I principi dell’istruzione secondo i nostri Padri (II)
di DAVIDE VISIGALLI (ARS Liguria)
(Seconda Parte)
Nella prima parte ci siamo occupati dell’articolo 34, qui ci occuperemo del 33 e dei suoi fondamentali principi:
Art 33
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
Questo articolo affronta tre grandi tematiche: la libertà della scienza e dell’insegnamento, il rapporto tra scuola pubblica e privata e l’autonomia universitaria. Anche qui, il confronto con le argomentazioni dell’attuale classe dirigente è umiliante. Subito si discute sul concetto di libertà e le problematiche che ne potrebbero derivare:
Lucifero: l’unica anarchia che ammette è quella nel campo della scienza, la quale per affermarsi e svilupparsi ha bisogno di un’assoluta libertà.
La Pira: […]Ed infine il pluralismo culturale, il quale afferma quel principio della libertà di insegnamento e della libertà della scuola, e quindi quella gara nella costruzione del mondo culturale che è essenziale per la rinascita del nostro Paese.
Bianchini: Noi crediamo, infatti, che la parola libertà abbia in sé immanente il concetto di autolimite e, quindi, dicendo libertà, proprio per reverenza che abbiamo per questa parola, vogliamo che le venga conservato esatto il suo significato. Non dobbiamo cercare i motivi che ci dividono, ma quelli che ci uniscono, per un bene che ci è comune.
Bianchi: La libertà è serietà di vita e di insegnamento, sincerità di propositi e di azione. In altri termini la libertà è l’affermazione di una personalità, non è la corsa ai diplomi, ai titoli, come è stato fatto dal 1939 ad oggi.
Binni: […]dare al numero maggiore possibile di persone il possesso di cognizioni, ma insieme dare ad esse la possibilità e la consapevolezza della loro destinazione umana.
Questo punto della libertà d’insegnamento è uno di quei punti e di quei principî in cui la grande parola «libertà» è suscettibile di troppe diverse determinazioni. Può essere qualche volta perfino, come si dice in certi stili, nisi mendacium, non altro che menzogna, può essere un tranello, può essere pericoloso tranello. Evidentemente proprio su questo punto si può spiegare il contrasto e vorremmo dire che non ci si dolga se, in casi di tanta importanza, si verrà a svolgere un contrasto nei suoi veri termini, specialmente di fronte ad una società come quella italiana, in cui troppo spesso l’uso tendenzioso e antitetico delle stesse parole ha generato una strana confusione.
Gli interventi seguenti parlano di due tipi diversi di libertà: la libertà della scuola contrapposta alla libertà nella scuola:
Mancini fa rilevare la differenza esistente tra libertà «della scuola» e libertà «nella scuola».
Bernini: Lo spettro del fascismo è ancora presente, e poiché il fascismo aveva tutto attribuito allo Stato, così, per una reazione naturale, ma eccessiva, ora si tende a togliere tutto allo Stato, in nome del diritto di libertà. Non si pensa abbastanza che oggi lo Stato non è più lo Stato fascista, ma è lo Stato democratico. E per di più c’è un’altra ragione: si confonde lo Stato con la burocrazia. Confluiscono insieme al municipalismo parecchie correnti politicamente inquiete: l’individualismo romantico, il razionalismo religioso e il cattolicismo liberale dell’800 francese, il liberalismo astratto e, più recente, il sindacalismo soreliano e il nazionalismo. Sicuro, anche il nazionalismo — che noi vedemmo qui nella sua attività pratica, statalista e burocratica — il nazionalismo francese di Barrés e di Maurras, fu antistatale, regionalista e decentratore. Barrés chiamò il re presidente delle Repubbliche francesi.
Ma sopratutto si accordano in questo — chi l’avrebbe detto? — le due grandi correnti regionaliste e autonomiste del nostro Risorgimento, figlie di pensiero avverso e inconciliabile quanto altri mai, la repubblicana e la cattolica, sconfitte entrambe dall’unitarismo di Cavour, nel 1861. Da una parte, Rosmini e Gioberti; dall’altra, Ferrari e Cattaneo.
La stessa riforma Gentile del 1923 è una riforma di tipo democratico e liberale: è figlia di uno spirito di libertà. L’ha detto altra volta il nostro collega onorevole Preti. Si stupirà di tale affermazione solo chi pensi al Gentile di poi, apologeta e teorico del fascismo, ma ignori che la Riforma Gentile fu il risultato di una lunga elaborazione anteriore, di carattere liberale. Il fascismo, se mai, sciupò, al solito, un principio giusto e nuovo. Ed è tanto vero ciò, che la riforma fu, dopo, attenuata e snaturata, finché fu poi soppressa. Così, per noi socialisti, che non ci vergogniamo di essere eredi della civiltà liberale e democratica in tutto ciò che essa ha di vitale, il diritto della famiglia e il diritto dello Stato si limitano a vicenda, perché ambedue sono limitati dal diritto del fanciullo. oprattutto il pensiero e la formula di Filippo Turati, del nostro Turati, il quale contrapponeva alla formula equivoca di «libertà della scuola» l’altra formula di «libertà nella scuola», cioè duplice libertà, sia da parte del maestro sia da parte del discepolo. E vi è anche la vecchia formula che ci deriva dai secoli: res sacra puer, cioè il fanciullo è cosa sacra. Noi adotteremo quindi la formula della libertà nella scuola. Secondo e ultimo punto per noi essenziale è che il solo Stato conferisca i titoli legali di studio. Noi però affermiamo, e lo affermiamo per conoscenza diretta, che l’odierna spaventevole inflazione dei diplomati e dei laureati si deve in gran parte all’incauto sistema delle parificazioni instaurate dal fascismo e dal cosiddetto esame di Stato della carta della scuola Bottai, per cui gli esami si fanno, non più dinanzi ad una Commissione di Stato unica, ma nell’interno dei singoli istituti.
Qui sopra il Bernini, oltre a sviscerare la definizione di libertà scolastica, sottolinea la differenza tra lo Stato totalitario fascista e quello democratico repubblicano pur ammettendo che la riforma scolastica scritta da Gentile sotto la dittatura non fu dettata sotto l’ideologia del momento storico ma fu frutto di elaborazioni e discussioni antecedenti. Ho voluto riportare quest’ultimo punto per sottolineare come durante la Costituente sia stato fatto un enorme lavoro di analisi dei principi che dovevano disciplinare la neonata Repubblica senza farsi soggiogare da facili preconcetti derivanti dalla vittoria e dal momento storico. Quegli uomini,pur avendo appena combattuto contro il fascismo, entrarono nel merito di ogni singola legge senza covare sentimenti di vendetta o distruzione del recente passato. Anche qui sta la loro grandezza.
Emblematico è poi il commento che il Bernini lascia sul pensiero di Einaudi, economista liberista che prendeva parte ai lavori:
Ma al nostro illustre collega onorevole Einaudi è attribuita nei verbali della seconda Sottocommissione una frase che merita d’essere chiarita. Egli si dichiara favorevole a dare ampio potere legislativo alla regione, non solo per l’istruzione elementare, ma anche per l’istruzione media e universitaria, in quello che è ora l’articolo 109 del progetto, che attribuisce alla regione potere legislativo in armonia con la Costituzione e con i principî generali, «perché non vede quali pericoli all’istruzione elementare potrebbero derivare dal togliere l’ingerenza in questa materia allo Stato, che finora non ha fatto altro che male».
Io temo che l’illustre economista, il quale ha parola di ampia lode e stima per gli insegnanti, sia tratto a vedere nella scuola una impresa puramente economica. Certo, lo Stato non è così abile amministratore come certi gestori di scuole private, ma non è con tale misura che conviene misurarne l’opera. (Approvazioni — Applausi a sinistra).
Poi inizia la lunga diatriba, tra democristiani, socialisti e comunisti (capeggiati da Moro e Marchesi), sulla parità scolastica tra scuola pubblica e privata, (visto la lunghezza della discussione durata innumerevoli sedute, riporto solo i concetti interessanti a favore della scuola pubblica, ovviamente è una visione di parte, il lettore che volesse approfondire in maniera autonoma può andare qui):
Cevolotto fa presente che, anche chiarito che il comma si riferisce soltanto alla scuola privata parificata, resta il fatto che quando si dice: «agli alunni di essa è conferita eguaglianza di trattamento con quelli delle scuole dello Stato», ciò significa anche uguaglianza di trattamento dal punto di vista economico. Ora egli ritiene che, essendosi stabilito che vi è un diritto da parte del singolo di essere aiutato per compiere gli studi se dimostri particolari meriti, lo Stato debba dare sussidi, agevolazioni e borse di studio soltanto a quegli alunni che frequentano le scuole pubbliche.
Marchesi richiama l’attenzione dei colleghi sul fatto che, votando l’aggiunta dell’onorevole Moro, si verrebbe a creare un’enorme e ingiustificata disparità tra scuola privata e scuola pubblica, a tutto vantaggio della prima.
Naturalmente gli alunni tendono ad affluire verso la scuola privata che possono presumere assai meno severa e che permette loro di fruire nello stesso tempo del pubblico denaro.
Mazzei: Ma non si può stabilire un diritto per gli alunni delle scuole non statali a fruire delle borse di studio istituite dallo Stato. In fondo, la scuola non statale è un’impresa economica privata che ha lo scopo di gestire un istituto di istruzione. Ora, l’istruzione dei cittadini è un precipuo interesse pubblico e in considerazione di ciò lo Stato può trovare utile ed opportuno di accordare dei benefici anche a scuole private o agli allievi di scuole private. Ma una cosa è che possa farlo e lo faccia quando lo ritiene utile ed opportuno, altro è che sia tenuto, giuridicamente e costituzionalmente, a farlo, cosa questa evidentemente inammissibile.
Marchesi: Ripeto ancora una volta, colleghi democristiani: la scuola pubblica nazionale non può e non deve essere considerata come un lazzaretto per gli appestati. Anche i figli delle famiglie cattoliche possono entrare là dentro, come vi entrano in gran numero, senza che abbiano a riceverne danno.
Bernini: Si dice che le provvidenze vanno agli alunni, ma, onorevole Moro, di fatto, le provvidenze vanno alle scuole. (Commenti).
Eppoi, come è stato detto con molta acutezza dall’onorevole Marchesi, quanto più le scuole private avranno la possibilità di avere alunni i quali beneficino di queste provvidenze, tanto più saranno indotte, per quanto possono, a largheggiare nella valutazione degli alunni stessi. (Commenti al centro).
Mazzei: Lo Stato, può, se crede, concedere di volta in volta provvidenze, ma non vi deve essere tenuto giuridicamente e costituzionalmente.
Marchesi: La scuola, a suo avviso, non è confessionale, non è filosofica, non è dogmatica, perché in essa deve essere ammesso qualunque principio, qualunque metodo di insegnamento, purché non contravvenga ai principî elementari e fondamentali dell’educazione.
Lo Stato può riconoscere l’utilità della scuola privata, ma non può riconoscerne la necessità, perché ciò facendo verrebbe a riconoscere la propria insufficienza a provvedere ai bisogni dell’educazione nazionale. Ad affermare isolatamente in una posizione privilegiata, questa funzione scolastica dello Stato, egli è indotto da due correnti che gli sembrano minacciose in quanto tendono alla smobilitazione della scuola pubblica o ad ogni modo alla sua attenuazione; la corrente autonomistica e quella cattolica, la quale ultima è diretta a fare della scuola privata confessionale la scuola di fiducia delle famiglie italiane.
Per quanto riguarda la corrente autonomistica, osserva che vi sono taluni che intendono sottrarre allo Stato la funzione scolastica per affidare ai comuni e alle regioni l’istruzione primaria e anche quella secondaria. Ora si può e si deve consentire che la regione possa provvedere direttamente ai propri bisogni nel campo amministrativo con quella spedita competenza che un’amministrazione centrale non avrà mai; ma quando si voglia entrare nel campo della scuola, che è un fatto eminentemente morale, nazionale, e perciò politico, lo Stato non può rinunciare a questo che è l’unico strumento e l’unica garanzia dell’unità nazionale. Soltanto allo Stato, per la molteplicità dei suoi poteri e per la pluralità dei suoi mezzi, spetta il compito di ordinare, di controllare l’istituzione e di conferire titoli legali allo studio.
Qui Dossetti controbatte citando la libera concorrenza:
Dossetti: All’onorevole Marchesi che ha parlato di fiducia e di sfiducia verso lo Stato, risponde che la fiducia lo Stato non se la deve meritare precostituendo una posizione di privilegio per la sua scuola, ma organizzando la scuola in condizioni di libera concorrenza con la scuola privata, e facendo sì che la sua scuola sia migliore di quella privata.
E qui ottiene risposta:
Mastrojanni: Insiste, pertanto, perché sia ben precisato che questa responsabilità deve rimanere esclusivamente allo Stato, e che nel contempo venga lasciata la più ampia libertà a tutte le private iniziative, sotto il controllo dello Stato stesso.
Marchesi: La scuola privata sia liberissima, fiorisca in tutte le parti d’Italia, ma fiorisca coi propri mezzi e goda della sua libertà; non chieda l’intervento e il favore dello Stato, perché essa aprirebbe le porte ad una ingerenza statale gravissima per la stessa libertà dell’insegnamento privato.
Visto che la discussione si stava prolungando a dismisura senza trovare un accordo, il Presidente della seduta cerca di fare da mediatore:
Il Presidente Corsanego ritiene che si potrebbe almeno tentare di trovare una formula conciliativa, pur riconoscendo che ci sono inevitabilmente due punti di vista diversi. D’altra parte è bene che ciascuno assuma la propria responsabilità e dichiari il proprio pensiero. È costume proprio della democrazia di portare in discussione le diverse opinioni, perché appunto dal cozzo delle opinioni venga fuori la verità.
Preti: Le parificazioni, negli ultimi anni, sono state la fortuna, da un lato, di privati speculatori, e dall’altro degli istituti ecclesiastici, ma hanno dato un colpo mortale alla serietà degli studi. (Interruzioni).
E la scuola statale fa pietà appunto perché si è dovuta mettere in concorrenza con la scuola parificata, abituata a promuovere e a licenziare tutti, pur di farsi réclame. Noi non facciamo in realtà che difendere le posizioni dello Stato liberale; se volete, anche la stessa legge Gentile, che non fu affatto fascista, perché preparata da Benedetto Croce, e dal travaglio degli educatori dell’era liberale.
Binni: ci sono le scuole pareggiate e quelle parificate. E vorrei far notare la grande differenza che c’è tra queste due forme: la forma più seria, più antica, la forma del pareggiamento, la forma che garantisce la dignità della scuola in quanto i suoi insegnanti provengono da concorsi, e la parificazione che è un po’ come un’etichetta che viene posta su una bottiglia, convalidandone il contenuto senza conoscere di che contenuto si tratti.
Interessante notare la profonda conoscenza giuridica dell’argomento, qui addirittura si esamina il problema della scuola privata attraverso tutte le maggiori Costituzioni del tempo (ricordo che Internet non esisteva e le ricerche bisognava farle per ore in diverse biblioteche!) facendo un riferimento, per noi importante, sui principi della scuola americana:
Silipo: Dicevo in precedenza che in quasi tutte le Costituzioni contemporanee si nota una certa diffidenza verso la scuola privata. Difatti, ad eccezione di quanto è detto riguardo alla educazione nel progetto di Costituzione giapponese del 1946, nel qual progetto, all’articolo 21, si parla della libertà di insegnamento — l’articolo suona testualmente così: «La libertà di insegnamento è garantita», e non contiene alcun accenno a controllo o a qualsiasi altra forma d’intervento statale — sia in quella di Weimar del 1919, sia in quella sovietica del 1936, sia in quella francese del 1946, lo Stato ha una posizione predominante in materia. In quella di Weimar, per esempio, è lo Stato che si assume l’obbligo di provvedere all’educazione dei giovani mediante istituti pubblici; è esso che cura la formazione di insegnanti in modo uniforme, controlla il complesso dell’ordinamento scolastico (articoli 142, 143, 144), e, se riconosce la possibilità dell’istituzione di scuole private secondarie, prescrive che ci deve essere l’autorizzazione dello Stato, che la rilascia a condizione che esse diano le necessarie garanzie relativamente ai programmi, all’organizzazione, al trattamento economico e giuridico degli insegnanti. Lo stesso dicasi di quella sovietica, nella quale si stabilisce che la scuola viene fondata, mantenuta e diretta dallo Stato con la collaborazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle famiglie degli alunni. In quella francese l’organizzazione dell’insegnamento di ogni grado è considerata come dovere dello Stato (articolo 25). Perfino nell’Inghilterra, che si vanta — non vogliamo dire con quanta ragione — di essere la patria di tutte le libertà, s’è sentito il bisogno, nel 1944, di creare con l’Education Act un vero e proprio Ministero dell’educazione, onde porre fine alla situazione abbastanza caotica dell’istruzione secondaria. Negli Stati Uniti soltanto manca una organizzazione centrale e ogni Stato della Confederazione ha un ordinamento proprio, con il risultato che in alcuni Stati l’organizzazione presenta un accentramento notevole, in altri invece il decentramento è massimo, sino al punto che ogni città, ogni villaggio elegge la sua autorità scolastica, per cui le differenze fra scuola e scuola sono molto rilevanti.
Ma l’organizzazione scolastica statunitense, per gli effetti che produce, non è tale da suscitare entusiasmo e desiderio d’imitazione in alcuno (questa considerazione dovremo tenere presente, allorché, parlando delle autonomie regionali, discuteremo l’articolo 111).
…bisogna assolutamente impedire che l’educazione si trasformi in speculazione per asservire le menti e gli spiriti, perché, se è vero che l’analfabetismo è uno dei quattro cavalieri della Apocalisse — essendo esso uno dei peggiori nemici della libertà, e noi del Mezzogiorno ben lo sappiamo — non è men vero che una mente ed un cuore, deformati da un’educazione settaria, costituiscano una delle più gravi piaghe sociali, e come il primo fornì al Cardinale Ruffo le orde da scagliare contro gli eroi del forte di Vigliena e di tutta la Repubblica napoletana del 1799, così una gioventù, asservita nella mente e nello spirito, potrebbe fornire domani altre orde, altrettanto pericolose, a chi nutrisse vaghezza di attentare ancora una volta alla libertà del popolo italiano. (Applausi — Congratulazioni).
Infine, l’ultimo importante principio di questo articolo, l’autonomia delle istituzioni di alta cultura:
Piccioni.[…] Per le università e gli istituti superiori si affaccia un altro concetto di autonomia. Non si è fatto un guadagno sottoponendole all’ordinamento unitario dello Stato: nei paesi liberi e democratici le università trovano, nella loro autonomia, un motivo serio e profondo per servire al più ampio sviluppo della scienza. Allo Stato devono rimanere solo le funzioni ispettive ed un controllo attraverso l’esame di Stato, il quale ultimo, in un regime libero, rappresenta una garanzia per gli scopi generali che lo Stato deve salvaguardare.
Colonnetti: L’Università è oggi soffocata dalle masse dei giovani che si affollano alle sue porte senza possedere attitudini e nemmeno aspirazioni alla preparazione scientifica o ad una reale elevazione morale e sociale, spinti soltanto dal proposito di conquistarsi in qualunque modo un titolo che apra la via ad uffici lucrosi.
L’Università non si salva se non attraverso un radicale rinnovamento dei suoi ordinamenti, capace di attuare una severa selezione ed un orientamento dei giovani. Tali nuovi ordinamenti dovranno essere così variamente articolati e differenziati da preparare i giovani meritevoli e capaci, perché forniti delle necessarie attitudini e perché orientati, avviandoli mediante una specifica formazione verso le singole attività professionali o verso le più alte mete della cultura.
Ad un tale risultato non si arriverà mai se non si metteranno in gioco le libere iniziative attraverso una completa autonomia di governo didattico ed economico dei singoli Istituti; autonomia che sola può permettere agli Istituti stessi di darsi un particolare e ben determinato carattere nella costituzione stessa del corpo insegnante e nella libera adozione di quegli ordinamenti che, caso per caso, più si confanno al raggiungimento dei fini che i singoli istituti si propongono, adeguando al programma i mezzi di cui essi dispongono.
L’autonomia, se reale e completa, varrà a fissare le responsabilità dei corpi insegnanti e a restituire all’insegnamento superiore quel prestigio che esso ha ormai perduto.
Allo Stato resterà il diritto di disciplinare l’esercizio delle professioni attraverso il conferimento dei relativi diplomi di abilitazione. E nell’esercizio di questo suo diritto avrà sempre modo di operare quel controllo che deve garantire ogni cittadino e stimolare le Università nell’esplicazione delle loro libere attività.
Se questa Assemblea avrà il coraggio di affermare il principio dell’autonomia degli Istituti di alta cultura, essa potrà ben dire di aver con ciò posta una pietra basilare dell’edificio nuovo nel quale si matureranno i futuri destini e le future grandezze d’Italia.
Anche qui le opinioni sono diverse, chi vuole un’autonomia assoluta, chi vuole una dipendenza assoluta e le varie forme di compromesso tra i due estremi:
Codignola: la verità della scuola era intrinseca a se stessa, era intrinseca all’insegnamento, così come l’unico decentramento possibile della scuola è il decentramento che si attua nel singolo rapporto di fanciullo e maestro. Come potete pensare sul serio che sia possibile riconoscere oggi la necessità di procedere sulla strada delle nazionalizzazioni economiche, e invece ritenere che lo Stato, proprio mentre procede avanti sul cammino della civiltà rinunzi a questo che è il suo privilegio fondamentale, cioè l’educazione dei cittadini? Ecco la ragione per la quale noi voteremo contro gli emendamenti proposti per l’indipendenza delle Università nei riguardi dello Stato. Rivera i cultori di scienza siano rassicurati, che il loro pensiero e la loro attività non saranno più fuorviati da interferenze politiche: ricordo che la politica è mutevole e capricciosa. Coloro che si affaticano dietro la ricerca per il vero ed il giusto abbiano l’assicurazione che mai più sotto il Governo attuale e sotto i Governi che si succederanno, gerarchie burocratiche o politiche possano influire sulla loro attività. Le Università non sono state mai così dipendenti e così a disposizione della burocrazia e dei ministeri, come da quando si è detto che esse sono autonome. È una fatalità, ma l’autonomia è andata proprio sfumando da quando essa è stata proclamata.
Ora noi chiediamo che le Università diventino veramente autonome, che cioè questa autonomia non sia una burla, che cioè il Governo, lo Stato — ho sentito parlare dello Stato qui dentro con una grande devozione e questo mi ha fatto paura — che cioè lo Stato dia i fondi, ma che poi le Università possano governarsi da sé. Non ho bisogno di ricordare ad una Assemblea colta, come questa, quanto onore, quanta gloria hanno dato al nostro Paese le nostre Università medievali, che si governavano da sé democraticamente. Lo dimostra un piccolo dettaglio: la nomina del Rettore fatta dagli studenti.
A mio parere il nodo centrale lo affronta l’onorevole Giua, quando si riferisce al pericolo dell’autonomia economica più che organizzativa:
Giua: Se noi dichiariamo oggi le Università autonome, corriamo il pericolo di vedere creati in Italia tanti centri di insegnamento, che si possono contraddire l’uno con l’altro, non solo nei programmi, ma soprattutto dal punto di vista della ricerca sperimentale, per quei mezzi che è necessario dare ai laboratori di ricerche, che, qualora le Università fossero assolutamente autonome, non potrebbero trovare né con le tasse degli alunni, né con altri mezzi, per cui oggi dare alle Università la perfetta autonomia, significa porre un problema che le Università italiane non possono risolvere, nel senso di favorire lo sviluppo delle Università stesse.
Si discute anche del ruolo morale degli insegnanti:
Malagugini: Assicurare agli insegnanti condizioni economiche, giuridiche e morali dignitose che consentano loro non solo di vivere materialmente, ma di integrare ed aggiornare continuamente la loro cultura e la loro preparazione: ecco il dovere dello Stato. E poi essere inesorabile nel pretendere che essi facciano tutto intero il loro dovere, eliminando senza pietà gli inetti e gli indegni. Lavoriamo insieme per irrobustirne la struttura, per rafforzarne l’autorità, per far sì che diventi veramente la scuola di tutti e prepari, in un clima rinnovato di effettiva democrazia, i quadri dirigenti della società di domani. (Vivi applausi a sinistra — Congratulazioni).
Qui riporto il lungo intervento dell’onorevole Della Seta che riassume le tematiche che ho voluto affrontare in questo post:
Della Seta: Parlo come uomo che della scuola ha una grande esperienza e che la scuola ha profondamente amato; parlo come uomo convinto che, se non si ha un corpo insegnante, il quale comprenda che quella dell’insegnamento non è semplicemente una carriera, ma è una vera alta missione, una vera cura di anime, tutte le riforme scolastiche saranno nulle. Se è vero che la nostra oggi deve essere anche opera di ricostruzione morale, il primo compito in questa ricostruzione, dopo la famiglia, spetta alla scuola. La scuola, la vera pietra angolare, basilare, del grande edificio: la scuola che il popolo deve apprendere ad amare ed a tutelare come il vero tempio civile della Nazione. Ma il problema della scuola non è un problema astratto, è un problema concreto: è un problema che si pone per un dato popolo, in un determinato momento della sua vita, della sua storia. Entrano in giuoco il genio della stirpe, le tradizioni nazionali, le secolari esperienze, le attuali aspirazioni. È merito di Vincenzo Cuoco aver rilevato la storicità di questo problema. Lo Stato democratico non è un istituto verso il quale i cittadini debbono trovarsi in un rapporto di diffidenza e per il quale tutta la scienza costituzionale debba consistere a congegnare garanzie verso lo Stato, onde la sua invadenza non abbia a sopprimere i diritti della personalità. Lo Stato, in regime democratico, è la nazione che governa se stessa. Non ha più ragione di essere il concetto negativo dello Stato, cioè dello Stato gendarme, dello Stato la di cui funzione si limiti a tutelare l’ordine pubblico.
Lo Stato è inoltre il promotore del bene e del benessere sociale; e non solo del materiale benessere, ma anche, anzi, soprattutto, del bene morale.
Lo Stato educa, anzitutto, con i suoi reggitori, se danno testimonianza di rettitudine e di carattere; educa con le sue leggi, poiché c’è una vera funzione pedagogica della legislazione; ma educa soprattutto con la scuola. Quindi, scuola di Stato: questa è la parola della democrazia. Non come una delle tante scuole che debba gareggiare con le altre; ma come una scuola che sulle altre abbia la debita preminenza. Allo Stato le supreme direttive dell’educazione nazionale. Se abdicasse a questa sua funzione, lo Stato non sarebbe più lo Stato; né noi più potremmo coerentemente parlare di democrazia. il problema dell’autonomia universitaria. Nessuno più di noi è fautore di questa autonomia, che è garanzia di libertà per l’alto insegnamento; ma deve essere un’autonomia ben altrimenti disciplinata, se non si vuole, in nome della libertà delle singole Facoltà, sanzionare degli arbitrî, specie nel campo dei concorsi universitari che molte volte risentono di indebite pressioni e inframmettenze. E non parliamo di certe cattedre conferite ad uomini di cosiddetta chiarissima fama, per le quali, non rare volte, salvando tutte le forme, si giunge a sanzionare il privilegio e l’arbitrio.
Non manca poi la notevole conclusione in perfetto stile sovranista:
Noi abbiamo bisogno di una scuola nella quale la gioventù sia educata a dare il predominio alla ragione sulle passioni; a disciplinare la volontà verso il bene orientandola e non rendendola mancipia dei ciechi impulsi; ad apprezzare il possesso dei valori morali fondamentali, quali la sincerità, la semplicità, la dignità, il carattere; ad armonizzare il sentimento forte della personalità col sentimento della solidarietà sociale; ad avere il culto della patria, senza deformarlo e profanarlo attraverso un esasperante nazionalismo, che adombri la visione di una umanità più umanamente organizzata nell’armonia tra gli Stati e nella fratellanza dei popoli.
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