150 anni di unità nazionale: un bilancio linguistico
di LUCA SERIANNI (linguista e filologo; Università “La Sapienza”)
Su quattro possibili voci di un bilancio linguistico relativo ai centocinquant’anni postunitari, solo una, la terza, è di segno negativo. La prima tocca il rapporto dialetto-lingua, un rapporto ineludibile nel caso dell’Italia in cui i dialetti hanno segnato per secoli l’interfaccia linguistica del pluricentrismo politico e più latamente storico. È notissima la valutazione di Tullio De Mauro, il quale nel 1963 calcolò che appena il 2,5 per cento dei parlanti potevano considerarsi italofoni. La percentuale è stata discussa, ma è vero che i termini del problema non cambierebbero anche se quella quota dovesse essere moltiplicata di due o tre volte. Se nel 1861 erano pochi i cittadini in grado di parlare l’italiano, non è però sostenibile un eventuale corollario, secondo il quale sarebbe esistito solo l’italiano scritto della tradizione letteraria, chiuso in una specie di teca museale.
Il linguista ticinese Sandro Bianconi ha dimostrato nel 1991, esplorando i ricchissimi carteggi dei cardinali Borromeo (circa 60.000 lettere), che l’italiano già nel secondo Cinquecento era diventato anche nei centri minori “la lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società”; Francesco Bruni ha accertato la circolazione di un italiano ampiamente usato nel Levante dal XVI al XIX secolo in funzione di lingua veicolare diplomatica. E non va sottovalutata, per la circolazione di un modello scritto o comunque italianizzato presso le masse, l’azione della Chiesa e l’abituale ricorso all’italiano, non al dialetto, nella predicazione: un canale a cui era esposta regolarmente la quasi totalità della popolazione dialettofona.
Dall’ultimo sondaggio disponibile (Istat, 2006) ricaviamo un’evidente regressione della dialettofonia esclusiva: solo il 16 per cento parla abitualmente dialetto in famiglia, ossia in una situazione di massima informalità, rispetto al 32 per cento di vent’anni prima; nei giovani (6-24 anni) la quota si riduce ulteriormente (8,1 per cento), in forte contrasto con la popolazione con più di 65 anni in cui il dialetto è usato abitualmente in famiglia dal 32,2 per cento.
Tra le ragioni che hanno favorito l’espansione dell’italofonia, ha un’importanza particolare la scuola, alla quale è giusto dedicare la seconda riflessione. Nel 2007-2008 una giovane studiosa, Paola Chiesa, lavorando presso gli archivi del Comando Militare Esercito Lombardia per diversi mesi, ha trascritto una consistente mole di lettere di soldati dell’Oltrepò pavese impegnati al fronte o internati nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale.
La massima parte dei soldati (muratori, calzolai, contadini) è alfabetizzata: moltissimi sono arrivati alla licenza elementare, tutti hanno frequentato almeno le prime classi. L’impressione complessiva è che la scuola del tempo sia stata in grado di fornire un dominio grafico e linguistico discreto.
Oggi la situazione non è certo peggiore del 1940, nonostante certo diffuso catastrofismo. Non ci sono solo aspetti critici (doverosamente additati, ma anche amplificati, dai giornali); gli insegnanti italiani in genere sanno fare il loro mestiere e la lamentata “fuga dei cervelli” è insieme una denuncia dell’università italiana, che offre pochi sbocchi ai migliori, e un riconoscimento indiretto alla formazione che si può tutt’oggi ricevere in un buon liceo.
Terzo punto: la lingua italiana ha oggi una sua capitale? La risposta, in questo caso, è negativa. Roma, talora discussa addirittura come capitale politica, non ha potuto o voluto essere il crogiolo in cui si fondesse la varietà parlata di prestigio, a cui potessero guardare le mille città della Penisola.
La varietà alta dell’italiano parlato a Roma ebbe la sua grande occasione per affermarsi in società negli anni dell’unificazione. Gli ultimi episodi significativi di amore settentrionale per la Roma linguistica sono molto più recenti e si devono a due scrittori illustri, Pasolini e Gadda, che ancora negli anni Cinquanta scommettevano sulla varietà romanesca come esempio di parlato italiano medio.
Ma la scommessa è stata persa. A Roma non è bastato essere centro del potere politico; godere tuttora di una posizione egemone nella produzione televisiva; veicolare, attraverso fortunati attori comici, modelli cinematografici cari al largo pubblico.
Eventuali ambizioni sovramunicipali sono state troncate dalla stessa, inattesa e imprevedibile, vitalità del dialetto plebeo: l’incapacità “della capitale politica di essere anche una credibile capitale linguistica, nella cui voce possa riconoscersi la maggioranza dei parlanti – ha scritto recentemente Pietro Trifone – rappresenta un ulteriore elemento di fragilità della coesione nazionale”.
[“L’Osservatore romano”, 31 gennaio-1 febbraio 2011]
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