La demografia italiana ai tempi dell'austerity
di ALESSANDRA DE ROSE e SALVATORE STROZZA (docenti di Demografia presso le Università di Roma 1 e Napoli)
La crisi del 2008 ha generato una recessione che tuttora attanaglia l’Europa, ha messo in ginocchio l’economia italiana, paralizzato il mercato del lavoro e intaccato il benessere delle nostre famiglie, generando conseguenze anche demografiche. Un recente volume curato dall’Associazione per gli Studi di Popolazione (AISP), della Società Italiana di Statistica (SIS), descrive a tutto tondo la situazione della popolazione italiana “al tempo della crisi” e, sulla base dei dati più aggiornati forniti dalla statistica ufficiale, prova a individuarne le conseguenze demografiche.
Gli elevati livelli di incertezza stanno ulteriormente rallentando i processi di formazione delle unioni da parte dei giovani? Le nascite stanno diminuendo? Cosa succede alle condizioni di salute degli italiani? Si stanno riducendo i flussi di immigrati, così come avviene in molti paesi europei?
L’intensa e prolungata contrazione dell’economia italiana ha portato a un consistente calo dell’occupazione (soprattutto maschile) e a una crescita della disoccupazione giovanile: tra il 2008 e il 2013 sono stati perduti quasi un milione di posti di lavoro, pari al 4,2% degli occupati all’inizio della crisi, con un decremento percentuale quasi doppio rispetto a quello registrato nell’insieme dei 28 paesi dell’Unione europea.
Parallelamente il tasso di disoccupazione è passato dal 6,8 al 12,2% della forza lavoro, superando il 40% tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Tra i giovani aumenta anche, drammaticamente, il numero di “scoraggiati” cioè di coloro che rinunciano anche solo a cercarlo un lavoro, nonché dei cosiddetti Neet (Not in Education Employment or Training), che non lavorano, non studiano, né seguono corsi di formazione e ciò soprattutto nel Mezzogiorno e in presenza di bassi livelli d’istruzione.
Le ridotte possibilità di contare su un reddito sicuro, di acquisire autonomia abitativa e di accumulare ricchezza rallentano il passaggio alla vita adulta, la formazione di nuove famiglie e la realizzazione dei progetti riproduttivi. E questo è particolarmente grave per l’Italia, dove la percentuale di giovani che ancora vivono nella famiglia di origine, pur se non aumentata rispetto agli anni pre-crisi, è molto elevata in confronto ad altri paesi europei.
Prosegue, infatti, e si aggrava negli anni della crisi, il calo dei matrimoni, passati dai 247mila del 2008 ai 207mila nel 2012. Va segnalato, però, un timido aumento delle convivenze pre-matrimoniali che, non implicando i costi per l’organizzazione dell’evento nuziale, potrebbero rappresentare una valida alternativa all’unione coniugale in un momento di difficoltà economica.
Anche tra chi è già in coppia la situazione economica è decisamente peggiorata, specie tra i giovani al di sotto dei 35 anni, i quali soffrono di un significativo aumento tra il 2007 ed il 2011 delle difficoltà ad arrivare a fine mese e di più elevati livelli di deprivazione economica. In questa situazione, si può supporre che la famiglia continui a svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale e di sostegno alle giovani generazioni.
In effetti, il sistema-famiglia sembra reggere bene all’urto della crisi. Negli ultimi anni l’instabilità coniugale appare più contenuta: tra il 2009 e il 2012 si osserva una riduzione della divorzialità, da 181 a 173,5 per 1.000 matrimoni, interrompendo una crescita decennale e anche il trend di crescita del numero di separazioni appare cristallizzato. Contemporaneamente – così come sta avvenendo in altri paesi colpiti dalla crisi – si osserva un aumento dei giovani adulti che vivono in famiglie con più nuclei e che comprendono quelli costretti a rientrare nella famiglia paterna a seguito di un fallimento di coppia o per esigenze economiche.
Uno degli effetti più attesi della crisi economica si osserva sui comportamenti riproduttivi. In tutta Europa, dopo il picco negativo della metà degli anni ’90, la fecondità stava lentamente risalendo. La crisi sembra aver dato il colpo di grazia: il numero medio di figli per donna che era pari a 1,42 nel 2008 è sceso a 1,39 nel 2013, quando sono stati iscritti in Anagrafe per nascita poco più di 514mila bambini, circa 62mila in meno rispetto al 2008. Un calo prevedibile, ma non in questa misura, e aggravato dal fatto che, per la prima volta nell’ultimo decennio, si sono contratte anche le nascite da donne straniere.
Più difficile, invece, è stabilire un nesso tra crisi economica e livelli di mortalità e salute. In Italia i livelli di sopravvivenza non si sono modificati nel periodo di tempo corrispondente alla crisi, anzi è proseguito il guadagno in termini di speranza di vita, sia pure lievemente rallentato per gli uomini nelle regioni meridionali. Tuttavia, la crisi ha portato con sé rischi specifici: innanzitutto, un aumento significativo dei suicidi a partire dal 2008, che riguarda in modo pressoché esclusivo gli uomini nella fascia di età lavorativa tra i 35 e i 69 anni; in questa fascia di età nel 2011 si registrano 1.832 morti per suicidio, 345 in più rispetto al 2007.
Anche gli indicatori sulla salute forniscono solo indizi su un possibile effetto della riduzione del benessere economico individuale e collettivo, sui quali è bene però che la politica mantenga uno sguardo vigile.
Rispetto al 2005, nel 2013 migliora la percezione delle condizioni di salute fisica, ma peggiora quella relativa allo stato psicologico, soprattutto per adulti e giovani; aumentano le visite mediche generiche e specialistiche, ma queste ultime aumentano di più fra coloro che hanno risorse economiche adeguate, mentre il ricorso ad accertamenti diagnostici diminuisce per le fasce di popolazione più svantaggiate. In particolare nel corso del 2013, più di un italiano su 10 ha rinunciato per motivi economici a prestazioni sanitarie o all’acquisto di farmaci pur avendone bisogno. La percentuale sale fino al 23% per le donne di 45-64 anni residenti nelle regioni meridionali.
Netti sono gli effetti della congiuntura economica negativa sui processi migratori e, più in generale, di mobilità. Il numero di iscrizioni anagrafiche dall’estero è sceso dalle 558mila unità del 2007 alle 307mila del 2013, mentre gli ingressi regolari di cittadini non comunitari (nuovi permessi di soggiorno), pur restando intorno alle 250mila unità all’anno, sono sempre meno legati ai motivi di lavoro e sempre più a quelli familiari (ricongiungimenti), all’asilo politico e a altre motivazioni.
Questi cambiamenti nell’intensità e nelle modalità di ingresso degli immigrati stranieri fanno sì che la popolazione di cittadinanza non italiana residente nel paese sia cresciuta durante la crisi meno velocemente che negli anni precedenti, attestandosi al disotto dei 5 milioni di persone alla fine del 2013.
Contemporaneamente alla riduzione dei flussi in entrata di cittadini stranieri si osserva dopo il 2008 un aumento consistente dell’emigrazione di italiani verso paesi europei che garantiscano prospettive economiche e lavorative migliori; si è accresciuta soprattutto la propensione ad emigrare all’estero dei più istruiti e dei residenti nelle regioni settentrionali. I dati relativi alla mobilità interna indicano anche la persistenza degli spostamenti lungo la direttrice Sud-Nord del paese.
Guardando, infine, alla struttura demografica nel suo complesso (fig. 1), la popolazione italiana ha proseguito nel processo d’invecchiamento, nonostante il contributo (calante, ma ancora positivo) della presenza straniera. Nelle dinamiche recenti è leggibile un ruolo dell’instabilità economica in atto, che condiziona i comportamenti e le scelte individuali attraverso meccanismi complessi e con tracce che resteranno a lungo visibili sulla popolazione italiana degli anni a venire.
FONTE: Neodemos
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