Lo spettro del Jobs Act e la sinistra
di Alessandro Gilioli
Uno spettro si aggira per la politica italiana: è quello del Jobs Act.
È un bene, anzi è benissimo che – in questo momento di giochetti di potere, caccia alle poltrone, tattiche di corrente etc – irrompa una questione profondamente politica, nel senso più vero di questa parola.
Cioè una legge che ha impattato sulla vita di milioni di persone, non solo per gli effetti diretti (licenziabilità, demansionamento, telecontrollo, voucher etc) ma anche per quelli indiretti, cioè per il mutamento di rapporti di forza e di clima ovunque, dal manifatturiero al terziario, dalla logistica al digitale.
E quando parlo di mutamento di clima penso – ad esempio – al mio conoscente a cui hanno proposto un contratto di collaborazione capestro e che, al primo tentativo di negoziazione, si è sentito rispondere: “Senti caro, o così o niente, se non ti va ne prendo tre a voucher, al posto tuo, e risparmio pure”.
Per capirci.
Ma penso anche al boom di presunti “licenziamenti disciplinari” (più 28 per cento, e – cito l’avvocato De Stefani – «nel mondo del lavoro è mutato il clima psicologico-culturale, nelle situazioni nelle quali prima si soprassedeva o si cercava una mediazione, adesso il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce»).
E penso infine all’«aumento di patologie psicofisiche derivanti da disagio sul lavoro dopo l’approvazione delle diverse leggi che restringono i diritti dei dipendenti» (Antonio Vento, psichiatra, docente alla Sapienza e presidente dell’ Osservatorio mobbing-bossing di Roma).
Ma non è qui nemmeno il caso di infierire sul disastro sociale provocato dal Jobs Act: il fallimento di questa legge è ormai acclarato da decine di ricerche tanto nei suoi effetti sull’occupazione – una volta depurati dagli incentivi per le assunzioni, doping provvisorio di cui stiamo pagando il down – quanto nelle sue conseguenze sulla coesione sociale, sulla fiducia e sui consumi, quindi sull’economia tutta.
Quanto ai vocuher, si sa che esistevano già prima: ma il Jobs Act li ha estesi a dismisura, deformandone l’utilizzo: da strumenti per far emergere il lavoro occasionale in nero a forma di salario sostitutiva di quella contrattualizzata. Insomma precarizzazione.
Ora, dicevo, finalmente lo spettro del Jobs Act si aggira per la politica.
Merito della Cgil, che ha raccolto milioni di firme per abrogare alcune delle sue parti peggiori, e quindi del referendum che si dovrebbe tenere nella primavera del 2017 e che Poletti vuole evitare a ogni costo.
Uno sforzo che tuttavia – e per fortuna – rischia di risultare inutile: anche studiando la data delle elezioni anticipate in modo da evitare il referendum sul Jobs Act, quest’ultimo “colorerà” e innerverà proprio la campagna per le politiche. Le quali dunque potrebbero costituire anche una specie di referendum implicito su ciò che viene rimandato. Del resto non mi sento di escludere che pure il 4 dicembre scorso molti – specialmente giovani – abbiano votato No pensando più alle disastrose politiche sul lavoro del governo Renzi che non alla riforma costituzionale.
La questione quindi agita lo stesso Pd.
Qualcuno – la famosa minoranza – adesso vorrebbe mettere mano alla legge, smussarne le asperità quanto basta a lanciare un segnale – «abbiamo fatto autocritica» – e magari a evitare una nuova catastrofe, vuoi al referendum vuoi alle politiche. Oggi però un cronista politico ben informato (Amedeo La Mattina, La Stampa) sostiene che Renzi su questo «ha messo il veto», il Jobs Act è intoccabile, non se ne parla, «sarebbe una sconfessione di un architrave del renzismo». Conoscendo Renzi, è probabile che sia così.
Ripeto: è molto bene che una questione così autenticamente politica abbia fatto irruzione nel dibattito, altrimenti obnubilato dai ricatti di Boschi, dalla laurea di Fedeli, dall’inglese tragicomico di Alfano.
Ed è molto bene perché fa anche pulizia di tanto dibattito che invece è politicista (non politico, in senso autentico) e che ha conquistato paginate di giornali pur essendo lontanissimo dal Paese reale: dico, il dibattito sulla “sinistra del no-no-no“, il progetto di Giuliano Pisapia, le diatribe precongressuali della fu Sel, e pure l’intervista al Corriere con cui oggi Laura Bordini auspica che «la sinistra torni unita».
Ecco: il Jobs Act è una questione autenticamente politica – perché incide sul Paese, sulla società. E, dritta per dritta, è una questione dirimente.
È lì, semplice, chiara, lineare. Lontana dalle alchimie politiciste, dalle addizioni di partiti da proporre o contrastare, da presunti recuperi di un’antica unità “provvisoriamente” perduta per via della Riforma Boschi.
È lì, è un macigno. Ed è contenuto, contenuto politico puro: mentre i partiti e le alleanze sono solo contenitori.
Ed è contenuto come lo sono altre cosucce che – spero – prima o dopo irromperanno nel dibattito allo stesso modo: il reddito minimo, la patrimoniale “alla Barca”, la no tax area per le piccolissime partite Iva, il precariato, la casa, l’istruzione fino all’università compresa (una delle issue centrali di Sanders) e tanti altri temi ancora.
La sinistra è questa roba qui, se volete farla.
Il resto – tipo il dibattito sulle alleanze, il modello Milano, il sì-sì-sì o il no-no-no, eccetera eccetera – è solo chiacchiera politicista e autoreferenziale.
Buona al massimo per un aperitivo alla Galleria Alberto Sordi, tra onorevoli e lobbisti.
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