “compris” sulla dichiarazione montiana.
Le élite finanziarie detengono il potere politico e massmediatico e non lo cederanno, neanche con la minaccia di sconvolgimenti ecologici. La storia insegna che la rivoluzione russa ebbe successo in un paese stremato dalla guerra; allo stesso modo, un cambiamento di paradigma lo vedo possibile solo in seguito a catastrofi (naturali o artificiali – guerre), che vedranno milioni o miliardi di vittime.
A prescindere che la vita e’ una palingetica obliterazione delle scientiche dell’nticonformismo umano signoti non ci ho caito una beata fava.
Saluti
commento ammesso perché mi ha fatto ridere
Assolutamente non state approfittando. Dialogo interessante. Poi ormai questo è il sito dell’ARS quindi anche di Paolo, non mio.
Grazie Andrea. Approfitto di questo Reply per ringraziare anche Junius
Un momento di confusione. Grazie Stefano.