Sui lavoratori autonomi
di STEFANO D’ANDREA
I lavoratori autonomi fanno di tutto per negare la povertà, quando sono poveri, la mancanza di vera autonomia, quando dipendono economicamente da una casa madre o da pochi clienti tiranni o addirittura da altro professionista, la necessità (non più volontà) di lavorare 60 ore a settimana per sopravvivere o campicchiare dignitosamente, e le opinabili e talvolta certamente squallide caratteristiche che il loro lavoro o la loro professione sono andati assumendo.
Anche quando ammettono la povertà, propria o diffusa, la continua diminuzione dell’autonomia, spesso ormai soltanto formale, i tempi di lavoro necessari a sopravvivere o a vivacchiare, che raggiungono livelli “da sfruttato”, e il peggioramento della qualità del lavoro, impregnati come sono di liberalismo e di “cultura della concorrenza”, non riescono quasi mai a enunciare le vere cause del malessere della categoria alla quale appartengono. Né quindi riescono ad ipotizzare un assetto giuridico che migliorerebbe la loro condizione.
E i pochi che svolgono corrette analisi e riescono ad ipotizzare il giusto assetto normativo, non credono sia possibile, da un lato, tornare indietro (perché in gran parte si tratterebbe di tornare indietro), dall’altro, vietare o fortemente limitare i fenomeni nuovi che “il mercato” ha creato.
Complessivamente, anche perché l’autonomia li rende individualisti più dei lavoratori subordinati ed estranei all’idea di una lotta politica e sindacale di classe o di ceto, i lavoratori autonomi sono messi peggio dei lavoratori subordinati. Ovviamente mi riferisco soltanto a quel 90% dei lavoratori autonomi che ha visto peggiorare redditi, prospettive e qualità del lavoro, nonché aumentare il lavoro necessario a sopravvivere o a tentare di farlo.
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