di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
(Non ho trovato immagini più coerenti con il titolo: accetto suggerimenti, peraltro…).
1. Cerchiamo di definire se e come esistano condizioni di ripristino della democrazia sostanziale, cioè quella “necessaria” accolta dalla nostra Costituzione, perchè, in sua assenza, la democrazia semplicemente “non è”, come di dice
Mortati, qui, p.4.1.;
e non paia che tale interpretazione dell’essenza della nostra Costituzione sia una suggestione storicamente datata,
subìta dal massimo costituzionalista italiano (Basso ci testimonia tutt’altro, sulla dialettica del processo costituente,
qui, p.4.2.), dato che, simmetricamente, sono gli stessi massimi pensatori “liberali”, Pareto, Mosca, Einaudi, a teorizzare che, la democrazia, appunto “liberale”, debba necessariamente ridurre la rappresentanza popolare a “finzione” (
qui, p.3).
2. Nel tentare di porre ordine su questo argomento, comincerei, – in una rapida rassegna compiuta col necessario punto di vista divulgativo-, dal
pensiero di Rosa Luxemburg,
traendo da un buon lavoro politico-filosofico (e quindi avulso dal pur fondamentale pensiero economico
anticipatore della Luxemburg stessa, per la verità
riattualizzatosi per l’imponenza delle forme attuali di imperialismo economico – o globalismo istituzionalizzato, e comunque evolutosi nell’analisi keynesiana di Kalecky). Si veda come, ad esempio, la formula, sopra citata, del
democristiano Mortati, sia allineata sull’origine concettuale, e persino lessicale, fornita a suo tempo dalla Luxemburg:
“Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la democrazia.
Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa superflua o addirittura di impaccio; al contrario per la classe operaia essa resta sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché sviluppa forme politiche che serviranno al proletariato come punti di partenza e di appoggio per la trasformazione della società»; imprescindibile: «perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti il proletariato può diventare cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici».
Ma la democrazia non può mai essere rappresentata, fermata, afferrata, come in una fotografia. Infatti, scrive L., «il faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche possiede un potente correttivo appunto nel vivente movimento delle masse, nella loro pressione ininterrotta».
La democrazia, come la rivoluzione, non può essere messa in stand-by, perché è l’azione del proletariato, ma non può neanche essere instaurata una volta per tutte. E qui sta il paradosso.
La demolizione, aggiunge Luxemburg, la si può decretare, la costruzione la si può solo fare: «Terra vergine. Mille problemi». La democrazia si può solo esperire, imparare continuamente; essa è educazione politica, processo.
La democrazia è rapporto sociale, è la forma di un problema, che è in fondo il problema del potere, problema che deve sempre essere tenuto vivo: essa è la sorgente vitale del conflitto, la lotta politica, la pressione ininterrotta e perciò incontenibile da qualsiasi forma istituzionale.
Si tratta come per lo sciopero di massa di «un reale movimento popolare». Eppure resta aperto il problema della sua afferrabilità concreta. Essa compare come un lampo al centro del momento rivoluzionario e continua a dipendere sempre da quel momento.”
3. Un piccolo addendum: se la Luxemburg, in un prudente approccio scientifico, non può essere compresa senza comprenderne l’analisi macroeconomica (evolutiva) del capitalismo, ne risulta perciò la sostanzialità del suo approccio
economico-istituzionalista ante litteram e, dunque, l’estrema rilevanza della sua connessione con la successiva soluzione kaleckian-keynesiana (“…l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana
…impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia).
“Gramsci, dal canto suo, pur stando in carcere, vedeva la solidità del regime fascista, malgrado la situazione economica divenuta pesante in conseguenza della grande crisi del ’29. Una crisi che, originata dagli Stati Uniti, stava infettando anche l’Europa, ma in termini meno distruttivi.
A parte la Germania dove, anche in conseguenza delle onerose riparazioni di guerra imposte a Versailles dai vincitori della Grande guerra, disoccupazione e povertà dilaganti, unite alla radicalizzazione violenta e all’instabilità politica, stavano gonfiando le vele a Hitler.
Il dirigente comunista era dell’opinione che ci sarebbe voluta un’azione in profondità per sgretolare le basi sociali e di consenso del regime mussoliniano che erano ancora larghe.
Ed espose, in modo oggettivo e con tono distaccato, queste sue analisi e posizioni demolitorie di quelle del Komintern, almeno per quel che riguardava la situazione italiana, ai compagni del collettivo comunista di Turi che, invece, pensavano che indicazioni e direttive dell’Internazionale fossero sacrosante.
A nutrire le loro certezze, forse, era anche l’inconscia speranza di ritrovare la libertà in breve tempo. Come riferisce il comunista Athos Lisa, nel suo rapporto al centro del partito nel 1933, redatto dopo la sua uscita dal carcere di Turi per amnistia, per Gramsci la classe operaia doveva ancora conquistare i contadini e altri strati sociali piccolo borghesi:
“La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi in quanto la tattica del partito li conduca passo a passo a constatare la giustezza del proprio programma e la falsità di quello degli altri partiti politici”.
Perciò “Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della ‘Costituente’ ” non come fine ma come mezzo senza tema di apparire poco rivoluzionari. “La Costituente – riferisce sempre Lisa le parole di Gramsci – rappresenta la forma d’organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe operaia lavoratrice…dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria”.
5. Se si avrebbe buon gioco nel dire che la “democrazia necessaria” di Mortati non coinciderebbe concettualmente con la
rivoluzione proletaria, cui pure Gramsci attribuisce la natura di “fine”, rimane il fatto, fenomenologicamente più importante, che
la stessa realizzazione della Costituente, (che ovviamente Gramsci si potè solo limitare a indicare come soluzione),
diede vita proprio a quel luxemburghiano processo di democrazia, di “pressione ininterrotta” e di sovversione della società capitalista incarnata dalla democrazia liberale, ovvero dallo “Stato borghese”; una “democrazia liberale” che le stesse Istituzioni di Mortati (
qui. pp.11-11.2), nell’analizzare le forme di Stato, indicano più volte come superata irrevocabilmente dalla nostra Costituzione.
Dunque,
l’attualizzazione storica del filo conduttore tracciato da Luxemburg e Gramsci, trova un riscontro nel “reale” (forse l’unico riscontro in Occidente)
nel nostro processo costituente, portando ad una Costituzione che, senza troppe ombre di dubbio, delineerebbe la democrazia più avanzata mai concepita sul piano normativo.
L’adesione pluriclasse a questo
“socialismo possibile” accolto in Costituzione –
di cui dà parimenti atto Mortati ed in modo inequivoco (qui, p.5) -, proprio in quanto coinvolgente le classi produttive in precedenza contrapposte, in una sintesi tra operaismo e promozione della mobilità sociale
anche piccolo-borghese, è d’altra parte ampiamente attestata dalla diretta definizione dei più eminenti esponenti della Costituente.
6.
La chiave di lettura, non a caso, è fornita dall’interpretazione autentica dell’art.3, comma 2, che, assunto come norma caratterizzante di tutta la Costituzione (su un piano anche e squisitamente macroeconomico, v. infra), rende conto del carattere socialmente rivoluzionario della nostra Carta:
oggettivamente rivoluzionario nel pragmatico adattamento al
“reale” storico-nazionale, (non dogmatico), quale assunto da Luxemburg e Gramsci:
un senso potenziato, non attenuato, dal suo valore legalitario supremo.
“Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice:
“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente…”.
“… L’art. 3, secondo comma, costituisce la norma fondamentale della Costituzione. La può sovvertire tutta; essa può rovesciare tutte le norme giuridiche.
Ha in comune con l’art. 49 la negazione del formalismo giuridico, è l’apertura di possibilità di interpretazione realistica del diritto; impone allo Stato di fare una serie di leggi per eliminare le disuguaglianze di fatto; se si facesse veramente questo, se si rendesse possibile a tutti i lavoratori l’effettiva partecipazione alla organizzazione politica ed economica, ci sarebbe una società socialista, non ci sarebbe più il capitalismo, lo stato di classe, non più una classe dominante e una dominata.
Questo è diventato norma, LO STATO HA L’OBBLIGO DI FARE TUTTE LE LEGGI CHE SPINGONO IN QUESTA DIREZIONE, E LE LEGGI CHE VANNO CONTRO DI ESSA SONO INCOSTITUZIONALI. Questo articolo in un certo senso è la smentita di tutta la Costituzione; cioè se non si realizza l’uguaglianza di fatto, tutto il resto della Costituzione è falso (v. art. 3, v. art. 1).
È UNA NORMA “EVERSIVA”, è un’affermazione all’interno della Costituzione che la Costituzione è un inganno, perché afferma di garantire dei diritti che garantiti non sono e che saranno garantiti solo quando sarà realizzato l’art. 3.
È quindi una norma fondamentale che nega il valore di tutte le altre e consente di dichiarare che il nostro paese non è democratico e che finché l’art. 3, secondo comma, non sarà realizzato, nulla è vero di ciò che è scritto nella Costituzione.
È la base di articoli successivi: diritto allo studio, al lavoro, alla sanità, a un salario equo, ecc. Il nostro paese ha bisogno di una democrazia sostanziale…” [L. BASSO, L’esigenza di una democrazia sostanziale e la nuova Costituzione repubblicana, in Dal fascismo alla democrazia attraverso la Resistenza, Padova, Collegio universitario D. Nicola Mazza, 1975, 108-112].
9. Sulle necessarie implicazioni che ciò comporta in termini di modello economico e di politiche fiscali e industriali ad esso strumentali, abbiamo l’ulteriore interpretazione “autentica” (qui, p.9) fornitaci dalla relazione della Presidenza della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro del Ministero per la Costituente, un documento ripetutamente citato nei lavori dell’Assemblea, leggiamo:
“Fu esattamente detto che ad ogni forma di economia corrisponde un regime. E tutte le Sottocommissioni sono state unanimi, perciò, nell’auspicare che la nuova Carta costituzionale contenga almeno quei primi principii che, riconosciuto il lavoro come elemento della organizzazione sociale del popolo italiano, traccino le direttive della legislazione futura in materia di lavoro, in guisa tale che la dignità della sua funzione, la sua più ampia tutela ed ogni possibilità futura di sviluppo della sua posizione nell’ordinamento sociale sianoassicurate.
Si è già rilevato che la Commissione ha considerato il lavoro come uno degli elementi ma non come il solo elemento rilevante della organizzazione economica e sociale. Da ciò bisogna dedurre il riconoscimento della proprietà privata dei mezzi di produzione, e quindi una tuttora persistente funzione del capitale privato nel processo produttivo.
La Commissione, nel suo complesso, tenuto anche conto delle risposte al questionario e degli interrogatorii, si è orientata verso un sistema eclettico che comprende così il principio della «sicurezza sociale» come quello del «pieno impiego», recentemente affermatisi in America ed in Inghilterra, con decisiva tendenza verso ogni forma di benintesa cooperazione.
La possibilità di occupazione nella attuale situazione non può essere creata che da una politica di spesa pubblica e da una politica di lavori pubblici. L’orientamento teorico della Commissione, come risulta anche dalla relazione della Sottocommissione economica, è volto verso le teorie della piena occupazione, in quanto essa risulti attuabile nel nostro sistema di produzione, teorie che stanno alla base dei piani Beveridge e consimili. La relazione rappresenta perciò una indicazione di politica economica che corrisponda alla realizzazione del principio giuridico del diritto al lavoro.”
“[Caffè] esortava i responsabili della politica economica a ricordare che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini“…mentre “oggi ci si trastulla nominalisticamente nella ricerca di un nuovo modello di sviluppo e si continua a ignorare che esso, nelle ispirazioni ideali, è racchiuso nella Costituzione; nelle sue condizioni tecniche è illustrato nell’insieme degli studi della Commissione economica per la Costituente (1978)…”.
11. Dopo questo excursus, torniamo all’interrogativo su quali siano (se pure esistano) le condizioni di ripristino di questa democrazia costituzionale.
Ebbene, la risposta non può che risultare dalla coerenza con la linea interpretativa del socialismo che passa per Luxemburg, Gramsci e il “reale-legale” della nostra Costituzione.
Richiamiamo perciò, nella loro assoluta aderenza alla preconizzata evoluzione del capitalismo che ci troviamo a fronteggiare, le soluzioni “aggiornate” da Basso e che indicano l’attualità dell’alleanza pluriclasse di tutti i ceti produttivi attaccati e travolti dall’assetto internazionalista del mercato a oligopolio concentrato.
11.1. Della “reiterata” soluzione indicata da Basso offro un primo “estratto” più volte citato (p.4): la “struttura” offre connaturalmente la risposta di una lotta di classe…interclasse (in senso economico), coinvolgente tutti gli operatori economici degli “altri settori non monopolistici”: “…oggi il settore monopolistico (usiamo questa espressione nel senso che essa ha oggi assunto nella polemica politica e non in senso rigorosamente tecnico–economico che suggerirebbepiuttosto l’espressione di ‘oligopolio concentrato’) non soltanto si appropria del plusvalore prodotto dai suoi operai, ma, grazie al suo forte potere di mercato, che gli permette d’imporre i prezzi sia dei prodotti che vende che di quelli che compra, riesce ad appropriarsi almeno di una parte del plusvalore prodotto in tutti gli altri settori non monopolistici: sia in quelloagricolo, sia in quello del piccolo produttore indipendente, sia anche in quello delle aziende capitalistiche non monopolistiche, dove il tasso di profitto è minore e spesso, di conseguenza, anche i salari degli operai sono più bassi proprio per il peso che il settore monopolistico esercita sul mercato.
Ridurre quindi, nella presente situazione, la lotta di classe al rapporto interno di fabbrica, proprio mentre la caratteristica della fase attuale del capitalismo è la creazione di questi complessi meccanismi che permettono di esercitare lo sfruttamento in una sfera molto più vasta, anche senza il vincolo formale del rapporto di lavoro, è perlomeno curioso…
Una seconda tendenza destinata ad accentuarsi sempre più in avvenire è quella relativa all’interpenetrazione di potere economico e potere politico, cioè, praticamente, all’orientamento di tutta la politica statale ai fini voluti dal potere monopolistico…”
11.2. La necessità, che
attualizza, alle condizioni di sviluppo industriale e sociale della struttura economica italiana, le indicazioni di Gramsci, si compendiano in questa più ampia
“profezia” di Basso, ormai avveratasi, che segnala la via della Costituente e, prima ancora, del ripristino del cammino attuativo incessante della nostra Costituzione e di cui riporto il passo saliente (rinviando naturalmente alla lettura integrale…per chi abbia più “motivazioni”):
“Quali siano queste trasformazioni di struttura abbiamo già più volte indicato: esse vanno dal superamento dell’economia di concorrenza alla
conseguente distruzione della produzione indipendente, cioè non legata a gruppi (
v. p.14), sia essa
piccola, media o relativamente grande, dall’abbandono di certi tipi di produzione industriale alla trasformazione delle culture agrarie in relazione alle direttive dell’imperialismo americano e alle sue esigenze di
sfruttamento di un solo grande mercato europeo, dalla cartellizzazione e cosiddetta “razionalizzazione” dell’industria, alla modificazione delle abituali correnti di traffico, dall’
abbandono di difese doganali alla rinuncia a sovranità nazionali, dalla subordinazione dei poteri pubblici alle direttive dei monopoli fino alla
creazione di un sistema di sicurezza del grande capitale capace di garantirgli la tranquillità del profitto e di socializzarne le perdite.
Tutto questo processo è
evidentemente destinato ad
accrescere la disoccupazione operaia, ad aumentare il livello di sfruttamento delle masse contadine, e, in misura forse ancora maggiore, a
sgretolare e pauperizzare i ceti medi, a soffocare ogni libertà di pensiero e ad
avvilire intellettuali e tecnici al rango di servi dell’imperialismo.
Non importa se i nostri avversari
si riempiono la bocca di formule altisonanti di democrazia: la loro politica, più ancora di quella di Hitler, è la minaccia più grave che abbia fino ad oggi pesato sulle possibilità di sviluppo democratico dell’uomo moderno.
È chiaro perciò che la politica della classe operaia deve essere
una politica capace di interessare non soltanto gli operai stessi, ma altresì tutti quei ceti – e sono l’immensa maggioranza della popolazione – che la politica dell’imperialismo distrugge od opprime sia economicamente sia spiritualmente (
sempre qui, p.4 e peraltro nel solco di una precedente visione di Gramsci e
Rosa Luxemburg) e coi quali noi dobbiamo ricercare i mezzi e le vie per creare un nuovo equilibrio di forze sociali che rovesci quello oggi in via di consolidamento.
Dev’essere chiaro per tutti che le forze, che oggi si sono insediate al governo del nostro paese,
non hanno alcuna possibilità di tornare indietro dalla strada su cui si sono avviate (qui,
pp. 7-8 e
qui) e che è la strada del domino totalitario dello stato per conto dei grossi interessi capitalistici; e che perciò
la sola possibilità offerta a chi non vuole soggiacere a questa nuova edizione del regime fascista che si profila, è di opporvisi con tutte le proprie energie, non per tornare indietro o per stare fermi, ma per
allearsi con tutte le forze decise a creare un nuovo equilibrio che segni un passo avanti sulla strada della democrazia e del progresso.”
Ciclo totalitario (3), «Quarto Stato», 1-31 lug.-15 ago. 1949, n. 13/14/15, pp. 3-6.
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