Democrazia e momento populista: dall’America Latina all’Europa
di CARLO FORMENTI
Relazione di Carlo Formenti alla Scuola Estiva “Crisi della democrazia? Lessico politico per il XXI secolo” dell’Università di Trieste
In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e populisti. Riletta oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra.
Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di Renzi nel referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima della resa ai diktat della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si costituisse un poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno dei governi guidati dalle forze politiche tradizionali (conservatori, liberali e socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la minaccia di forze genericamente definite populiste – senza distinguere fra le radicali differenze reciproche – in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e antiglobaliste, contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e dunque nemiche del sistema democratico, identificato tout court con il mercato.
La sostanziale adesione delle sinistre europee – non di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista delle élite politiche ed economiche liberiste e dei media mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo affrontare: l’appello ha funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il senso del termine populismo.
La narrazione mainstream presenta il populismo come una visione del mondo unitaria, che si contrappone a quella liberista allo stesso modo in cui vi si contrapponeva il comunismo. Questa tesi è insostenibile ove si consideri il fatto che non esiste un corpus di testi fondativi che definiscano principi, valori e obiettivi di questa presunta “ideologia”. Se passiamo poi alla descrizione “scientifica” del fenomeno, vediamo come essa si basi su un elenco di caratteristiche – iperpersonalizzazione della figura del leader, legame diretto fra leader e masse, nazionalismo, linguaggio semplificato, statalismo, interclassismo, polarizzazione fra popolo ed élite, polemica anticasta (contro politici di professione, accademici, finanzieri ecc.), atteggiamento anti istituzionale – compilato negli anni Sessanta del secolo scorso sulla base dell’osservazione dei regimi latinoamericani della metà del Novecento.
Si tratta di un elenco di scarso valore euristico ove si consideri che alcune di tali caratteristiche sono tipiche di tutti i movimenti allo stato nascente mentre svaniscono quando essi raggiungono la maturità, e che esse possono essere ricombinate in modi diversi dando origine a regimi altrettanto diversi. Se poi ci si riferisce allo stile populista [1] come tecnica di comunicazione politica, è evidente che si tratta di una modalità adottata da tutti i partiti in quest’epoca caratterizzata dalla mediatizzazione, spettacolarizzazione e personalizzazione della politica. E dunque? La mia risposta è che, per comprendere il fenomeno populista, occorre comprenderne la natura di rivolta (spesso prepolitica) delle masse popolari nei confronti della “guerra di classe dall’alto” [2] iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso. Dietro al termine populismo si cela un insieme articolato e complesso di fenomeni che potremmo definire la forma che la lotta di classe assume nell’era neoliberista.
Il momento populista è infatti la reazione sociale a due processi: da un lato, gli effetti combinati della finanziarizzazione dell’economia e di una rivoluzione tecnologica che hanno aggredito la società moderna, facendola esplodere in un pulviscolo di soggetti individualizzati, dall’altro una rivoluzione culturale che ha tentato di legittimare le nuove forme di sfruttamento capitalistico e la trasformazione dei sistemi liberal democratici in altrettanti regimi oligarchici.
Questi processi hanno provocato un tragico peggioramento delle condizioni di vita delle classi subordinate: disoccupazione, salari da fame, precarizzazione del lavoro, smantellamento dei sistemi di welfare attraverso tagli alla spesa pubblica e privatizzazione dei servizi, aumento esponenziale della disuguaglianza fra una minoranza di super ricchi e una massa crescente di classi medie proletarizzate. La reazione era inevitabile e infatti, nell’arco di un ventennio, abbiamo assistito al ciclo delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, alle primavere arabe, al 15M spagnolo e a Occupy Wall Street negli Stati Uniti, oltre alla nascita di movimenti antiglobalisti di diverso orientamento ideologico, ma accomunati dalla rivendicazione della riconquista di una qualche forma di sovranità popolare e nazionale.
Partiamo dall’Europa. L’ordoliberalismo tedesco, sui cui principi si fonda l’intero edificio comunitario, come hanno spiegato Dardot e Laval, [3] non muove affatto dall’idea che il mercato sia un dato naturale e spontaneo ma, al contrario, lo considera come una costruzione della quale è lo Stato a doversi fare carico, garantendo il rispetto del principio di concorrenza. Lo Stato, evitando di interferire direttamente nel processo economico – e anzi attuando un programma radicale di privatizzazione dei servizi pubblici e applicando i principi dell’imprenditoria privata alla gestione dell’amministrazione pubblica -, deve perseguire la stabilità dei prezzi ed eliminare ogni ostacolo al dispiegamento della libera concorrenza.
Il rispetto di questi principi viene imposto ai Paesi membri attraverso un rigido sistema di regole che ha svuotato le legislazioni nazionali, regole che, funzionano di fatto come una Costituzione europea attraverso una serie di trattati vincolanti (vedi la riforma dell’articolo 81 della Costituzione italiana che impone il pareggio di bilancio, arrivando a vietare ogni politica industriale che comporti investimenti pubblici e imponendo addirittura allo Stato di alienare le sue residue proprietà).
L’Unione Europea non è, come si ostinano ad argomentare gli europeisti “progressisti”, un processo incompiuto che attende quel perfezionamento politico che dovrebbe consentirne la democratizzazione, si tratta di una super struttura parastatale che, da un lato, tiene insieme residui della forma stato classica nei singoli Paesi, dall’altro istituisce un nuovo ordine integrato al mercato, una struttura di governance multilivello.
Di più: la Ue si presenta come un mega esperimento morale e antropologico, una vera e propria utopia che si propone di creare “l’uomo nuovo” dell’ordine liberista. Di qui una pedagogia sociale e politica che aspira a formare cittadini che si considerino imprenditori di sé stessi e uniformino la propria vita alle stesse regole e principi che presiedono alla gestione di un’impresa. L’utopia europeista messa in atto dall’Europa reale non è quella di Altiero Spinelli bensì quella di von Hayek, il quale, fra le due guerre mondiali, aveva sognato la costruzione di un’entità sovranazionale e sovrastale che, oltre a rendere possibili un sistema monetario uniforme e regole giuridiche comuni, salvaguardasse tali regole dalle indebite pressioni delle organizzazioni dei lavoratori e dei cittadini titolari della sovranità democratica su basi nazionali.
Quale livello di violenza questa utopia ordoliberale sia disposta a esercitare nei confronti di ogni forza che si oppone al suo progetto è emerso chiaramente attraverso la ferocia con cui si è stroncata la resistenza del popolo greco che aveva votato contro gli accordi capestro voluti dalla Troika per “sanare” l’economia e il debito ellenici. Quell’esempio ha dimostrato una volta per tutte come la democrazia sia del tutto incompatibile con il neoliberismo.
Gli effetti combinati di finanziarizzazione ed egemonia ordoliberista sul sistema politico configurano infatti un processo di de democratizzazione che mira a svuotare la democrazia della sostanza senza sopprimerne la forma [4]. La filosofia che ispira tale processo richiama il pensiero di Friedrich von Hayek e degli “elitisti” del primo Novecento come Mosca, Pareto e Michels. Per tutti costoro l’obiettivo strategico consiste nel rafforzare il potere dell’esecutivo, onde metterlo al riparo dagli umori ondivaghi dei cittadini-elettori che provocano l’instabilità, se non la rovina, dei regimi democratici: ecco perché non considerano la democrazia come un fine in sé, bensì come uno strumento per selezionare le classi dirigenti.
Le istituzioni politiche forgiate su questi principi non configurano nemmeno più quello che Lenin definiva il “comitato d’affari della borghesia”, bensì un sistema di potere che realizza un’integrazione totale fra élite economiche ed élite politiche. Basti pensare a fenomeni come quello che negli Stati Uniti è stato battezzato il “sistema delle porte girevoli”, vale a dire la pratica per cui i manager di grandi imprese private, banche e società finanziarie rivestono importanti incarichi pubblici o vengono addirittura nominati ministri, o agli effetti di quel processo di “finanziarizzazione che fa sì che una buona metà dei membri americani della Camera dei Rappresentanti appartenga all’élite dei super ricchi.
Concentrando l’attenzione sulla “complicità” fra élite economiche e politiche, si corre però il rischio di analizzare il fenomeno da un punto di vista morale, come se si trattasse della “corruzione” della politica da parte della finanza. Occorre invece partire dall’analisi dell’utopia ordoliberista che abbiamo evocato poco sopra: la convergenza fra élite non è solo questione di interessi, né la transizione al regime postdemocratico è questione di “tradimento” delle regole, siamo di fronte a un lucido disegno politico che impone agli stati di uniformarsi alle regole del diritto privato, fondando la propria legislazione sui principi della competizione economica.
In questo modo la democrazia liberale viene svuotata di ogni sostanza e i dirigenti degli stati, commenta Crouch, non rispondono più ai propri cittadini, ma “sono sottoposti al controllo della comunità finanziaria internazionale, di organismi specializzati, di agenzie di rating”[5]. E ancora: “gli stati sono considerati unità produttive come le altre in una vasta rete di poteri politico economici sottoposti a norme simili” [6].
Inevitabile conseguenza di questa filosofia è la privatizzazione dei servizi sociali: in ossequio al principio in base al quale la dimensione dell’efficienza e del rendimento finanziario deve essere assunta come pietra di paragone di ogni attività sociale, lo stato dismette le proprie attività per riconsegnarle al mercato. La privatizzazione dei servizi è una delle tappe fondamentali del processo di costruzione dell’uomo nuovo liberista, infatti il cittadino, osserva Crouch, una volta divenuto “cliente” del servizio privatizzato, “non può più sollevare questioni relative all’erogazione del servizio con il governo, perché la prestazione è stata appaltata all’esterno, il servizio è divenuto postdemocratico.
In direzione analoga avanza il processo di trasformazione dei partiti. Mentre il partito tradizionale si presentava come una successione di cerchi concentrici (dall’esterno: elettori, simpatizzanti, militanti, funzionari, dirigenti e leader), il partito postmoderno appare piuttosto come un’ellisse in cui simpatizzati e militanti perdono peso sin quasi a sparire, i funzionari diminuiscono numericamente e svolgono funzioni quasi esclusivamente tecniche, mentre il leader occupa uno dei fuochi dell’ellisse attorno al quale ruota tutto il resto e instaura una relazione diretta con le masse elettorali che passa quasi solo attraverso i canali mediatici.
In particolare Crouch ha richiamando l’attenzione sulla rapidità con cui i partiti socialdemocratici hanno mutato pelle per adeguarsi alla nuova situazione: in una prima fase, si sono visti penalizzare dall’indebolimento della loro tradizionale base elettorale, costituita da operai e impiegati dei servizi pubblici, poi, imboccata la strada della “terza via” tracciata da Tony Blair e Bill Clinton, hanno cominciato a raccogliere sostegno trasversale da tutte le categorie sociali e, a mano a mano che sposavano i principi del neoliberismo, a ottenere l’appoggio finanziario delle grandi imprese, alle quali hanno tentato di dimostrare che “la socialdemocrazia non solo può prosperare in un ambiente capitalistico liberale, ma in tale ambiente produce anche un grado di liberalismo più elevato rispetto al liberalismo tradizionale lasciato a sé stesso” [7].
Si tratta di capire perché la maggioranza delle sinistre europee rifiutino di prendere atto di quanto detto finora e considerino tutte le posizioni populiste – anche se di sinistra – che assumono un punto di vista sovranista come antidemocratiche. A tale scopo proverò a ricostruire a grandi linee il secolare dibattito sulla questione nazionale che ha attraversato l’intera storia del marxismo. La celebre battuta del Manifesto in cui Marx dice che <<gli operai non hanno patria>> ha un significato ambivalente in quanto associa al rifiuto del patriottismo borghese il concetto di privazionedi una patria che i proletari devono conquistarsi, elevandosi a classe nazionale. È tuttavia innegabile che il punto di vista giovanile di Marx resti ancorato a una visione economicista che attribuisce alla borghesia la missione “civilizzatrice” di spezzare tutte le barriere che si oppongono allo sviluppo delle forze produttive, ivi comprese le barriere dei confini nazionali.
Questa impostazione verrà superata quando Marx si troverà a fare i conti con gli effetti dello dell’oppressione coloniale del popolo irlandese da parte dell’imperialismo britannico. La sua posizione slitterà allora dall’idea che solo la rivoluzione del proletariato inglese avrebbe potuto restituire la libertà agli irlandesi, al punto di vista opposto: soltanto una vittoriosa lotta di liberazione del popolo irlandese – liquidando le condizioni di relativo privilegio dei proletari inglesi – avrebbe creato le condizioni di una rivoluzione proletaria in Inghilterra. Dalla convinzione che la rivoluzione è frutto di condizioni oggettive che esistono solo nel punto più alto di sviluppo delle forze produttive, si passa dunque al riconoscimento che il capitalismo va aggredito laddove si accumulano le contraddizioni politiche più radicali.
Lenin – in polemica con le posizioni di Rosa Luxemburg e Leone Trotsky, vicine a quelle del Marx del Manifesto – andrà oltre, aggiornando le idee del Marx maturo attraverso l’analisi della fase imperialista: la creazione di grandi imperi coloniali da parte delle maggiori potenze crea condizioni completamente nuove, che esaltano il ruolo delle lotte di liberazione nazionale nel quadro della lotta mondiale contro il capitalismo. Riscontriamo un’analoga evoluzione del pensiero gramsciano: vicino alle posizioni del giovane Marx finché il sistema capitalistico sembrò evolvere verso l’unificazione del mondo, Gramsci cambiò punto di vista a mano a mano che lo stato nazionale borghese tornava a dominare la scena politica (dopo la fine della prima globalizzazione e il fallimento delle rivoluzioni socialiste in centro Europa). Nella “guerra di posizione” che oppone borghesia e proletariato in queste nuove condizioni, Gramsci, pur senza rinnegare la prospettiva internazionalista, si concentra sulla necessità di costruire un blocco sociale che non può che prendere le mosse dal contesto nazionale (in quella che è stata definita la svolta nazional-popolare di Gramsci).
Gli echi di questo dibattito si sono spenti fino a sparire a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Si potrebbe giustificare questa svolta con il fatto che nei decenni successivi al secondo dopoguerra era giunto a compimento il processo di liberazione della stragrande maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo dal giogo dell’oppressione coloniale. Ma si tratta di un errore di prospettiva: è infatti proprio a partire da quegli anni, come ha spiegato Samir Amin[8], che le borghesie nazionali di quei Paesi, dopo essere state protagoniste – spintevi a calci dalle rivolte dei loro popoli – delle lotte di liberazione nazionale, tornano a svolgere il ruolo di agenti mediatori degli interessi del capitale transnazionale, in un contesto che non contempla più l’occupazione militare diretta dei rispettivi territori bensì la loro integrazione nel processo di globalizzazione rilanciato dall’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia statunitense.
Ed è proprio questo ritorno della tendenza all’unificazione mondiale dei mercati ad abbagliare le sinistre occidentali ricacciandole verso una visione economicista. Nasce così un “pensiero unico” delle sinistre occidentali sul tema del rapporto fra lotta anticapitalista e questione nazionale che ripudia, le tesi di Frantz Fanon, l’ultimo grande esponente del punto di vista che fu già del Marx maturo, di Lenin e Gramsci. Laddove Fanon aveva contestato la relazione automatica fra progresso e Occidente, accusando cosmopolitismo e l’universalismo borghesi (travestiti da internazionalismo) di essere armi volte a distruggere la resistenza dei popoli coloniali, la maggioranza degli intellettuali di sinistra occidentali assumono il punto di vista di un internazionalismo dottrinale e astratto, assieme alla tesi secondo cui il superamento del capitalismo può avvenire solo laddove le forze produttive raggiungono il più alto livello di sviluppo (un punto di vista che, fra l’altro, ignora il fatto che a tutt’oggi le sole rivoluzioni socialiste sono state effettuate dalle classi operaie in formazione di Paesi periferici alleate con le larghe masse contadine).
Se si eccettuano le riflessioni di quegli autori che – come Arrighi, Wallerstein e Samir Amin- hanno assunto come centrale la contraddizione centro-periferia nella loro analisi del sistema mondo, tutti gli altri esponenti dell’intellighenzia marxista hanno finito per giudicare qualsiasi tipo di rivendicazione della sovranità nazionale come negativa, se non reazionaria. Contro questa visione intendo proporre un punto di vista che non solo rivendica la validità delle rivendicazioni sovraniste dei paesi periferici, ma afferma che la lotta per la sovranità nazionale può assumere un carattere progressivo anche per i popoli europei, (soprattutto per i popoli mediterranei). Prima devo però chiarire cosa intendo esattamente per sovranità nazionale, e perché ritengo possibile distinguere fra i differenti significati che il concetto assume all’interno del campo populista.
Se la questione nazionale è tornata al centro dell’attenzione da parte di movimenti di dichiarato orientamento socialista – dai regimi bolivariani in America Latina, a partiti europei come Podemos e la formazione francese guidata da Jean-Luc Mélenchon, alla rete di forze che negli Stati Uniti ha sostenuto la candidatura presidenziale di Bernie Sanders – non è solo perché il pendolo della storia sembra avere iniziato a oscillare in direzione opposta al processo di globalizzazione: il punto è che l’attacco del capitalismo globale non si rivolge tanto contro lo Stato, che come abbiamo visto subisce anzi un processo di rafforzamento, bensì contro la Nazione della quale si teme la natura di ambito territoriale in cui possono essere fatte più facilmente valere le ragioni e i rapporti di forza delle classi subalterne.
Da un lato, un capitalismo sempre più concentrato e aggressivo necessita dei servigi di una statualità sovranazionale, dall’altro lato, si moltiplicano le forze che vedono nella riconquista di forme di autorità territoriale l’unico strumento per imbrigliare quei flussi incontrollati di capitale e di merci che minacciano le condizioni di vita delle popolazioni.
L’autore che più di ogni altro ha sostenuto come qualsiasi passo verso il socialismo sia impossibile senza uno “sganciamento” dal sistema capitalistico globale è, di nuovo, l’economista egiziano Samir Amin[9]. L’idea che l’integrazione delle economie locali nel sistema mondiale sia di per sé un fattore positivo di sviluppo, sostiene Amin, rimuove una realtà evidente: mentre nei centri il processo di accumulazione è guidato dalla dinamica dei rapporti interni, nelle periferie esso è in larga misura sovradeterminato dall’evoluzione dei centri, non è cioè dotato di alcuna reale autonomia.
I mutamenti indotti dal capitalismo globale dei monopoli, argomenta Amin, hanno annientato il potere delle vecchie classi dirigenti periferiche, alle quali sono subentrati nuovi strati dominanti di “affaristi” che svolgono il ruolo di intermediari locali degli interessi delle élite economiche e politiche globali.
Questa descrizione non vale però solo per le periferie dei Paesi ex coloniali, ma anche per quei Paesi dell’Europa del Sud che subiscono oggi l’egemonia dell’imperialismo tedesco attraverso il processo di integrazione europea: anche loro vivono la condizione di un’economia costretta dalla divisione ineguale del lavoro a produrre merci di rango inferiore il cui lavoro è meno remunerato (basti pensare allo smantellamento della grande industria italiana progressivamente sostituita da distretti di piccole medie imprese che lavorano per le grandi imprese tedesche, o al più generale processo di terziarizzazione del nostro Paese che, al pari della Spagna, si vede sempre più costretto a contare sul turismo come principale fonte di risorse).
Se tutto ciò è vero è evidente che la lotta anticapitalista non può oggi passare che dalle periferie e dal loro sganciamento dai centri, che implica una riconquista della sovranità popolare e nazionale.
L’abbondanza di riferimenti alla sovranità sia alla destra che alla sinistra del campo populista solleva tuttavia un problema semantico: è evidente che questo termine rappresenta un campo di battaglia discorsivo su cui si decide chi avrà l’egemonia. Né mancano gli strumenti concettuali per operare una distinzione: l’idea di nazione cambia senso e natura a seconda che sia o meno identificata con quella di etnia, il patriottismo democratico, repubblicano e antifascista rivendicato da forze come Podemos, il partito di Mélenchon e la rete di Sanders non ha nulla a che spartire con quello di formazioni dichiaratamente xenofobe e razziste.
A destra l’idea di sovranità evoca la chiusura di frontiere ai migranti, per cui l’opposizione ai flussi di persone è obiettivo prioritario assai più della regolazione dei flussi di merci e capitali, a sinistra si rivendica in primo luogo il diritto delle comunità politiche locali di gestire la propria vita in modo autonomo dalle interferenze esterne, così come si rivendica la reintegrazione dei cittadini nello Stato da cui sono stati di fatto espulsi (uno Stato che incorpori nuove istituzioni di democrazia diretta e rappresentativa contro lo Stato transnazionale costruito dalle élite globali). Quanto appena detto non è tuttavia sufficiente. Per approfondire il punto occorre fare un passo indietro: tornando all’analisi critica della categoria di populismo.
Parto dall’analisi del fenomeno populista effettuata dal filosofo argentino Ernesto Laclau[10]. Finché il sistema liberal democratico funziona, argomenta Laclau, i bisogni dei diversi gruppi sociali vengono soddisfatti in modo differenziale, per cui mancano i presupposti perché si instauri una frontiera alto/basso, élite/popolo. Viceversa, quando il sistema diviene incapace di assorbire in modo differenziale i bisogni, le domande inascoltate si accumulano e fra di esse può stabilirsi una relazione di equivalenza, quella che Laclau chiama una “catena equivalenziale”, ed è a questo punto che si innesca la crisi populista, mentre nuove forze politiche possono emergere per lanciare un “appello populista”.
Perché tale appello trovi rispondenza, occorre che le domande vengano unificate attraverso un denominatore comune capace di incarnare la totalità della serie, occorre cioè che una domanda particolare acquisisca centralità. Laclau chiama egemonia – con esplicito riferimento al concetto gramsciano – questa assunzione di un significato universale da parte della particolarità. Ad attribuire tale ruolo egemonico a una determinata domanda sono fattori contingenti, circostanziali. Laclau non crede cioè che esista una necessità storica che attribuisca apriori il ruolo egemonico a una specifica classe sociale, anche se ammette che il potenziale antagonistico debba inevitabilmente risiedere nelle soggettività “esterne” al sistema, nella massa degli emarginati, dei derelitti e degli “eterogenei” generata dalla miriade di conflitti e contraddizioni economiche, politiche e sociali prodotte dal capitalismo finanziarizzato e globalizzato.
Questa pluralità antagonista non è tuttavia in grado di dare autonomamente e spontaneamente vita a un soggetto unitario se non viene unificata attraverso una qualche forma di sovradeterminazione politica: la crisi populista non ha cioè sbocchi in assenza di un soggetto politico in grado di gestirla. Se un tale soggetto emerge, si innesca un potenziale di rottura sistemica, nella misura in cui il populismo marca una frattura fra tradizione liberale e tradizione democratica. La tradizione liberale si basa sul governo della legge, sulla protezione dei diritti umani e sul rispetto delle libertà individuali; la tradizione democratica viceversa chiama in causa le idee di uguaglianza, identità fra governanti e governati e sovranità popolare.
Il fatto che oggi la democrazia venga concepita esclusivamente in termini di stato di diritto e difesa dei diritti umani, mentre le idee di uguaglianza e sovranità popolare sono state accantonate, conferma che il rapporto fra tradizione liberale e tradizione democratica non è necessario ma è il prodotto di un’articolazione storica contingente. Il populismo, con la sua rivendicazione di sovranità popolare, incarna dunque l’irruzione dell’elemento democratico in un sistema rappresentativo che appare ormai ripiegato esclusivamente sulla tradizione liberale, ed è appunto per questo che può segnare un passaggio di discontinuità sistemica.
Il popolo di Laclau non è un’entità trans storica fondata su basi etniche e/o antropologiche che preesiste alla politica e che, come nell’ideologia delle destre, la politica ha solo il compito di incarnare/rappresentare, il popolo è un costrutto politico, è il prodotto dell’operazione egemonica di un progetto politico capace di saldare soggetti diversi in un blocco sociale unitario (qui Laclau è esplicitamente debitore delle categorie gramsciane di blocco sociale, egemonia e guerra di posizione). Ma se il popolo è una costruzione politica ciò vale necessariamente anche per la Nazione, che non può esistere se non in riferimento al popolo e, a maggior ragione, vale per i concetti di sovranità popolare e nazionale.
Questa torsione “gramsciana” delle tesi di Laclau ha trovato applicazioni sia nel progetto politico del Mas (il partito di Morales e Linera) e dello Stato boliviano, sia nell’evoluzione di Podemos da movimento anticasta a partito titolare di un radicale progetto di trasformazione socialista della società spagnola. Sono due esperienze che ci interessano qui particolarmente, in quanto entrambe si trovano a dover fare i conti con la presenza, nei rispettivi Paesi, di identità etnico linguistiche che rivendicano la propria autonomia politica dallo Stato nazionale centralizzato, una situazione che ha consentito loro di interpretare il tema della sovranità nazionale da un punto di vista che ne accentua ulteriormente le distanze dalle ideologie nazionaliste di destra.
La Costituzione boliviana riconosce esplicitamente il carattere multinazionale del Paese, andando assai oltre un generico multiculturalismo e la concessione di limitate autonomie alle comunità indie; dal canto suo Podemos ha stretto relazioni sia con i movimenti municipalisti sia con le formazioni politiche di sinistra radicale impegnate nella lotta per l’indipendenza politica dei popoli basco e catalano. Tutto ciò significa che sovranità popolare e nazionale possono e devono funzionare a diverse scale, prevedendo la costruzione di nuove entità territoriali dai confini che risultino, ad un tempo, permeabili alle persone e chiusi ai flussi di merci e denaro ove ritenuti in conflitto con gli interessi delle comunità locali. Costruire popolo, costruire nazione, costruire comunità, per il socialismo e contro l’egemonia del capitalismo globale.
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