Il bisogno di patria
di GABRIELE PEDULLÀ
A partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso le meditazioni sull’identità nazionale sono andate costituendo a poco a poco una sorta di vero e proprio genere della storiografia italiana. Niente di sorprendente. L’eterna domanda «chi siamo?» si è caricata di nuovi significati proprio nel momento in cui, sotto la duplice spinta del processo di unificazione europeo e delle tensioni centrifughe impresse al dibattito politico dalla protesta della Lega Nord, sembravano entrare di colpo in crisi alcuni dei presupposti ideali sui quali si era retta la repubblica nata dalla Resistenza, se non addirittura la stessa eredità risorgimentale.
Se in apparenza Il bisogno di patria [Einaudi, 2004, ndr] può essere ricondotto a questa ricca messe di studi identitari, sotto molti altri aspetti il saggio di Walter Barberis se ne discosta decisamente. Innanzitutto per la profondità cronologica: gran parte dei pamphlet pubblicati a ridosso della crisi del 1992 scelgono una prospettiva cronologica ristretta e per lo più centrata sugli ultimi due secoli, mentre Barberis sposta indietro il baricentro del suo ragionamento, rivendicando l’importanza della svolta delle Guerre d’Italia cinquecentesche e risalendo alla ricerca delle radici preunitarie dell’identità.
In secondo luogo per la varietà delle suggestioni che guidano il suo percorso e che non si limitano alla storia politica e culturale, ma si soffermano con un’attenzione inusuale su aspetti della storia italiana in genere più trascurati nel discorso sul carattere nazionale, come l’evoluzione tecnologica, il governo dell’economia, l’organizzazione militare o il rapporto con il patrimonio artistico e l’ambiente (con una sensibilità tutta speciale per le testimonianze letterarie).
Del libro di Barberis si impone all’attenzione dei lettori soprattutto il recupero (in chiave molto originale) del concetto di patria, rivendicato sin dal titolo e quasi polemicamente. Bandita dalla riflessione politologica per alcuni decenni, la patria vi è stata riammessa al principio degli anni Ottanta da un celebre articolo di Alasdair MacIntyre, Is patriotism a virtue?, in cui il filosofo americano si domandava appunto se il patriottismo potesse essere considerato una virtù, preannunciando in qualche modo la svolta in senso « comunitario » del pensiero politico anglosassone, in nome del primato dei valori identitari del gruppo contro la presunta astrattezza dei principi universali rivendicati dai pensatori liberals.
La centralità conferita alla nozione aristotelica di amicizia nel pensiero di MacIntyre e di Charles Taylor fa sì che la fedeltà alla nazione (right or wrong, my country) diventi anzi la pietra di volta dell’intero loro edificio teorico. Dalla convinzione che senza obligation to belong le altre « fonti atomistiche di lealtà » non sarebbero in grado di realizzare l’attaccamento necessario alla libertà e alla democrazia discende insomma il recupero dell’amor di patria come cemento della collettività dei cittadini e risorsa necessaria alla sopravvivenza di ogni società.
Il saggio di Barberis, pur senza mai confrontarsi esplicitamente con il dibattito filosofico anglosassone, raccoglie quella sfida. Identità sì, ma quale? Patria sì, ma quale? Dietro a parole come queste si celano evidentemente idee e storie diverse, spesso del tutto inconciliabili tra loro; per prima cosa è essenziale dunque fare ordine e chiarezza. Il modo migliore per definire i contenuti della patria di cui Barberis avverte oggi la mancanza è forse quello di partire dai titoli delle tre sezioni in cui è diviso il libro, rispettivamente «Il bisogno di stato», «Il bisogno di storia» e «Il bisogno di patria». Semplificando enormemente (ma forse anche cogliendo nel segno) potremmo leggere cioè i tre diversi titoli come i termini di un’equazione e interpretare la patria di Barberis come la somma di «stato» (inteso come sistema di regole che sappiano sottrarsi a una pericolosa e radicata «inclinazione all’interesse privato») e di «storia» (intesa come «ansia di verità» sul proprio passato che sappia guardare oltre le «contingenze e le urgenze della contemporaneità»).
Dunque non tutto è patria, non tutto fa (o dovrebbe fare) identità allo stesso titolo; detto in altri termini: non tutte le patrie sono altrettanto apprezzabili e compito degli storici è anche quello di aiutare i propri contemporanei a distinguere tra patrie patrigne e patrie paterne.
La distinzione tra le diverse ipotesi di patria implica la possibilità di scegliere tra modelli alternativi spesso molto diversi, ma nelle pagine di Barberis vi è sempre una consapevolezza anche dolorosa di questo rapporto dialettico tra perdite e acquisti (come scriveva Machiavelli, «non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro»). Già De Sanctis aveva spiegato la perdita del primato culturale con una sorta di ipertrofia dei primi secoli che avrebbe precocemente esaurito le energie della nazione.
Nelle pagine di Barberis assistiamo più frequentemente al procedimento inverso, per esempio quando evidenzia come svantaggi e carenze abbiano potuto tramutarsi in nuove opportunità e punti di forza. Si tratta, anche dal punto di vista degli usi linguistici di Barberis, di una formula ricorrente («quel sintomo di una passata arretratezza ora si trasformava in un punto di vantaggio», «una debolezza si trasformava in un punto di forza», ecc…), e comunque di un approccio originale e potenzialmente applicabile in forma ancora più sistematica, mostrando per esempio come quello straordinario patrimonio artistico sulla cui tutela il libro insiste giustamente molto sia anche e soprattutto il portato della sua secolare divisione, dunque un altro male che, faustianamente, si è tramutato in bene (qualcosa di simile pensava anche il Guicciardini delle Considerazioni sopra i Discorsi).
Il confronto con gli altri paesi occidentali (principalmente europei) non è però meno importante della distinzione tra le diverse ipotesi di patria formulate nel corso della storia nazionale. Barberis rifiuta il mito della supposta diversità italiana (declinata tanto in chiave positiva quanto in chiave negativa) e lo fa ricordando nelle prime pagine del libro una frase di Manzoni a Lamartine: «Il n’y avait pas de mots plus durs à lui [= all’Italia] jeter que celui de diversité», in quanto con il termine si alludeva a «un long passé de malheur et d’abaissement».
Questo naturalmente non significa che Barberis non riconosca l’esistenza di costanti storiche e di «caratteri originali» nella vicenda della penisola; soltanto, si tratta di condurre l’eventuale confronto senza valutazioni assiologiche a priori e tipi ideali sui quali misurare le diverse esperienze (lo stato assoluto, la rivoluzione industriale…), approvandole o rifiutandole a seconda della maggiore o minore vicinanza dal presunto modello.
Per questo in tutto il libro Barberis pratica con grande gusto l’arte della comparazione tra pari, che gli consente di guardare all’Italia non come a un’anomalia nel panorama dei paesi dell’occidente industrializzato ma come a una realtà indubbiamente diversa ma di eguale rappresentatività (e il giudizio sulla bontà delle diverse opzioni giungerà semmai alla fine). È possibile che in queste «storie parallele» l’Italia a volte nemmeno venga chiamata in causa, magari perché interessa enunciare una lezione storica più generale, per esempio quando Barberis ragiona sul rapporto tra libertà di mercato e esigenze patriottiche nell’Inghilterra e nell’Olanda del xvii secolo (con la vittoria del liberismo ben temperato britannico sulla sfrenata libertà di commercio, persino coi nemici e in tempo di guerra, praticata dagli olandesi); oppure che il confronto venga effettuato tra realtà regionali diverse, come nel caso del paragone tra il governo pubblico dell’economia di Venezia e la mentalità eminentemente privatistica e cittadina di Genova e Firenze (scomponendo in tal modo la presunta unità della tradizione repubblicana di età moderna).
Più spesso, e dall’unità nazionale in poi, l’analisi comparata riguarda invece l’Italia e gli altri stati europei ed extraeuropei, toccando campi anche lontanissimi, dal diverso rapporto con il paesaggio naturale (e qui l’altro termine di paragone sono gli Stati Uniti e la Polonia), alla costruzione della memoria pubblica nel secondo dopoguerra, tra desiderio di guardare avanti e necessità di non resecare il rapporto con il passato recente e di non rinunciare a comprendere le ragioni del disastro bellico (questa volta a fronte del caso inglese e israeliano).
Ma sempre con un obiettivo: quello di istituire delle analisi incrociate che servano, ancora e ancora, a distinguere e a evidenziare le differenze, il prezzo di alcune decisioni e il valore di altre. In altre parole contro ogni concezione indeterminata e onnicomprensiva della storia dell’Italia, che come ogni storia è stata innanzitutto storia di conflitti e di scelte di campo. E soprattutto perché, anche oggi, ci sono patrie di cui abbiamo bisogno e patrie verso le quali non proviamo nessuna nostalgia.
fonte: https://journals.openedition.org
Ricordo che l’ITALIA è stata fatta dalla massoneria, per poi arrivare all’Europa.
Ergo, nn Italia, ma regione Italiana CON PIENA AUTONOMIA.