Che tipo di partito servirà nella Terza Repubblica?
di ALDO GIANNULI
Quando “cessarono gli spari”, nell’aprile del 1945, erano già fatti i giochi per la conformazione dei nuovi soggetti che avrebbero occupato la scena politica.
L’ipotesi vagheggiata dagli esponenti del mondo pre fascista (come Bonomi, Sforza, Nitti, Orlando o Croce) di un ritorno al sistema notabilare dell’Italia liberale, era già fuori dalla storia e risultò immediatamente impraticabile: quel sistema era già andato in crisi nel 1919, poi il fascismo aveva organizzato le masse socializzandole alla politica, pure se in quadro autoritario, ed era impossibile tornare indietro.
La democrazia liberale aveva piegato le ginocchia davanti all’assalto fascista, per la sua debole legittimazione popolare, la nuova democrazia avrebbe dovuto darsi fondamenta ben più solide. Dunque, occorreva portare il popolo nella vita dello Stato e questo richiedeva partiti di massa, di insediamento sociale con vaste e ramificate organizzazioni collaterali (sindacati, organizzazioni femminili, culturali, giovanili, cooperative eccetera). E i quadri dei nuovi partiti erano già stati formati dalla Resistenza: circa la metà dei membri dell’Assemblea Costituente erano ex partigiani, così come lo erano la netta maggioranza dei quadri di partito comunisti, socialisti, azionisti ed anche buona fetta di quelli democristiani. E bisogna dire che il modello per un quarto di secolo funzionò abbastanza, educando alla politica il popolo italiano: sostanzialmente era quello che ci voleva.
La cosa andò in crisi negli anni settanta, quando l’incomprensione dei movimenti del sessantotto confluì con i processi di burocratizzazione dei partiti. Negli anni ottanta i partiti divennero sempre meno capaci di svolgere la loro funzione di trasmettere la domanda politica. Poi la deriva della corruzione fece il resto ed arrivò il crollo.
Il rifiuto di quei processi di burocratizzazione e delle pratiche corruttive, il fastidio per le incomprensibili liturgie della politique politicienne, ma soprattutto la resa ormai scarsissima del sistema politico, sempre meno capace di produrre decisioni utili a fronteggiare i problemi che sorgevano, spinsero alla liquidazione dei partiti e al deperimento del loro associazionismo collaterale: la gamba malata non fu curata ma amputata.
Prese piede la leggenda del “partito leggero”, della politica non intermediata dagli apparati, incarnata dal leader che parla al “popolo” attraverso la Tv. Per un po’ di tempo quella retorica ha funzionato e gli italiani sono stati convinti di stare marciando a vele spiegate verso la modernità globalizzante, con una politica che non disturbava il mercato (e per questo si sciolsero le partecipazioni statali).
Ma, a differenza della vicenda della Prima repubblica, che ebbe un primo tempo felice, durante il quale si fece la ricostruzione, si rimise in piedi l’industria, si realizzò una pur imperfetta modernizzazione e si educarono le masse alla politica, questa Seconda Repubblica non conobbe quel tempo, perché fu un frutto bacato dalla nascita: la corruzione riprese assai presto, gli apparati si dissolsero, ma solo per lasciare il posto a partiti padronali come Forza Italia, o a ristrette cerchie oligarchiche che nominavano deputati (e questo già con il Mattarellum), soprattutto il ceto politico mostrò una capacità sempre più ridotta di capire i processi in atto e sviluppare strategie adeguate.
Su tutto prevalse l’esigenza di “forare il video”, dilagò la cultura dello slogan, un crescente semplicismo che rimuoveva la complessità della politica. Fu il trionfo del “facilismo” nessun partito ebbe più riviste, istituti di ricerca, case editrici, centri studi o convegni di studio. Quanto alle fondazioni: sono fiorite ma, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno avuto solo la funzione di centro di pubbliche relazioni e di raccolta fondi.
Idee zero, analisi zero, proposte zero non era quello che ci voleva, anche se la cosa ha funzionato sin quando il quadro internazionale è stato favorevole e l’euro ha vissuto la sua breve estate felice.
Quando è arrivata la crisi (dal 2008 in poi) il gioco è crollato e la delusione è andata via via facendosi strada, esplodendo nel 2013. Il sistema, ne è stato destabilizzato e, dopo la brevissima parentesi renziana, ha portato al crollo della seconda Repubblica per il congiungersi (non del tutto) casuale fra l’esito del referendum e la sentenza della Corte sull’Italicum (che peraltro era già in liquidazione per volontà dei suoi stessi ideatori).
La seconda repubblica nacque da un referendum e muore per un referendum. Non si tratta solo della sconfitta del giullare fiorentino, ma del crollo di un sistema che si sta scomponendo, a cominciare dalla scissione del principale partito di esso, mentre altre scissioni si preannunciano.
Esattamente come il quadriennio fra 1992 e 1996, assisteremo ad un susseguirsi di turbolenze di partiti che nascono, muoiono, si dividono, si unificano. E dunque vale la pena di discutere di quale partito serva in questa nuova stagione politica.
Certamente un partito con buoni anticorpi alla corruzione: certamente, ma non basta. Abbiamo bisogno di un partito che faccia rinascere il senso del conflitto sociale, che educhi le nuove generazioni al senso dell’azione collettiva, a pensare in termini di “noi” e non solo di “io” e questo non si fa stando incollati alla tastiera del computer, anche se il web è una risorsa notevolissima che va valorizzata, ma non resa totalizzante.
Poi abbiamo bisogno di un partito democratico che formi, selezioni e controlli la sua classe dirigente, perché di una classe dirigente non si può fare a meno, ma non è di una ristretta oligarchia da salotto che abbiamo bisogno. Anzi, abbiamo bisogno di un partito che faccia funzionare la classe dirigente in simbiosi con la partecipazione politica popolare, che promuova il più possibile elementi di democrazia diretta, che renda responsabile quel potere che oggi è del tutto irresponsabile.
E, per questo, abbiamo bisogno di un “partito pedagogico” che educhi la gente alla politica, la informi e la metta in condizione di capire le alternative che si pongono.
Decidere se fare una centrale nucleare o un altro sistema di produzione dell’energia è una decisione con un alto contenuto scientifico, noi abbiamo bisogno di un partito che renda comprensibili queste scelte alle persone.
Ma soprattutto, abbiamo bisogno di un partito che pensi, produca idee, progetti, trovi soluzioni. Ed il cuore pulsante di questo partito non può che essere il suo centro progettuale, che, però, da solo non basta. Perché possa funzionare bene, occorre che fra esso e la gente ci sia una robusta fascia di quadri politici in grado di trasmettere al centro la domanda politica che viene dal sociale e di ritrasmettere ad esso le proposte elaborate al centro, riverificarle, raccogliere le obiezioni eccetera.
Dunque, qualcosa che oggi non c’è, ma che occorre avere il coraggio di “inventare”. Ma di questo riparleremo, ricordando che il partito (contrariamente a quanto si pensava nei partiti comunisti, sbagliando) non è un fine, ma un mezzo e deve rispondere alle esigenze del suo tempo.
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/partito-della-terza-repubblica/
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