Sul concetto di verità
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Da almeno due secoli, anziché essere la forma definitiva che la conoscenza assume, la filosofia rassicura che la verità sia inopportuna, e in parte escogita labirinti di pensiero alternativi al percorso logico, in parte la diffama pretendendo di scorgervi il proposito di un atteggiamento totalitario – da una parte una scuola europea legata a una filosofia della storia sempre più esangue rifiuta la verità come superficiale, dall’altra una filosofia nord-atlantica legata a una concezione sempre più oscurantista della scienza la ritiene incompatibile con la democrazia-liberale, che si attiene alla diversità delle opinioni come dato ultimo legittimo.
La verità è il linguaggio umano che si trova in accordo con la realtà – adaequatio rei et intellectus è la splendida definizione scolastica; la sua immagine mitica è Adamo che nomina il creato. Il rifiuto della verità è dunque il rifiuto dell’accordo tra soggetto e oggetto, perché il soggetto può preferire la sua insufficienza e tenere estraneo l’oggetto.
La falsità ha tre forme, che possono essere ricavate dal modello dell’etica. Tre sono infatti le forme giuridiche dell’illecito: quella involontaria per cui si vuole il diritto in generale, ma ci si attribuisce un diritto particolare altrui, l’inganno con cui si lede sostanzialmente un diritto altrui sotto l’apparenza del rispetto del diritto, il delitto con cui si annulla l’essenza e l’apparenza del diritto. A queste tre forme giuridiche corrispondono solo due forme morali – l’involontarietà è infatti un ambito estraneo alla morale: l’ipocrisia e il soggetto assoluto che trasforma in legge il suo arbitrio1. Poiché la verità non dipende soltanto dall’intenzione del soggetto, la falsità ha di nuovo tre forme: l’errore, se contro la propria intenzione si è fuorviati da un’apparenza; la menzogna, se si svia con intenzione, cioè se ci si riserva la verità e si comunica agli altri un’apparenza; l’idealismo, quando si squalifica il necessario rispetto all’eccellenza del possibile. Gli errori non chiedono di meglio che di essere corretti; essi sono anzi un momento della stessa esposizione della verità. La menzogna è invece il mezzo della strategia manipolativa; molto del disprezzo attuale che si mostra alla verità è generato dalla rassegnazione o dalla condiscendenza alla menzogna universale che soffoca la nostra epoca: mentre si emancipava dalla religione medievale disprezzandola come impostura dei preti, l’illuminismo moderno ha creato il giornalismo, ossia la comunicazione come merce, che mente sempre per timore di perdere il committente o il cliente. Il vertice estremo del falso è la sovranità del soggetto che si tiene alla sua idea per evitare la fatica dell’imparare, che dice di preferire il percorso di ricerca alla meta della scoperta, che sostituisce il godimento dell’accordo con l’oggetto con il sentimento di onnipotenza suscitato dal discordare da sé. Il suo principio è il disprezzo della logica.
La logica, come pensiero oggettivo, è l’insieme delle scoperte dell’umanità, il compendio di tutti gli accordi già raggiunti tra il soggetto e l’oggetto, l’ambito delle verità ereditate. Una prima forma di rifiuto della logica è contenuta dunque nel disprezzo della tradizione, nella superstizione del nuovo che cancella il vecchio senza averlo assorbito; questo rifiuto ha sempre in bocca la parola rivoluzione e domina la pedagogia, al punto che le nostre scuole innovative non insegnano l’analisi logica, si estraniano dunque dal pensiero in generale e dalle scienze in particolare e si dedicano alle attività ricreative o lavorative. Un rifiuto più nascosto, e quindi più insidioso, della logica è in ogni empirismo, nel concepirla cioè come tautologia, come soggetto puro che non va oltre la tabula rasa della ripetizione del suo io, mentre già la natura non di semplice pensiero, ma di pensiero oggettivo, ne smentisce il carattere tautologico e ne evidenzia la natura sintetica. Dei tre principi riflessivi, l’empirismo affida il primo, l’identità, A = A, al soggetto, che così si svuota in una tabula rasa; il secondo, la differenza, A ≠ B, alle cose, risparmiandosi così di pensarla e di scorgervi l’identità; per il terzo, la ragione sufficiente, A = B, l’empirismo non ha più spazio. Non accorgendosi di aver concepito le differenti impressioni come identiche a se stesse, di aver dunque posto nell’esperienza non solo la differenza, ma anche l’identità, Hume dovette escluderne il principio di ragione sufficiente (nella forma più concreta della categoria di causalità), nella quale identità e differenza di causa ed effetto sono direttamente poste.
Se la logica è tautologia e le cose una pura differenza, lo stesso atto particolare del conoscere, l’acquisizione di verità particolari propria dell’attività scientifica, si trasforma in un compito insolvibile: come accordare fissità e fluidità, che sono definite dal disaccordo? Come può accordarsi alle cose un soggetto privo delle forme logiche in cui è già accordato alle cose? Accordando questa privazione e vantandola come libertà, parte dell’epistemologia del Novecento ha fatto della scienza un mito tra gli altri si è cioè adattata alla barbarie. Poiché le forme logiche non sono state intese quali sono, cioè accordi tra soggetto e oggetto, dunque antichi atti d’amore, è accaduto che altre correnti di pensiero abbiano scambiato la scienza per una sopraffazione del soggetto a danno dell’oggetto; il suo legame con la tecnica ha permesso di demonizzarla e di scaricare su di essa le responsabilità politiche, così da assolvere Truman dal lancio delle bombe atomiche e il dogma del profitto degli azionisti dalla distruzione dell’ambiente.
La strada della filosofia speculativa è opposta al sospetto nei confronti della logica e della sua particolarizzazione scientifica: la filosofia speculativa scopre nella moltitudine delle forme logiche la vicenda in cui l’eros platonico perde il suo oggetto per recuperalo sempre di nuovo; giustifica così la loro efficacia applicativa con il loro potere di esprimere il senso della verità.
1Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 140: “Poiché appartiene al progetto dell’agire concreto effettivo, la finalità dell’autocoscienza ha necessariamente un aspetto positivo; sapendolo enfatizzare come dovere e intenzione eccellente, l’autocoscienza riesce ad affermare come buona per altri e per se stessa l’azione il cui contenuto essenziale negativo è nel contempo in lei che è riflessa dentro di sé e dunque consapevole dell’universale della volontà – per altri, così è l’ipocrisia, per se stessa, così è il vertice ancora più alto della soggettività affermantesi come l’assoluto.”
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