La scienza economica dominante come religione pubblica
di MICROMEGA (Nicolò Bellanca)
Plasmando i nostri modelli mentali e le nostre azioni, l’odierna teoria economica dominante si rivela in grado di convertirci, operando come una religione pubblica. Senza tenere in adeguato conto questa sua capacità si capisce poco dell’affermazione planetaria del neoliberismo. Una riflessione a partire dagli ultimi libri di Mauro Gallegati.
In quest’articolo non esaminerò tutte le argomentazioni degli ultimi due libri di Mauro Gallegati. Mi concentrerò su una sua tesi particolarmente incisiva e provocatoria: «nonostante esteriormente assomigli alla fisica, e nonostante il presunto equipaggiamento di molte leggi, l’economia non è una scienza»,[1] e anzi «assomiglia a una religione».[2]
L’odierna teoria economica mainstream è caratterizzata, in linea generale, dalle seguenti assunzioni di base: agente rappresentativo (i consumatori o le imprese sono tutti identici, e quindi basta studiare l’agente-tipo), perfetta razionalità degli agenti (chiamata talvolta “olimpica”, poiché esprime requisiti che soltanto un dio potrebbe possedere), aspettative razionali (gli agenti usano le informazioni in modo efficiente, formulando quindi le previsioni più corrette) e scelte fondate sulla massimizzazione di una funzione obiettivo (l’agente individua e seleziona l’alternativa migliore tra quelle disponibili).[3]
La macroeconomia è quella parte della disciplina che (tra l’altro) dovrebbe spiegare le crisi, e quindi oggi la Grande recessione. I macroeconomisti mainstream sostengono che la loro teoria dev’essere una versione aggregata della teoria dell’equilibrio generale, stabilendo uno sconcertante apriori metodologico per il quale l’equilibrio è il canone per studiare tutto quello che nega l’equilibrio: sentieri dinamici, processi innovativi, instabilità e crisi.
Non basta: la rilevanza esplicativa dei modelli di equilibrio generale è intaccata dall’assurdità delle ipotesi richieste per definire l’equilibrio (mercati futuri completi o previsione perfetta), aggravate dalle assunzioni necessarie per attribuire alla nozione di equilibrio il ruolo di situazione cui l’economia tende (aggiustamenti all’equilibrio effettuati dal banditore walrasiano e dunque di fatto istantanei).[4]
Non basta ancora: la validità formale di quei modelli è minata dal teorema di Sonnenschein-Mantel-Debreu, che, rendendo estremamente problematica così l’unicità come la stabilità dell’equilibrio, mostra l’impossibilità di derivare univocamente il comportamento macroeconomico da quello degli individui.[5]
Sulla scorta di quanto precede, la scienza economica, e in particolare la sua parte che dovrebbe spiegare i sistemi economici concreti e orientare la policy (ovvero, la macroeconomia), non essendo in grado di dimostrare adeguatamente i requisiti dell’equilibrio, può soltanto assumere che l’equilibrio vi sia: essa si afferma e riproduce come ideologia legittimante, ossia come una forma di religione mondana.[6]
Approfondiamo l’accostamento dell’economics dominante alla religione. Osserva Gallegati: «che lo spazio sia omogeneo o frattale, che l’universo acceleri o meno, la cosa non influenza direttamente l’esistenza umana. Le nostre esistenze dipendono, invece, dalle prescrizioni di politica economica derivate da un modello mentale. Un cosmologo scarso rovinerà al massimo il buon nome della propria famiglia, ma un pessimo economista che viene però ascoltato può rovinare Paesi interi con i suoi consigli farlocchi».[7] Insomma, «se uno crede nel Grande Cocomero saranno pure affari suoi. Basta che non pretenda di governare la nostra vita, magari flessibilizzandoci».[8]
La scienza economica mainstream – da qui proseguo a modo mio, lungo la linea critica di Gallegati – non è un’ideologia funzionalmente simile alle religioni private (“credo nel Grande Cocomero, e ne rispondo solo a me stesso”),[9] operando piuttosto come una religione pubblica, e quindi politica. Per “religione pubblica” intendo un insieme di credenze e di pratiche rituali che, permeando di significato alcune delle maggiori esperienze di vita, è in grado di convertire i propri seguaci, trasformandone i valori e le preferenze, e dunque la loro stessa identità.[10] Mentre alcune religioni pubbliche esprimono il rapporto dell’uomo con il divino, altre sono mondane e coincidono con il sottoinsieme delle ideologie – tra le quali spiccano il nazionalismo, il socialismo, il populismo, il fascismo e il comunismo – che hanno (o hanno avuto) la capacità di convertire miliardi di persone, costituendo una delle maggiori forze storiche dell’età moderna e contemporanea.
La scienza economica dominante è interpretabile mediante la nozione di religione pubblica? A mio parere, la risposta è affermativa in forza di due principali argomenti, riguardanti l’uno il modo di funzionare di questa disciplina, e l’altro l’impatto della disciplina sulla realtà sociale. Sul primo versante, Ugo Pagano osserva che «la scienza economica [dominante] è definita più nei termini della sua metodologia, che nei termini del suo oggetto di studio o campo d’indagine. In questo senso si può sostenere che qualunque fenomeno venga spiegato in termini di scelta razionale, è spiegato, per definizione, in termini economici. […] Gli scienziati che cercano differenti tipi di spiegazioni per lo stesso fenomeno non contano nel novero degli economisti, e la scienza economica diventa una sorta di “Chiesa Metodista”. La concorrenza con metodologie alternative è preclusa dal fatto che i seguaci di queste sono posti necessariamente al di fuori dalla Chiesa».[11] In altre parole, l’assolutizzazione di un canone metodologico svolge, nell’economics dominante, la stessa funzione che, nelle religioni trascendenti, è assolta dall’attribuzione di sacralità a determinati atti di culto e di devozione.
Sul versante dell’impatto della disciplina sulla realtà sociale, argomenti importanti sono avanzati da un recente filone di sociologia economica. Secondo Michel Callon, Donald MacKenzie e colleghi, la teoria economica (economics) dominante ha un’influenza performativa sulla vita economica (economy): i mercati esistenti funzionano così-e-così anche perché gli economisti hanno predicato che essi fossero creati e fatti girare in quella maniera.[12]
L’homo oeconomicus è una credenza falsa, come ormai è stato sostenuto da una sterminata mole di ricerche, teoriche ed empiriche;[13] ma voi ed io tendiamo a comportarci come homines oeconomici perché gli economisti, e i politici da loro consigliati, plasmano le istituzioni economiche in modi che favoriscono quei comportamenti: acquisiamo una forma mentis e selezioniamo le motivazioni, anche tramite la specifica concezione dell’economia che viene propugnata e propagandata dagli economisti.
Un primo esempio: diverse ricerche mostrano che gli studenti universitari di economia sono influenzati dalle dottrine che imparano, poiché accentuano, rispetto ai loro coetanei, comportamenti centrati sul self-interest; in una di tali ricerche Ariel Rubinstein, uno dei più reputati economisti accademici al mondo, conclude: «dobbiamo riconsiderare l’impiego didattico degli esercizi matematici; esso porta gli studenti a concentrarsi su processi di massimizzazione, piuttosto che su problemi economici reali. Nel migliore dei casi, questi esercizi matematici semplicemente rendono l’apprendimento dell’economia meno interessante; nel caso peggiore, contribuiscono alla formazione di un homo oeconomicus piuttosto sgradevole».[14]
Un secondo esempio: nel funzionamento dei mercati finanziari, ogni nuovo prodotto dev’essere accettato dagli operatori. I famigerati “derivati” (contratti che gestiscono le variazioni nei prezzi di un’attività sottostante, mediante il trasferimento a terzi del rischio) coprivano negli scorsi decenni una ridotta quota di mercato ed erano assimilati al gioco d’azzardo; la loro legittimazione, e quindi il loro diffondersi, avviene grazie alla campagna promossa dal Chicago Board of Trade, che si appoggia sulla teoria di Black, Scholes & Merton. Quella teoria, che sarà in seguito catastroficamente smentita dagli eventi, plasma i mercati, nel senso che gli operatori costruiscono i nuovi prodotti finanziari orientati da essa; e la corrispondenza tra teoria e realtà, inizialmente scarsa, va aumentando man mano che la teoria viene adottata.[15]
Siamo all’ultimo passaggio. L’economics dominante si comporta come una credenza (infondata, ma non è questo il punto principale) che conferisce significato alle nostre maggiori esperienze di vita economica. Questa credenza si trasmette professionalmente mediante un canone metodologico che seleziona e fidelizza i chierici,[16] mentre, sul piano della formazione culturale e dei comportamenti economici effettivi, si trasmette mediante pratiche rituali che vanno dall’eserciziario per gli studenti, alle indicazioni della camera di commercio di Chicago agli operatori di mercato, fino alle politiche di “austerità espansiva” applicate dai governi negli ultimi anni.[17]
Plasmando i nostri modelli mentali e le nostre azioni, l’economics dominante si rivela in grado di convertirci, operando come una religione pubblica. La sua manifestazione politicamente più efficace e pervasiva è stata, dalla fine degli anni 1970, il neoliberismo, quale distillato della scienza economica mainstream in termini di misure di regolazione dell’economia.[18] A mio avviso, si capisce poco dell’affermazione planetaria del neoliberismo, senza tenere in adeguato conto la sua capacità di convertire le persone: come hanno documentato, tra gli altri, Naomi Klein e Pino Arlacchi, la diffusione del verbo neoliberista è spesso iniziata in modi non indolori, presso popolazioni che in maggioranza lo rifiutavano;[19] ma la forza di quel verbo è stata nel suo essere un messaggio religioso, veicolato e supportato da una disciplina scientifica.
NOTE
[1] Mauro Gallegati, Acrescita. Per una nuova economia, Einaudi, Torino, 2016, p.52.
[2] Mauro Gallegati, Oltre la siepe. L’economia che verrà, Chiarelettere, Milano, 2014, p.128.
[3] Giorgio Ricchiuti & Sebastiano Nerozzi, “I paradossi della crisi finanziaria e l’instabilità del capitalismo. Oltre il mainstream neoclassico”, Jura Gentium journal, 2/2011, p.42, all’indirizzo http://www.juragentium.org/Centro_Jura_Gentium/la_Rivista_files/JG_2011_2.pdf .
[4] Vedi Fabio Petri, General Equilibrium, capital, and macroeconomics: a key to recent controversies in equilibrium theory, Edward Elgar, Aldershot, 2004.
[5] Vedi Alan Kirman, “The intrinsic limit of modern economic theory. The empereor has no clothes”, Economic journal, 99, pp.126-139.
[6] Nel 2001, ben prima dell’inizio della Grande recessione, Robert Nelson scriveva: «Una base religiosa del senso civico e della solidarietà sociale è necessaria, qualunque essa sia. Il funzionamento efficace di un sistema di mercato richiede un fondamento religioso per promuovere la fiducia, inibire l’opportunismo, facilitare i contratti impliciti e minimizzare i costi di transazione nella società. […] La religione più vitale del tempo moderno è il progresso economico. Gli economisti hanno avuto un impatto modesto nel generare questo progresso, e nel comprendere i meccanismi con cui si è verificato, ma hanno ricoperto un ruolo importante nel dare ad esso legittimità sociale. Essi sono stati i moderni sacerdoti della religione del progresso, interpretando le sue forme, affinando i suoi messaggi e assicurando i fedeli che il progresso continuerà». Robert H. Nelson, Economics as religion. From Samuelson to Chicago and beyond, Pennsylvania State University Press, University Park (PA), 2001, p.301.
[7] Gallegati, Acrescita, op.cit., p.55. Peraltro, nei libri di Gallegati vi è una pars costruens, secondo la quale la scienza economica potrebbe riorientare le proprie indagini, a favore sia del rigore che del realismo, adottando un diverso approccio metodologico, basato su modelli ad agenti (Agent Based Models). In questi modelli, nel microfondare l’analisi macroeconomica, si pone al centro l’eterogeneità degli agenti economici (diversi per dotazioni, funzioni obiettivo e attitudini psicologiche), l’ipotesi di razionalità limitata, l’analisi dinamica e la pluralità delle situazioni di equilibrio (sia stabili che instabili). In base a questo approccio è possibile mostrare, ad esempio, come in un’economia composta da un reticolo di relazioni di debito-credito fra imprese e banche, limitati squilibri locali possano innescare grandi effetti aggregati: situazioni di sofferenza di pochi agenti si trasmettono lungo canali commerciali e finanziari, generando feedback che rafforzano e amplificano lo squilibrio iniziale, con forti oscillazioni del tasso d’interesse, dell’offerta di credito, della produzione e dell’occupazione. In breve, questi modelli sono in grado di rappresentare (senza essere, in quanto tali, spiegazioni teoriche) fenomeni come la Grande recessione in maniere meno inadeguate rispetto alla scienza mainstream. Un’ottima pagina introduttiva a quest’impostazione, a cura di Leigh Tesfatsion, è http://www2.econ.iastate.edu/tesfatsi/ace.htm
[8] Gallegati, Acrescita, op.cit., p.39.
[9] Sulle religioni private, vedi Grace Davie, “Believing without belonging”, Social compass, 37(4), 1990, pp.455-469.
[10] La posizione espressa nel testo è vicina a quella di Robert N. Bellah, Beyond belief: essays on religion in a post-traditional world, University of California Press, Berkeley, 1970, pp.12, 42, 183 e 227-228; in particolare, si legga questo passaggio, a p.246: «La religione è stato il modo tradizionale con cui gli uomini hanno interpretato il loro posto nel mondo. Sempre più spesso l’uomo moderno si è rivolto alle scienze sociali per questa interpretazione. Ogni volta che una scienza sociale tenta di rappresentare la totalità dell’uomo, recepisce gran parte delle preoccupazioni della religione tradizionale». Ovviamente, il dibattito è accesissimo: per una rassegna, vedi Inger Furseth & Pål Repstad, Introduction to the sociology of religion, Ashgate, Aldershot, 2006, specialmente i capitoli 2 e 5.
[11] Ugo Pagano, “L’economia delle istituzioni e le istituzioni della scienza economica”, Economia politica, 20, 1, 2003, pp.3-20.
[12] Vedi Donald MacKenzie, Fabian Muniesa & Lucia Siu, Do economists make markets? On the performativity of economics, Princeton University Press, Princeton (NJ), 2007; Fabian Muniesa, The provoked economy. Economic reality and the performative turn, Routledge, London, 2014.
[13] Vedi Samuel Bowles & Herbert Gintis, A cooperative species: human reciprocity and its evolution, Princeton University Press, Princeton (NJ), 2011.
[14] Ariel Rubinstein, “A sceptic’s comment on the study of economics”, Economic journal, 116, 2006, p.C9.
[15] Donald MacKenzie, An engine, not a camera. How financial models shape markets, The MIT Press, Cambridge (Mass.), 2006; Id., Material markets. How economic agents are constructed, Oxford University Press, Oxford, 2009.
[16] «Pur con un contenuto scientifico limitato nella sua applicazione pratica, la scienza economica esige dai suoi adepti anni di studio per accedere pienamente alla professione. […] Nel sottoporsi ad un così grande investimento di tempo e denaro per la propria formazione, l’economista in erba invia un “segnale” credibile di fedeltà alle norme della professione». Nelson, Economics as religion, op.cit., pp.329 e 331-332.
[17] Vedi Paul Krugman, “How the case for austerity has crumbled”, New York review of books, 6 giugno 2013, all’indirizzo http://www.nybooks.com/articles/2013/06/06/how-case-austerity-has-crumbled/?pagination=false
[18] Vedi David Harvey, Breve storia del neoliberismo (2005), Il Saggiatore, Milano, 2007.
[19] Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (2007), Rizzoli, Milano, 2008; Pino Arlacchi, L’inganno e la paura. Il mito del caos globale, Il Saggiatore, Milano, 2009.
fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-scienza-economica-dominante-come-religione-pubblica/
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