Euro (breve sintesi)
(Proponiamo ai nostri lettori un breve testo riassuntivo che comparirà in una futura pubblicazione a cura dell’ARS)
Euro
M.Badiale, F.Tringali
Quando, nel 2011, abbiamo cominciato ad argomentare la necessità per il nostro paese di abbandonare l’euro[1], non era facile imbattersi, nel dibattito pubblico, in critiche esplicite alla moneta unica. Per fortuna abbiamo quasi subito incontrato persone che andavano nella stessa nostra direzione, a partire da Alberto Bagnai[2] e dagli amici che avrebbero poi dato vita all’ARS. Nel corso del tempo, i contenuti che diffondevamo hanno mostrato in pieno la loro correttezza, tanto che alcuni di essi sono entrati a far parte del mainstream economico.
Recentemente, un gruppo eterogeneo di economisti molto noti ha pubblicato una comune analisi, una “consensus narrative”, della crisi che ha raccolto ampie adesioni[3]. Ciò che ha messo d’accordo esperti appartenenti a orientamenti diversi, non diverge da quanto abbiamo cercato di diffondere già diversi anni fa. Il punto fondamentale è che la crisi dell’euro non è una crisi di debito pubblico, bensì una crisi di debito estero (pubblico e privato), generata dai deficit delle partite correnti nei paesi della periferia dell’eurozona. Tali saldi negativi si sono perpetuati nel tempo a causa delle profonde differenze fra le diverse economie nazionali.
È accaduto che con l’unificazione della moneta i paesi più deboli si sono trovati in mano una valuta troppo forte, mentre quelli del centro hanno goduto di un cambio più favorevole alle loro politiche economiche basate sulle esportazioni. Essi hanno colto la palla al balzo ed hanno realizzato riforme del lavoro che hanno diminuito la forza contrattuale dei lavoratori, e di conseguenza i loro salari. Perdita di potere di acquisto significa inflazione contenuta, e così proprio quei paesi che all’interno dell’unione monetaria erano economicamente più forti, hanno visto un aumento della competitività e, quindi, dei loro surplus commerciali. Il rovescio della medaglia, però, è stato il peggioramento della condizione dei paesi con inflazione più alta, che ovviamente hanno perso competitività rispetto ai primi. Gli squilibri fra le economie sono aumentati. Una volta scoppiata la crisi, ad essa non si è saputo rispondere adeguatamente perché la moneta unica ha privato i paesi dell’eurozona degli strumenti tradizionali che fungono da meccanismi di riequilibrio, come una banca centrale che ricopra il ruolo di prestatore di ultima istanza e la flessibilità del cambio valutario. Sebbene le recenti mosse della BCE abbiano raffreddato il clima, la situazione resta ancora molto difficile, e la crisi è ben lontana dall’essere risolta. Tutto ciò ormai va considerato assodato.
Una volta comprese le cause della crisi, diventa relativamente semplice immaginare le soluzioni. Molti autori hanno descritto strade percorribili, che seppur per vie diverse, conducono tutte allo stesso approdo: un meccanismo automatico di riequilibrio fra le diverse economie nazionali dei paesi che condividono la moneta.
Senza di esso, l’unica risposta possibile è quella che effettivamente è stata data fino ad oggi: la deflazione. Anche i paesi della periferia devono puntare al contenimento dei consumi interni. Diritti conquistati in decenni di lotte vengono sacrificati sull’altare della competitività. Le condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggiorano, ma la bilancia commerciale, lentamente, migliora. Tuttavia la crisi tende comunque ad avvitarsi su sé stessa, perché gli squilibri fra le economie non sono risolti e i paesi si trovano a competere in una gara che spinge continuamente al ribasso le condizioni di vita e di lavoro dei loro cittadini. Le riforme del lavoro hanno reso tutti i lavoratori facilmente licenziabili, così anche coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato perdono la garanzia di avere un reddito nel prossimo futuro. Le banche chiudono i rubinetti del credito, stentano ad erogare mutui, lasciano le imprese senza liquidità. Una volta sconquassato l’assetto economico-produttivo e spinto i lavoratori in una condizione di diffusa precarietà diventa impossibile far ripartire l’economia.
Diventa chiaro, come si diceva poco sopra, che per poter resistere agli urti delle crisi, all’interno di un’unione monetaria, diventa imprescindibile inserire un meccanismo automatico di riequilibrio fra le economie. Fra le molte proposte emerse, vale la pena citare quella di Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze di Atene, dato che egli si è trovato ad essere protagonista di uno dei momenti più drammatici dell’ultimo periodo.
Egli aveva ben descritto, nel 2011[4], una via d’uscita dalla crisi, che possiamo riassumere in tre passaggi:
a. La BCE deve subordinare l’assistenza alle banche alla condizione che queste ultime cancellino una quota consistente di crediti verso i paesi deficitari.
b. La BCE deve emettere propri bond e contestualmente incamerare una quota del debito pubblico di tutti gli Stati, pari al valore nominale del debito consentito dai trattati (cioè fino al 60% del PIL). I bond dovrebbero essere garantiti direttamente dalla BCE e non dai singoli Stati.
c. La BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l’assistenza della BCE, deve assumere il ruolo di riequilibratore fra i surplus e i deficit dei vari Stati. Varoufakis sottolinea che la BEI ha buone capacità di finanziare investimenti redditizi, ma le sue potenzialità non sono sfruttate. Il motivo è che per attivare i finanziamenti, gli Stati devono anticiparne una parte, ma non hanno il denaro per farlo (soprattutto quelli che hanno più bisogno dei finanziamenti). L’idea dell’ex ministro è che gli Stati possano utilizzare a questo scopo risorse derivate dall’emissione di bond della BCE, la quale, in pratica, rastrellerebbe le eccedenze dei paesi in surplus (dando loro i bond) reinvestendole in quelli in deficit.
In estrema sintesi, quindi, le tre mosse sono: la cancellazione di una parte del debito pubblico; la copertura della BCE su una ampia quota della restante parte (fino al 60% del PIL); l’introduzione di un meccanismo di riequilibro fra le economie, che trasformi le eccedenze dei paesi in surplus in investimenti nei paesi in deficit.
È evidente che queste tipo proposte si inserisce dentro lo schema generale che vede il superamento della crisi dell’euro in un approfondimento del processo di unità europea, perché la loro realizzazione presuppone la trasformazione dell’UE in uno Stato federale, o comunque in una sorta di entità statale unitaria, dotata di un proprio bilancio e della capacità di indirizzare flussi finanziari da una regione ad un’altra. È lo schema che si riassume nello slogan “più Europa”. Assieme a proposte economiche anti-austerità, questo tipo di approccio è diventato la linea di un’ampia gamma di forze politiche, prevalentemente di sinistra (ma non solo), che si dicono critiche verso le politiche economiche attuali, ma favorevoli alla UE e all’euro.
Purtroppo questo tipo di impostazione è politicamente fallimentare, come le vicende greche del 2015 hanno ampiamente dimostrato. Varoufakis è stato messo da parte, e con lui le sue proposte. Mentre il governo greco si è piegato ed ha accettato tutte le richieste tedesche.
Quali sono le reali ragioni di un tale fallimento? E’ chiaro che la crisi non è un problema solo economico, e le sue soluzioni non vengono valutate esclusivamente sul piano economico. Su tale piano, infatti, le soluzioni esistono. Le proposte sopra riportate, se applicate integralmente, probabilmente funzionerebbero. Il problema è se tutto ciò sia realizzabile sul piano politico, ed a quali costi.
Il problema, cioè, è se sia pensabile realizzare, e a quali costi, una forma di unità europea nella quale la Germania finanzia indefinitamente i deficit della Grecia, dell’Italia, della Spagna.
E’ facile immaginare che i paesi del centro Europa non accetteranno mai una simile situazione, a meno che gli altri non cedano, integralmente, la loro sovranità, diventando meri vassalli. L’Eurozona dunque, è di fronte ad un bivio: frantumarsi o diventare un “superstato” dominato dalla Germania e incentrato sulle sue politiche di austerità e deflazione.
L’idea che un eventuale “superstato” europeo possa assumere connotati diversi da quelli esposti è totalmente irrealistica.
La costruzione di uno Stato europeo che adotti una politica economica radicalmente contraria alla vulgata neoliberista che è dominante da circa trent’anni, presuppone l’esistenza di una forza politica europea che lo ponga come obiettivo e abbia ragionevoli speranze di conseguirlo. Una tale forza politica, per esistere, deve avere una base sociale effettiva. E chi potrebbe comporre una tale base sociale? Forse i ceti dominanti europei? Basta formularla, questa ipotesi, per capirne l’assurdità. I ceti dominanti hanno costruito questa UE e questo euro esattamente perché essi servono al meglio i loro interessi. È semplicemente insensato pensare che, di colpo, possano rovesciare completamente le politiche tenacemente perseguite da decenni, per impostarne altre, favorevoli alla riconquista di diritti e redditi da parte dei ceti subalterni.
L’alternativa è pensare che la riscossa possa nascere dai ceti subalterni europei, uniti in una lotta comune contro austerità, deflazione, neoliberismo. Si tratta di un’impostazione ampiamente diffusa nel mondo della sinistra radicale. Essa rappresenta la base per una possibile proposta di azione politica: organizzare i ceti popolari in una lotta unitaria a livello europeo, senza “tornare indietro” allo Stato-nazione, ormai superato, secondo i fautori di tale impostazione.
Per capire se questa impostazione rappresenti una possibilità reale o sia un mero flatus vocis è sufficiente rendersi conto che questa idea campeggia da almeno cinquant’anni. Oltre mezzo secolo, durante il quale i ceti dominanti sono stati effettivamente capaci di costruire unità, mentre le forze popolari non hanno potuto farlo (né ci sono motivi per pensare che lo potranno in futuro).
Era il 1964 quando, all’interno della sinistra, si affermava quanto segue[5]:
“C’è stata una trasformazione dei rapporti di forza a vantaggio della borghesia e a spese dei lavoratori per tutto il periodo di avviamento del Mercato Comune.
Questo cambiamento dei rapporti di forza deriva da tutta una serie di cause (…). Non ci soffermeremo ad esaminarle una per una, ma ci limiteremo ad illustrare un fatto fondamentale: l’internazionalismo dei padroni e delle loro organizzazioni è risultato molto più concreto ed efficace di quello dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
D’altra parte, era facile prevederlo, e chi, nel movimento operaio, ha cercato di tapparsi gli occhi e ha predetto che la realizzazione del Mercato Comune avrebbe favorito la lotta operaia e persino la lotta socialista contro il padronato non ha fatto che nutrire pie illusioni. Era inevitabile che la borghesia e il padronato, per la loro stessa tradizione, per il loro modo di vivere, per l’ambiente in cui si muovono e i mezzi di cui dispongono, fossero molto più pronti ad un’azione su scala europea che non la classe operaia (…).
In proposito, possiamo esprimere un moderato ottimismo. È innegabile che, a lungo andare, la realtà riuscirà a spuntarla sul pregiudizio, la lezione dell’esperienza insegnerà a tutti i settori sindacali che ancora non lo capiscono, che è indispensabile un’unità d’azione in seno al Mercato Comune.”
Dopo cinquant’anni, la sinistra radicale odierna continua a considerare valide queste idee nonostante tutta la storia recente abbia dimostrato inequivocabilmente che non vi è nessuna solidarietà fra i ceti subalterni europei, mentre l’unico soggetto sociale capace di agire sul piano europeo è rappresentato dai ceti dominanti. Sono essi ad essere unificati dalla lingua (l’inglese internazionale), dalla cultura e dal modo di vita, mentre tutti gli altri sono divisi[6]. L’unico piano sul quale è possibile lottare contro di loro è quello nazionale. Non a caso, è questo l’unico piano sul quale siano stati costretti a concedere qualcosa ai ceti subalterni.
Nei prossimi decenni non è realizzabile alcuna “altra Europa” che imposti un riequilibrio fra i diversi paesi e realizzi politiche favorevoli ai ceti popolari. I ceti dominanti, in particolare le loro frazioni egemoni concentrate nei paesi del Nord, non lo accetteranno mai. Probabilmente, per evitare di perdere l’euro, consentiranno un qualche tipo di finanziamento dei paesi in deficit, ma solo in cambio della totale espropriazione della loro sovranità. E, come ovvio, useranno il potere così ottenuto per difendere interessi che, in parte, potranno anche accordarsi con quelli dei ceti dominanti dei paesi vassalli, i cui cittadini non avrebbero altra prospettiva che quella di diventare “gli ultimi” di una struttura di tipo neocoloniale.
La lotta contro euro e UE, per la riconquista della sovranità popolare e per l’integrale applicazione della Costituzione Italiana del 1948, è l’unica possibilità di sfuggire a questo destino.
[1] Marino Badiale, Fabrizio Tringali, Liberiamoci dall’euro, Asterios, Trieste 2011. Si veda anche Id., La trappola dell’euro, Asterios, Trieste, 2012.
[2] Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia 2012. Id., L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano 2014. Si veda anche il blog http://goofynomics.blogspot.it/
[3] Si vedano i documenti relativi all’URL http://www.voxeu.org/article/ez-crisis-consensus-narrative
(in traduzione italiana http://vocidallestero.it/2015/11/23/ce-consenso-su-crisi-delleuro-giavazzi-blanchard-de-grauwe-ecc-ovvero-la-crisi-delleuro-e-dovuta-alleuro/ ).
[4] Yanis Varoufakis, Il Minotauro Globale, Asterios, Trieste 2012. L’edizione inglese originale è dell’anno precedente.
[5] Ernest Mandel, Neocapitalismo e crisi del dollaro, Laterza, Roma-Bari 1973, pagg. 92-93. Mandel (1923-1995) è stato un economista e uomo politico marxista, esponente di rilievo dell’indirizzo trotskista.
[6] Marino Badiale, Fabrizio Tringali, Liberiamoci dall’euro, cit., pagg.15 segg.
Questo articolo esce anche sul blog “Badiale&Tringali”: http://www.badiale-tringali.it/2016/02/euro-breve-sintesi.html
Interessante.
Comunque direi che il piano del tamarro greco era fallimentare anche sul piano meramente economico.
Un piano di investimenti pubblici per esempio in Grecia, quantomeno nell’immediato, avrebbe senza ombra di dubbio aggravato l’esposizione debitoria estera in assenza di riallineamento valutario.
Il che ovviamente può anche essere accettabile se la BCE “mangia” una parte del medesimo, ma va considerato anche questo, come nota sempre Bagnai.