Contro l’ideologia cosmopolita ed europeista
di SINISTRA IN RETE (Bruno Steri)
La gabbia dell’euro
Nel suo ultimo lavoro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra. Imprimatur, 2018) Domenico Moro, economista marxista e militante comunista, si impegna in un’importante opera di pulizia concettuale per sgombrare il terreno da alcuni fraintendimenti e resistenze ideologiche che impediscono la risoluta adesione ad un’opzione che egli ritiene vitale per la prospettiva di vita delle classi subalterne (italiane ed europee) e per le sorti della sinistra (comunista e non): la rottura con l’Unione europea e l’uscita dall’euro. Non abbiamo a che fare in senso stretto con un libro di analisi economica, ma con un insieme di lucide argomentazioni che legano i dati dell’analisi economica alle attuali urgenze della battaglia ideologica.
Il libro prende le mosse da una lapidaria e rivelatrice dichiarazione di Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento”. Come dire che, per far passare determinati orientamenti (antipopolari), occorreva che questi fossero imposti da un’autorità esterna, in grado di porre vincoli indiscutibili bypassando gli organismi decisionali interni e democratici.
In un tale contesto, persino le espressioni di voto dei singoli Paesi – che siano elezioni politiche o referendum – sono diventate un pericolo da evitare o comunque da indebolire, così da lasciare libero gioco a quello che il governatore della Bce Mario Draghi ha chiamato non a caso il “pilota automatico” che da Bruxelles deve sovrintendere alle sorti dell’Unione.
Cosmopolitismo, ideologia dominante delle élites capitalistiche
A fronte di un tale antidemocratico e oligarchico contesto, il testo prende subito di petto l’idea, diffusa dall’informazione di regime ma anche presente sul versante delle sinistre, secondo cui rompere la gabbia dell’Ue o uscire dalla moneta unica equivarrebbe ad un antistorico ritorno all’indietro, ad una scelta nazionalistica e regressiva. Sullo sfondo di tale “rifiuto preconcetto” vi è un giudizio totalmente errato concernente la globalizzazione capitalistica: essa viene infatti presentata come un’evoluzione progressiva, che pone fine agli Stati-nazione e alle loro autarchiche chiusure e che consente al mondo del lavoro di aprirsi a una visione globale. A sinistra, alfiere di tale ottimistica valutazione è – come è noto – Antonio Negri, il quale vede contrapporsi ad un omogeneo impero una sorta di contro-impero, rappresentato dall’emergenza di “moltitudini” che si aprono al mondo e sfidano il potere costituito. Moro è giustamente tra coloro che si contrappongono ad una tale astratta concezione: la globalizzazione non è per nulla “una grande vittoria proletaria”, come ritiene Negri, ma è la “risposta del capitale per risolvere la sua crisi (l’eccesso di capacità produttiva e il calo dei profitti) mediante le delocalizzazioni e la riduzione dei salari e del welfare”. Non quindi un’opportunità, ma un peggioramento dei rapporti di forza ai danni del lavoro salariato, grazie ad esempio al ricatto esercitato sui lavoratori con la minaccia delle delocalizzazioni.
Da ciò deriva un essenziale spunto di analisi: l’ideologia dominante non è oggi il nazionalismo, ma proprio il cosmopolitismo. In effetti, la necessità di garantire ai capitali un’ampia libertà di movimento sta alla base di un’impostazione universalistica, quale naturale ideologia delle massonerie e delle élites legate ad interessi globali. L’accumulazione capitalistica non è più oggi su base nazionale, come era fino alla seconda guerra mondiale (apice dello scontro tra imperialismi nazionali). Attualmente, il principale mercato della Volkswagen non è la Germania ma la Cina; e la Fiat, divenuta Fca, ricava il 75% dei suoi profitti nell’area Nafta (Usa, Canada, Messico). Il capitalismo è globalizzato; le imprese che contano, multinazionali o sovranazionali, realizzano i loro profitti soprattutto tramite investimenti esteri (Ide): “L’obiettivo è realizzare economie di scala a livello internazionale, basate sullo spostamento di quote di produzione dai Paesi avanzati a quelli periferici a basso costo del lavoro, e su operazioni di fusione tra imprese e integrazione tra capitali del centro a livello sovrastatale”. Beninteso, l’imperialismo è ancora vivo e vegeto, anche se non è più territoriale: esso mira al comando sui movimenti di capitale e di merci e al controllo delle fonti energetiche. Le aggressioni belliche sono ancora all’ordine del giorno, ma l’ideologia che le supporta non è nazionalistica, è quella delle “guerre umanitarie” o “ per la democrazia”: è insomma “l’imperialismo dei diritti umani”, per riprendere una felice formulazione di Vladimiro Giacché. Ovviamente, precisa Moro, la constatazione che il nazionalismo non sia l’ideologia dei circoli economici egemoni, nulla toglie al fatto che una tale pulsione reazionaria sia comunque presente nelle pieghe della società. La risposta capitalistica alla crisi, oltre a ridurre salari e welfare, ha infatti comportato una riduzione della “pletora di capitale” (Marx), favorendo fallimenti e acquisizioni di industrie e banche da parte dei capitali forti: settori del commercio, microimprese, soprattutto se operanti sul mercato domestico, hanno costituito all’interno delle classi dominanti un blocco corporativo di destra (in Italia organizzato attorno a Lega e Fratelli d’Italia) per nulla sensibile alle lusinghe cosmopolite ed anzi ancora legato ad un’identità nazionalistica regressiva. Uno dei risultati dell’astratta retorica della sinistra europeista – e del connesso rifiuto di valutare adeguatamente la possibilità di rompere con questa Ue e di recuperare una propria sovranità monetaria – è precisamente quello di lasciare tale tematica alle destre e al suddetto regressivo contesto.
Contro l’ideologia della sinistra europeista, per un patriottismo costituzionale
Ciò detto, resta la considerazione generale che oggi l’ideologia dominante è cosmopolita ed europeista, dove “l’ideologia europeista è, in Europa, articolazione diretta dell’ideologia cosmopolita”. Qui troviamo un’ulteriore importante dato di analisi propostoci dal libro di Moro. Stante il suddetto generale orientamento, la ricerca del massimo consenso in patria perde fatalmente di peso. Con l’eclissarsi del socialismo reale e il dispiegarsi della globalizzazione capitalistica finisce per saltare il patto nazionale che fin lì aveva tenuto insieme i nuclei forti della società: si disgrega cioè il blocco keynesiano tra grande impresa e classe operaia. Contestualmente, le impellenti esigenze del neoliberismo impongono di sostituire ideologie “forti” con pensieri “più deboli”, interclassisti e solidaristici: di qui, “come ha spiegato bene la femminista americana Nancy Fraser, l’alleanza tra le élites capitalistiche e i ceti medi ‘progressisti’ (Paul Ginsborg parla invece di ceto medio riflessivo)”. Più in generale, si punta sul disimpegno, sul depotenziamento della passione civile e della partecipazione politica, a correzione di un “eccesso di democrazia”. Il commento di Moro è a questo punto assai interessante per quanti sono impegnati nella costruzione di una proposta politica: “Il capitale ha stracciato il patto sociale keynesiano, cioè la base materiale della Costituzione, e oggi i suoi interessi, specie in Italia e negli altri Paesi più penalizzati dall’integrazione europea, si contrappongono oggettivamente agli interessi popolari, cioè a quelli della maggioranza della popolazione”. Per questo è oggi prioritario recuperare lo spazio politico di un “patriottismo costituzionale”.
Comprensibilmente, l’argomentazione si sofferma sulla natura “ambigua”, polivalente, del concetto di “nazione”. E’ profondamente sbagliato dare a tale nozione un’accezione esclusivamente negativa, identificandola con la propaganda nazionalistica (come fa ancora Antonio Negri). Essa la si può infatti intendere in termini reazionari o progressivi: lo stesso Lenin – ricorda opportunamente Moro – invita a “valutare caso per caso se l’aspetto nazionale sia un fattore di promozione o di disgregazione degli interessi della classe lavoratrice”. Del resto, la storia recente conferma clamorosamente una tale asserzione. E’ vero che, dopo la prima guerra mondiale, l’idea di nazione è stata a lungo egemonizzata dal nazi-fascismo. Ma è anche vero che tra gli anni 50 e gli anni 70 essa è stata la bandiera dell’antimperialismo e delle lotte di liberazione: in Asia, in Africa, nell’America Latina. E Stalingrado rimane superbo emblema di una “grande guerra patriottica”; così come “patriottica” è stata in Italia la Resistenza al nazi-fascismo. Ciò fa giustizia di un grave fraintendimento: è l’ideologia cosmopolita che tende ad abolire gli Stati-nazione; non certo l’internazionalismo proletario, il quale al contrario ha sempre sostenuto contro l’imperialismo l’autodeterminazione dei popoli, cercando di costruire solidarietà tra le classi subalterne di diverse nazioni.
All’europeismo astratto e di maniera di certa sinistra deve contrapporsi un rinnovato patriottismo costituzionale, appunto in quanto si oppone all’espropriazione della volontà popolare prodottasi con la mondializzazione capitalistica e, in Europa, con l’Unione europea. Moro annota in proposito che, sin dal Manifesto di Ventotene, le posizioni europeiste sono state influenzate dalle tesi di Albert O. Hirschman, economista tedesco che, dopo aver completato i suoi studi a Berkeley, si era arruolato nell’esercito statunitense e, dopo la guerra, era divenuto alto dirigente della Banca centrale statunitense per i Paesi del Commonwealth: “Le sue riflessioni erano funzionali alla ricostruzione del mercato mondiale controllato da istituzioni internazionali sotto l’egemonia statunitense. In Potenza nazionale e commercio estero (1945) Hirschman scriveva che la politica di potenza statale, che aveva portato allo scoppio della Seconda guerra mondiale, poteva essere superata solo privando gli Stati dell’autonomia sulle scelte economiche, cioè della sovranità nazionale, subordinandoli alle regole di organismi sovranazionali (…). Proprio l’eliminazione della sovranità economica nazionale è uno dei pochi obiettivi realizzati, mediante l’euro, dal movimento europeista”. Ed è proprio tale infausta condizione che va risolutamente contrastata e superata, nella consapevolezza che l’euro è “una leva di comando del capitale”: uscire dall’euro è una condizione non sufficiente ma necessaria, “al fine di recuperare il controllo statale sulla valuta, di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei titoli di Stato”. In definitiva, “è una condicio sine qua non, senza la quale non si può né portare avanti una politica di bilancio pubblico espansiva, né un allargamento dell’intervento pubblico, mediante vere ripubblicizzazioni di banche o di aziende di carattere strategico, né tantomeno difendere efficacemente salari e welfare”.
Cambiare urgentemente strada
Un’ultima considerazione. In un articolo dai toni forti e, per certi versi, drammatici (cfr. Il Sole 24 Ore del 25 febbraio 2018) Carlo Bastasin si riferisce in questi termini alla crisi verticale della socialdemocrazia tedesca: “La crisi dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco, può segnare la fine di un’era nella politica europea, quella in cui l’idea di società aperta è stata ancora conciliabile con un forte sistema di sicurezza sociale”. Per la prima volta dal secondo dopoguerra ad oggi, l’Spd è scesa nei sondaggi al di sotto di un partito nazisteggiante e xenofobo quale è Alternativa per la Germania (AfD) e il suo leader Martin Schulz è precipitato nel partito dal 100% dei consensi a zero in soli quattro mesi. Tale crisi, ammonisce Bastasin, “non è una questione solo tedesca”, ma riguarda l’intera Europa. All’epicentro di un simile tracollo c’è il tema dell’immigrazione: “Agli immigrati non viene solo attribuita la fonte di ogni insicurezza, ma anche la concorrenza sul lavoro che comprime i livelli salariali nei settori tipicamente occupati dagli elettori socialdemocratici. La stessa Bundesbank attribuisce anche all’immigrazione l’assenza di inflazione in Germania (cioè l’aumento dei salari). (…) Schroeder aveva riformato i mercati del lavoro per evitare che gli investimenti andassero in altri Paesi e abbandonassero la Germania causando disoccupazione. L’esito è stato che gli investimenti in capitale non sono stati fatti in Germania dalle imprese tedesche perché era molto più conveniente sostituire capitale con lavoro diventato a basso costo (grazie alla concorrenza esercitata dal lavoro degli immigrati). La disoccupazione è scomparsa, ma il reddito degli elettori Spd non è aumentato. La delusione dei cittadini ha provocato il riversarsi dei voti verso Alternativa per la Germania”.
Dunque, tra i regali indesiderati portati da questa Unione europea e, con essa, da un’astratta ideologia europeista c’è la guerra tra poveri, più precisamente tra penultimi e ultimi. Una vera bomba a orologeria che rischia di trascinare all’indietro, nelle pieghe più oscure della storia, l’intero continente. Occorre urgentemente cambiare strada, trovare il bandolo di una nuova cittadinanza e solidarietà di classe: ma ciò è possibile solo se si contrasta un capitalismo che sa solo rispondere alla sua crisi riversandola sulle classi popolari, se si trova il coraggio di contrapporsi frontalmente a questa Unione europea, a cominciare col riappropriarsi della propria sovranità monetaria. Per trovare un’altra strada, questo lavoro di Domenico Moro è assai utile.
Fonte: https://www.sinistrainrete.info/europa/11805-bruno-steri-contro-l-ideologia-cosmopolita-ed-europeista.html
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