Un Occidente al tramonto che grida a gran voce “siamo tutti migranti”
di AZIONE CULTURALE (Sarah Mosole)
Ogni tanto si sente la necessità, quasi terapeutica si potrebbe dire, di verbalizzare quelle innumerevoli argomentazioni che, sollecitate quotidianamente dall’ascolto di quelle due o tre affermazioni che ci risuonano spiacevolmente nelle orecchie, teniamo generalmente per noi, colti dall’inspiegabile sospetto che l’interlocutore non prometta dibattiti travolgenti.
Ed eccolo lo sprovveduto di turno che, ad ogni notizia relativa lo sbarco di migliaia di potenziali bocche da sfamare a carico della sua bella schiena da mulo, non perde occasione per ricordarci e ricordarsi che “siamo tutti migranti” e l’intero discorso si arresta nel ripetere, in maniera più o meno consapevole, questa nenia che i media tutti in coro ed all’unisono, non intendono fargli dimenticare nemmeno per un secondo: “siamo tutti migranti”.
L’incedere incalzante dell’argomentazione si sviluppa attorno all’assioma per cui, come primo comandamento si ha che “siamo una nazione di emigranti”, mentre quale secondo che”la nostra storia è quella dell’immigrazione”, per terminare con un paternalistico quanto surreale “si integrano”.
Il primo comandamento, dicevamo, quello che permette a troppe cooperative di lucrare, onde mettere a tacere qualsiasi obiezione all’indiscriminata ed incontrollata politica dell’accoglienza, ostende quindi un lapidario e definitivo “siamo tutti migranti”, che fa tanto democrazia. E con ciò si dice, al fondo, una verità che non consente replica, banale tanto quanto lo è dire che abbiamo tutti due gambe e due braccia. E si può anche andar oltre e reclamare una casa nel nostro Paese perché il tuo sangue è rosso come il mio: marketing dell’accoglienza di sicuro effetto.
Ma affermare che siamo tutti migranti, o tutti esseri umani, od affermare che abbiamo tutti due braccia e due gambe per deambulare, e che la storia, inclusa la nostra, ha visto migrare e fondersi diversi popoli ed etnie nel corso dei secoli non implica minimamente negare il nostro diritto di esercitare la sovranità sul nostro territorio in quanto cittadini: se così non fosse, i nostri democraticamente eletti “rappresentanti”, non si comprende quali interessi “rappresenterebbero”, dal momento che essi, per mandato costituzionale debbono perseguire gli interessi dei cittadini che li eleggono e non di altri, o peggio “di tutti”, con la surreale giustificazione che… siamo tutti migranti!
Una coerente applicazione politica del concetto conduce infatti all’annichilimento irreversibile di qualsivoglia istituzione democratica, nel momento in cui si spezza il contratto di mandato che obbliga e rende responsabile il rappresentante politico nei confronti del cittadino rappresentato. E’ l’abdicazione dello stato in favore di logiche di potere totalmente scisse dalla rappresentanza democratica e modellate da pressioni economiche sulle quali i cittadini non hanno possibilità alcuna di influire.
E’ l’anticamera logica per l’anti-politica vera, quella espressa ai massimi livelli. Questi proclami tanto a la page, quali “la terra è di tutti” fanno in sostanza il gioco dei grandi potentati economico-finanziari, ed oltre a non aver costrutto alcuno, consentono appunto che essa sia governata da entità che non rappresentano in alcun modo coloro che ne abitano il territorio. Una mirabile eterogenesi dei fini per cui un ideale democratico viene utilizzato per distruggere le basi della democrazia, che risiedono nella rappresentatività territoriale di coloro che esercitano il potere.
Da un altro punto di vista, va altresì osservato che il fatto d’esser tutti esseri umani, pur deambulanti, non ha mai ostacolato nel corso della storia, la nascita ed il prosperare di diversi popoli e diverse culture, con una loro identità ben precisa. Nessuno qui vuole porsi in difesa della purezza della razza. Il riconoscere di essere il frutto dell’incrocio di molte culture e popoli non conduce affatto a negare la nostra identità, lentamente formatasi, e che si riconosce, seppur idealmente, in una cultura, in una poetica, in uno stile, in una rappresentazione, nel bene e nel male, di noi stessi come italiani.
Ebbene, questa percezione è esattamente quella che il mito mainstream vorrebbe negare e la nega attraverso una lettura strumentale dei fatti, disonesta in quanto mette sullo stesso piano fenomeni completamente diversi, per natura, dimensioni e tempi, dimostrando più che capacità di analisi soltanto la chiara volontà di manipolare i fatti solleticando il senso di colpa. La parte che più atterrisce è il richiamo alla “Storia” , come se vi fosse chi non la conosce.
Eccola la storia: gli emigrati italiani, nelle miniere del Belgio, così come nei ponteggi sospesi tra le avenues newyorkesi, entravano nel Paese d’accoglienza come manodopera di cui quest’ultimo abbisognava e, fintanto che ne aveva necessità, erano sottoposti a rigidi controlli di identificazione, respinti quando inadatti al lavoro ed ampiamente sfruttati qualora giudicati adatti.
Le loro facce, d’altro canto, sono immortalate proprio nei famosi libri di storia ai quali ci si appella con la consueta saccenteria, come se vi fosse qualcuno che non li avesse presente. Certo, costa non poco il raffronto tra quelle facce e le foto dei tuguri in cui i nostri connazionali si ritrovavano a vivere con quella del finto rifugiato sistemato in albergo con il wifi,sigarette e pasti a carico dei cittadini.
Comprendiamo tuttavia che sia davvero un bel business per coloro che si occupano di accoglienza con un giro d’affari che, secondo notizie di prima mano,“rende più della droga” e comprendiamo bene come sia necessario lavorare a fondo sul concetto per farci inghiottire questa pillola. Ed ecco infatti che di fronte alla storia della nostra emigrazione, il sedicente progressista di turno è programmato onde ricordati, puntuale come un orologio, che “noi italiani abbiamo esportato la mafia”. E’ tutto.
Troverai sempre l’annoiato privilegiato in cerca di emozioni forti che non vede l’ora di soffrire un po’, di stare dalla parte degli ultimi, di dare un senso ai suoi studi e che è pronto a cogliere la palla, ogni palla, al balzo. Il resto della storia non esiste più, non è funzionale, la sofferenza e le schiene spezzate di migliaia di uomini non contano più.
Ah ma gli italiani hanno esportato la mafia! Paradossale poi che a fare di tutta l’erba un fascio siano proprio quelli che cianciano da mattina a sera su quanto occorra distinguere la rava dalla fava e l’islam moderato e quello non moderato e che esortano, da mane a sera, a non fare, per l’appunto, di tutta l’erba un fascio. Fermo restando, ovvio, che gli emigrati italiani erano tutti mafiosi. Occorre dire che si arriva anche spiacevolmente ad abituarsi a quest’odio, che sgorga ormai con triste prevedibilità ad ogni occasione buona, a questo sentimento profondo di astio di italiani nei confronti di italiani, con la consueta pochezza delle argomentazioni che lo sostengono.
Ecco che non si vede l’ora di denunciare il cattivo caporalone che sfrutta gli immigrati facendo loro raccogliere i pomodori nei campi, senza rendersi conto che l’azienda agricola italiana che vende al mercato i suoi pomodori accanto a quelli tunisini non ha alternative se vuole sopravvivere, se non quella di tagliare drasticamente sui costi, sfruttando la manodopera quanto più possibile. Ma le margheritine di campo cadono letteralmente dalle nuvole quando si parla di politica doganale e tutela del prodotto locale. Ci mancherebbe che non ci mettiamo a discriminare.
E quindi riassumendo, dal momento che “anche noi siamo stati migranti”, non contenti di essere stati presi a calci nel fondo-schiena per mezzo mondo, adesso dovremmo regalare al primo bipede in movimento che avvistiamo, questo minuscolo lembo di terra, che sarebbe casa nostra, in modo da poter essere presi a calci nel podice anche nel nostro Paese, così, per non sbagliare. Ma il tutto è perfettamente normale e va accettato perché “anche noi siamo stati migranti”. Ma, poi, non generalizziamo, no.
Ponderiamo le parole, che le parole contano! Ed allora non chiamiamoli più nemmeno “migranti” che già era licenza poetica, chiamiamoli tutti “rifugiati” così che il senso di colpa possa infine essere espiato nel dar ricovero ai rifugiati. E poco importa se il numero di richiedenti asilo aventi diritto allo status di rifugiato sia esiguo, nell’ordine delle venti/trentamila domande annue accolte. Non importa. Diventa opportuno e giusto chiamare la maggioranza con il nome della minoranza di modo che l’italiano medio si trovi al cospetto del Diritto Internazionale dei rifugiati, in persona.
La disonestà dell’operazione è ormai vergognosa ed il lavaggio del cervello è continuo attraverso l’accostamento di fenomeni del tutto disomogenei. Si considerino a tal riguardo le sole direttrici delle ondate migratorie del secolo scorso che portavano verso gli Stati Uniti, verso paesi come l’Argentina, od il Canada, scarsamente popolati e che perciò auspicavano l’arrivo di nuova forza produttiva.
Basti ricordare che agli inizi del processo di indipendenza gli argentini erano meno di un milione. Il Paese era drammaticamente vuoto e questo fu il motivo per cui, facendo proprie le tesi di Juan Bautista Alberdi, secondo il quale “gobernar es poblar”, si firmò, il 4 settembre del 1812, il primo decreto per il fomento dell’ immigrazione. Questa data è a tutt’oggi, senza che in molti ne sappiano la reale ragione, celebrata come “Dia del immigrante”.
Nessuna analogia, com’è fin troppo evidente, è rinvenibile in ciò che accade oggi: i Paesi d’accoglienza hanno infatti un alto tasso di disoccupazione e non c’è alcuna necessità di forza lavoro straniera. I Paesi ospitanti sono inoltre densamente popolati, non lande desolate e metropoli da costruire, bensì centri urbani già provati dalla sovrappopolazione, cronicamente insufficienti alle stesse esigenze abitative dei cittadini, ammassati nei palazzoni di periferia. Eh! Ma anche noi siamo stati migranti.
C’è poi il tema della guerra che certamente è l’unico degli argomenti ad avere un senso e che tuttavia si risolve concedendo lo status di rifugiato a chi ne ha diritto, una piccola, minima percentuale dei flussi migratori, come dicevamo. Ma anche in questo caso i dati reali, nella fattispecie i dati ministeriali, non contano perché, lo sappiamo tutti, scappano tutti da guerre e persecuzioni: “guerre & persecuzioni” anche quando arrivano con la gabbietta del gatto.
Coerenza imporrebbe, peraltro, a chi ha tanto a cuore i rifugiati, di non sostenere apertamente soggetti politici che sono parte attiva nel provocare le guerre dalle quali fuggono. Ma è chiedere troppo, e quel che conta davvero nel delirio ideologico di cui è preda la sinistra è che la “guerrafondaia” questa volta sia finalmente una donna. E son soddisfazioni.
C’è poi la pretesa dell’integrazione tanto ingenua da un lato, quanto paternalistica e razzista dall’altro. Ingenua perché quando si parla di valori dell’Occidente e lotta per la loro sopravvivenza, si tralascia la semplice e banale constatazione per cui le idee non vivono sugli alberi: i tanto decantati valori occidentali vivranno fintanto che ci saranno le teste che li pensano e queste teste saranno sempre di meno dal momento che non vi è nessuna politica sulla natalità a loro favore, ma, al contrario, una continua vessazione, fiscale e burocratica. Basta guardarsi attorno per capire, età media e prole, che il futuro sarà tra gente che non ci assomiglia per niente.
La forza lavoro importata per sostituire i figli che con tanta cattiveria non si fanno più, della cultura occidentale giustamente non se ne curerà. Ed ecco che i valori dell’Occidente, se tali possono, ciononostante, essere considerati gli attuali, spariranno insieme all’ultimo che li avrà conosciuti come parte della sua storia.
Eh ma si integrano. Con il corso per tortellini express della cooperativa risolviamo il problema culturale, che a questo si riduce. Questo perché li rispettiamo a tal punto che vogliamo che diventino come noi. Ma ciò non accadrà, perché la forza di persuasione di un popolo che ha rinunciato al suo futuro è nulla. E dobbiamo dire per fortuna, perché non saper distinguere la terra dei padri, che patria vuol dire appunto terra dei padri, dalla terra di tutti o di nessuno, è proprio di culture all’ultimo stadio. La storia ci spazzerà via, ma sereni, perché anche noi siamo stati migranti e questo basta.
Analisi dell’immigrazionismo ottima: un fenomeno “culturalmente ridicolo” e che sarebbe insensato se non fosse il frutto della propaganda decennale del grande capitale.
L’idea che l’immigrazionismo sia maggioritario, perché diffuso dal mainstream è però falsa. Il complesso di menzogne moralistiche e buoniste è sempre più concepito come insensato, anche da chi un tempo aveva abboccato.
Infine, il riferimento ai “valori dell’occidente” poteva essere evitato: non esistono e non sono mai esistiti: l’occidente, politicamente, sono gli Stati Uniti, culturalmente, non è niente.
I valori e la storia che dobbiamo difendere e coltivare sono i valori e la storia dell’Italia, che sono scritti nella nostra Costituzione, nella quale è condensato il meglio della nostra storia: dalle Autonomie locali care a Cattaneo all’Esercito di Popolo di Garibaldi, dalla Laicità di Cavour alla Repubblica di Mazzini; alla Democrazia popolare, fondata dai partiti del CLN, quindi dalla Resistenza, al Dirigismo economico prima fascista e poi della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano e del Partito Socialista Italiano; dalla scuola e dalla università di Gentile e di Concetto Marchesi, alla piena occupazione e alla riserva di Repubblica relativa alla disciplina al controllo e all’esercizio del credito che unirono i partiti dell’Assemblea Costituente; infine, al sacro dovere di difendere la Patria, definito “sacro” su proposta del comunista Umberto Terracini.