La scienza degli “ignoranti” e quella dei “sapienti”. Ovvero, dove sta la vera indigenza cognitiva
di ROARS (Francesco Coniglione)
Una lettera ai lettori e ai commentatori di Facebook
È interessante fare un’analisi delle reazioni che si hanno su Facebook [questo thread, per esempio] quando si vengono a toccare temi particolarmente impegnativi e che si riferiscono a convinzioni profondamente radicate nei lettori. È quanto accaduto – dopo il mio primo articolo su “Scienza, antiscienza e Barbara Lezzi” – al secondo articolo sull’ignoranza, la scienza e il burionismo: si leggono sulle pagine di FB e nei commenti al post un certo numero di argomenti e atteggiamenti ricorrenti che sarebbe superficiale non prendere in considerazione. La prima cosa che salta agli occhi è che una parte dei lettori esibisce il comportamento del toro cui si sventola davanti il drappo rosso: appena si toccano certi capisaldi delle loro convinzioni gli scatta la compulsione da tastiera e scrivono commenti più o meno piccati, ma che spesso hanno in comune la caratteristica di aver letto male o di aver poco capito (o a volte di non aver letto affatto) quanto è stato scritto. Questi rappresentano quella che si potrebbe definire la “minoranza rumorosa”: la gran parte delle persone che ha letto l’articolo e lo ha condiviso non ha bisogno di argomentare la propria condivisione (gli argomenti sono contenuti già in ciò che si condivide, li si fa propri) e così esprime di solito il proprio apprezzamento che con un “like”. Mentre chi invece non condivide, sente il bisogno di dirlo (non esiste un “I don’t like”), e spesso di urlare la propria disapprovazione. Così, se vogliamo fare i conti, i “critici critici” sono molto più visibili ma in effetti sono spesso una sparuta minoranza rispetto a coloro che hanno “likeizzato” e condiviso, almeno in parte, un articolo.
Inoltre risulta ovvio che ciascuno ha una sua posizione peculiare e che non si può essere d’accordo su tutto. Così nelle risposte io, come anche De Nicolao, abbiamo criticato chi ripete sempre le stesse obiezioni, dimostrando di non aver ben letto quanto scritto oppure scambiando il fuscello per la trave. Per esempio, molti si sono fissati sul problema dei vaccini, cosa che io tocco di sfuggita senza pronunciarmi nel merito, perché non ritengo di avere le competenze per farlo; e invece ha trascurato il senso complessivo di quanto detto, che concerne il modo in cui si deve presentare la scienza e quella che è la missione degli scienziati, ovvero il problema del Public Engagement with Science (PES). In merito suggerisco, prima di tranciare giudizi, di dare una scorsa alla rivista Public Understanding of Science (pubblicata da Sage cinque anni dopo il lancio del PUS e il cui editor è l’italiano Massimiliano Bucchi, dell’università di Trento), dove è possibile trovare una quantità di articoli sull’argomento; oppure si può leggere questo articolo per avere un’idea di tale area problematica, o consultare lo Handbook of Public Communication of Science and Technology, curato da Bucchi e Trench (Routledge, London and New York 2014). Insomma, per chi voglia informarsi – prima di lanciarsi in filippiche sull’ignoranza degli italiani che sono diffidenti della scienza – v’è una quantità di risorse disponibili che certamente contribuirebbero a colmare l’ignoranza di chi parla di ignoranza.
Altri critici si sono attaccati al fatto di aver utilizzato il termine “burionismo” come fosse un attacco alle competenze di Burioni, cosa non vera: lo dico all’inizio che non ne metto in dubbio le competenze e i meriti scientifici; ma è strano che non si capisca come l’espressione indichi non la persona, ma un modo di fare, un atteggiamento, insomma è un modo metaforico di esprimersi per indicare un comportamento erroneo e controproducente, che in molti hanno ritenuto essere il limite di questo studioso. E che guarda caso ha ricevuto proprio in questi giorni una palese conferma nella risposta da lui data a un docente a contratto che lo ha criticato e che giustamente viene ricambiato con la stessa moneta. E faccio notare (l’ho visto solo ora, altrimenti lo avrei citato prima) che già Antonio Scalari aveva scritto nel gennaio del 2017 un articolo in cui nella sostanza si dicono cose analoghe a quelle da me dette, criticando appunto il “metodo Burioni” e richiamandosi alle stesse esperienze internazionali da me menzionate.
Poi v’è l’attacco “politico”. Col mio articolo avrei “legittimato” la classe di governo, avrei citato Barbara Lezzi “come prezioso interlocutore” (cosa del tutto falsa, in quanto l’ho menzionata solo in quanto rappresentativa di una posizione); addirittura io (e altri della redazione), avremmo operato “da intellettuali organici. Per poi nascondere la mano dietro una presunta discussione scientifica”; e così saremmo stati dei “fascioleghisti”. Ma organici a che? Si ignora forse che tale definizione era attribuita agli intellettuali del vecchio Pci e che ora è un po’ desueta, anche perché non esiste una struttura partitica organizzata, coesa e che valorizza gli intellettuali ai modi del vecchio Pci, come fossero fiori all’occhiello, portandoli in parlamento solo per darsi credibilità? Oggi gli intellettuali vengono sbeffeggiati o quanto meno neanche presi in considerazione, per cui di organico ormai rimane solo la spazzatura. Ma al di là delle battute, quel che rammarica è che non si riesca a capire, insomma, che ho semplicemente preso Lezzi e Burioni come due opposti stereotipi, entrambi sbagliati; e purtroppo in un post si deve in qualche maniera scrivere per idealtipi.
E se qualcuno ha avuto l’impressione che io sia stato “indulgente” coi 5S, può darsi che ciò derivi dal fatto che mi irrito quando vedo dare addosso, a volte in modo immotivato, sempre su certe persone con la solita accusa di essere ignoranti. Mi pare un atteggiamento fazioso e in fondo antidemocratico, perché è come dire che può essere eletto, e quindi governare, solo chi è in grado di esibire un curriculum scientifico. Su questi temi ho espresso il mio parere più volte, con articoli più di carattere politico (uno su tutti: “Le occasioni mancate della politica italiana“). In generale, quando si hanno di fronte posizioni che non si condividono o che sembrano a prima vista assurde, bisogna sempre domandarsi se vi sia un modo di intenderle in modo da dare loro un senso, di vedere se c’è in esse qualche elemento di verità; altrimenti c’è solo da dichiarare o pensare alla follia delle persone o rifugiarsi nelle spiegazione in base all’ignoranza: ma questo sarebbe appunto il classico “asilo dell’ignoranza”, questa volta da parte di chi assume un tale atteggiamento di rifiuto totalizzante. Ebbene, quello che ho cercato di fare è stato appunto questo: vedere se nelle affermazioni della Lezzi vi fosse qualche elemento positivo, se potevano essere intese in modo produttivo (questo l’ho fatto ovviamente nel mio precedente articolo, non nell’ultimo).
L’atteggiamento contrario mi sembra particolarmente pericoloso, perché al suo fondo v’è, a mio avviso, l’incapacità di pensare altrimenti che nella logica di Amico/Nemico, dove il Nemico è tutto il male, nero come la pece, e non può dire nulla di sensato, nemmeno per sbaglio; e bisogna dargli sempre addosso, perché se solo ci si azzarda a dire che v’era del senso in una certa sua presa di posizione, si diventa ipso facto suo alleato. Non vi sono vie di mezzo: tutti coloro che avanzano dubbi, sono irriducibili nemici, mossi da scopi perversi, che fanno i propri sporchi interessi; così i no-vax «sono un rumoroso gruppo di militanti che non avanza dubbi per avere una franca discussione, ma che scientemente promuove comportamenti pericolosi e sbagliati, e lo fa guidato da persone in mala fede che con questa mobilitazione fanno i loro porci interessi». Insomma, è tutto spiegato. Da una parte l’illuminato, dall’altro il subdolo portatore di “porci interessi”. E mettiamoci pure il complotto pluto-giudaico-massonico e così abbiamo completato il quadro.
Ma la guerra fredda è finita da un pezzo e io questa logica non la accetto, mi è estranea: voglio dire come la penso, sempre, sperando di convincere, senza minacciare con anatemi, chi ha la pazienza di seguirmi. E riconoscere anche in chi non condivido quel nocciolo, piccolo o grande, di ragione che posso scorgere.
Poi ci sono stati commenti più specifici, nel merito, e ringrazio coloro che sono stati in grado di fare ciò (ad es. un lettore mi ha rimproverato di aver sbagliato la data di inizio del processo di Lisbona, che è del 2000 e non del 1999, come avevo scritto: non è un disonore ammettere un proprio errore; mica siamo Burioni!). V’è chi mette in dubbio l’efficacia del PUS [Public Understanding of Science], ma io ne parlo evidenziandone i limiti e a causa del fatto che su di esso si è dibattuto a livello internazionale, in base a ricerche fatte negli anni passati.
E, questo sì è singolare, mi si accusa di aver utilizzato il termine burionismo per comportamenti esistenti prima dell’entrata in scena dello scienziato italiano, affermando che io avrei problemi con la successione temporale; oppure si dice che non è vero che Burioni sia la causa di tutto l’antiscientismo esistente, visto che questo era precedente alla sua “entrata in campo”. Ma chi ha mai affermato questo: utilizzo di una figura metaforica per meglio specificare un certo tipo di comportamento; è un modo sintetico per caratterizzare un atteggiamento, che è appunto quello criticato nelle ricerche menzionate. E ci vuole tanto nel capire che una cosa è la persona, un’altra un atteggiamento? L’atteggiamento, incarnato da una persona X nel tempo T, può benissimo essere anche utilizzato per spiegare un comportamento prima di T; ovviamente lo stesso non può avvenire con la persona in carne ed ossa. E Roars non vuole dare a Burioni la colpa della deriva antiscientista di questo sventurato paese, come si è sostenuto: troppo onore, potremmo ironizzare; in effetti la deriva antiscientifica ha cause complesse, che sono state indagate nelle ricerche da me citate (e alle quali nuovamente rimando, non potendo scrivere qui un saggio in merito) e fatte quando ancora quando neanche si conosceva chi fosse Burioni. Si è semplicemente voluto sostenere che l’atteggiamento degli scienziati verso il pubblico deve essere diverso da quello che, ad esempio, fa proprio Burioni ed esemplificato dall’episodio prima menzionato, che certo non causa la deriva, ma in nulla contribuisce a frenarla, invece sollecitando il formarsi di due eserciti disposti a battaglia, l’un contro l’altro armati, per fortuna ancora solo di insulti.
E a chi in tono ultimativo intima di esibire le prova che sia stato il burionismo a causare l’atteggiamento antivax, io posso replicare, penso con altrettanta legittimità, di esibirmi, a contrario, le prove che esiste un nesso causale tra la divulgazione fatta da Burioni e la diminuzione percentuale delle persone che ritengono non si debba fare nessuna vaccinazione (secondo dati pubblicati negli ultimi giorni sui giornali). Ma questo concentrarsi su Burioni sì, Burioni no, fa in sostanza perdere il senso complessivo dell’articolo, che non era quello di convincere le persone a non fare i vaccini o a diffidare della scienza, ma di porre proprio la domanda opposta: come si può fare affinché le persone, e non quelle più deprivate di competenze scientifiche, abbiano meno diffidenza verso la scienza rispetto a quella constatata, si badi, non solo in Italia, ma nei principali paesi europei dell’UE e persino (lo sappiamo bene!) negli USA? E qui – come da me ribadito – lo scopo non è convincere chi crede che la terra sia piatta (e però, sempre con questi esempi paradossali…) ma il pubblico incerto e smarrito che potrebbe essere preda delle più balzane idee se chi propone una visione scientifica non sa essere convincente, non semplicemente bulleggiando. Quindi una intenzionalità, direi, “illuminista” la mia, tutt’altro che oscurantista, come invece molti hanno dipinto il mio pezzo, solo per il fatto di aver citato la Lezzi.
Poi – e qui la cosa si fa anche più interessante – vi sono quelli che si lanciano in considerazioni di carattere filosofico o epistemologico. Chi afferma, ad es., che “La scienza non è relativa. Se una cosa è vera secondo l’attuale stato delle conoscenze, è vera.” E difatti, “andate a ficcare i ditini nella presa della 220 e poi si riparla delle verità relative su basi più concrete dei segoni mentali”. E così duemila anni di riflessione sono belli e liquidati. Magari gli antichi non avevano l’elettricità, ma potevano comunque mettere la mano sul fuoco: l’effetto non sarebbe stato meno convincente! E non vengono minimamente sfiorati dal sospetto questi “elettricisti” che una cosa sono le verità della vita quotidiana (sulle quali neanche gli scettici antichi dubitavano), un’altra cosa le teorie scientifiche, che sono sottoposte a tutta una serie di mediazioni intellettuali che sarebbe qui troppo complesso descrivere. La scienza è per costoro un solido blocco di granito, fatto di certezze inoppugnabili, sul quale sono scolpite le verità, che ovviamente sono sempre quelle dell’ultima teoria accettata. Fosse così, non ci sarebbe mai stato alcun progresso nella scienza, perché ogni passo avanti è avvenuto sfidando proprio ciò che in un certo momento si riteneva vero e con la generale condanna di tutti i sapienti e gli scienziati che si erigevano a sua difesa. Una buona storia della scienza darebbe utili indicazioni, perché la storia è una grande medicina: ci fa capire che le idee ritenute assolute hanno avuto un’origine, si sono sviluppate, hanno padre e madre, un luogo di nascita e non sono da guardare come se fossero eterne. Certo la storia non ci insegna nulla in merito a cosa fare, ma ci può dare qualche indicazione su cosa non fare, ovvero indicare come evitare qualche errore del passato. E in ogni caso permette alle persone di aprire gli occhi su molte cose, liberandoli da un atteggiamento puramente naturalistico (ovvero, scambiare la cultura per natura). Una storia, però, che non deve essere appannaggio di uno sparuto numero di persone, di “specialisti”, ma diffusa e conosciuta da tutti, nelle scuole innanzi tutto e in tutti i tipi di corsi; non solo ammannita in televisione da improbabili personaggi, che poi vengono accusati di fare storia di parte. È una salvaguardia proprio per la gente comune, che così apprende, ad es., come i demagoghi siano sempre esistiti e come quelli odierni non fanno che ripetere moduli già sperimentati nel passato. Li renderebbe meno “ingenui”. E se gli scienziati studiassero bene la storia della loro disciplina, sarebbero più cauti nel fare affermazioni troppo dogmatiche e certamente più criticamente consapevoli. Purtroppo lo studio della storia è quello che più sta deperendo in Italia, forse perché non fa comodo a chi vuole inculcare aggiornati assoluti facendo credere alla gente che sono nuovi di zecca e invece sono più vecchi del cucco. E così gli errori del passato è più facile che si ripetano.
V’è poi chi si erge a vestale della scienza professata e si meraviglia addirittura che un docente di filosofia nelle università italiane possa scrivere un testo quale il mio. Ci manca poco che si proponga al MIUR di licenziarmi. E con me alcune altre migliaia di studiosi che nel mondo sostengono tesi simili alle mie o anche più radicali. Sì, facciamo davvero un bel Ministero per la Verità a cui candidiamo come ministro questa incontaminata vestale o, perché no, lo stesso Burioni: lui sì che licenzierebbe in tronco il povero docente precario che ha avuto l’ardire di invitarlo a informarsi su alcuni temi. Ma con questi lettori verrebbe proprio voglia di rispondere in stile burionesco: perché prima di parlare non si va a informare? Oltre ai pochi testi indicati nel mio pezzo, ne posso consigliare qualche altro centinaio, e magari gratis. E poi ne parliamo. E ne parliamo anche, ma dopo adeguata informazione con chi semplicemente afferma che mentre nel campo scientifico è possibile fare degli esperimenti discriminanti, invece in filosofia… Con il sottinteso che visto che io sono filosofo, allora… Mentre ci siamo perché non la buttiamo giù quella per cui la filosofia è la cosa con la quale e senza la quale il mondo resta tale e quale? E non si accorgono questi innocenti che mentre parlano e scrivono e si agitano stanno facendo della filosofia, perché argomentano e sostengono tesi sulle quali non c’è un algoritmo che possa dare la soluzione giusta, ma solo la forza della ragione a la capacità di convincere. Ma la loro è la filosofia peggiore perché, inconsapevole di esserlo, finisce per sposare tutti i luoghi comuni senza interrogarsi criticamente su di essi, anzi scambiandoli per profonde verità da loro finalmente rinvenute nel più intimo della propria sapienza; e non sanno che esse sono state oggetto di ampio dibattito, che hanno una genesi (ancora la storia!) e magari periodi di fortuna e declino: e così vanno avanti a macinare tesi già rimacinate e ridotte in minutissima polvere da generazioni di persone che su di esse hanno riflettuto e magari dedicato la vita. La scoperta dell’acqua calda è sempre in agguato, anche se l’acqua calda è assai utile.
E poi, infine, questo buttare la discussione in vacca: e allora dobbiamo mettere a confronto un sostenitore della terra piatta con un astrofisico (magari con Sylos-Labini!), il salumaio col biochimico? «È così complicato capire che la discussione tra pari è una cosa diversa rispetto alla discussione con il verduraio sotto casa? Sennò invece della peer review mandiamo gli articoli da valutare a un paio di nominativi scelti a caso dall’elenco telefonico». E così via assurdeggiando. Ma – a parte il fatto che quella dell’elenco telefonico potrebbe essere una buona idea da proporre all’Anvur per la VQR: forse la casualità della valutazione darebbe esiti più rispondenti al vero di quanto sinora accaduto – a parte questo, dicevamo, non è affatto difficile capire che il verduraio non può discutere col biochimico di provette e laboratori; lo hanno capito tutti coloro che hanno discusso del PES. Invece coloro che fanno simili affermazioni non hanno affatto afferrato bene cosa propone il PES e non hanno neanche l’umiltà di andarsi ad aggiornare prima di dar fiato alle trombe dell’insensatezza. Lo avessero fatto si sarebbero accorti, questi amanti del paradosso, che nel PES non si vuole sostenere che l’inesperto debba entrare nel merito della validità delle ricerche scientifiche, pasticciando con i manometri (anche se vi sono casi in cui sono state valorizzate le ricerche di profani che, se opportunamente disciplinate da esperti, possono portare a scoperte interessanti come nel caso delle galassie “Pisello verde”). Ciò che piuttosto si vuol mettere in rilievo è il fatto che le nuove scoperte scientifiche e le tecnologie che ne derivano non restano nell’empireo della pura conoscenza, ma hanno il più delle volte rilevanti ricadute di carattere etico, sociale, politico, individuale. Ed è su QUESTI aspetti che ciascuno è chiamato a esprimere la sua valutazione, anche il verduraio. Per dirla più chiaramente facciamo un esempio: se sia giusta o meno da un punto di vista etico l’eutanasia (o l’aborto o altri problemi di grande impatto sociale) non lo deve decidere il medico o il ginecologo, ma possono discuterne tutti, specie chi è interessato a tali problematiche. E così le persone possono, ad es., decidere – anzi hanno il diritto di farlo! – che sia meglio preservare come valore la vita a costo di grandi sofferenze e non scegliere una morte dignitosa che metta ad esse fine. E tutto sommato trovo in merito più autorevole il punto di vista di un teologo cattolico (o di un imam islamico o di un rabbino o di un buddhista…), perché dà – come si suol dire – “la linea” a chi nel cattolicesimo (o altro) si riconosce, affinché prenda le proprie decisioni con consapevolezza: essere peccatore, ma risolvere un problema pratico, o accollarsi questo problema pur di mantenere candida la propria anima.
Lo specialista è sovrano nel suo specialismo e qui si deve confrontare con gli altri specialisti (anche se io sottolineo che in molti casi vi sono divergenze anche tra di essi ed è bene che il pubblico sia informato pure di ciò, per i motivi che ho detto e che non sto a ripetere), ma per quanto concerne tutti gli altri problemi che fuoriescono dal suo campo, è un uomo come tutti gli altri e soggetto a critiche e contestazioni. Anzi spesso capita che lo specialismo è tanto spinto che persino nel campo della scienza un biochimico può essere considerato un inesperto di chimica generale e via esemplificando. Ma ripeto, la vita degli uomini è molto più ricca – di valori, aspettative, sentimenti, sofferenze, speranze, timori, utopie e amori – di quanto non sia racchiuso in una disciplina specialistica. E siccome ormai la scienza ha un rilevante impatto (a meno che non si tratti di esoteriche teorie, come quella delle stringhe…) su tutti questi aspetti, allora su di essi non possiamo lasciare che siano solo gli scienziati a decidere, per poi accettare come scelte tecniche neutrali opzioni che invece possono essere subordinate a interessi e valori che nessuno ha scelto e che, se avesse potuto farlo, avrebbe rifiutato. Anche qui, come in economia, dobbiamo rifiutare la famosa TINA (there is no alternative) della Thatcher, che ci ha spacciato certe decisioni economiche per il distillato della pura scienza.
No, cari amici, io (e nell’io, metto anche la società) voglio avere la possibilità di scegliere e voglio che gli scienziati mi dicano con chiarezza e onestà i costi e i vantaggi delle scelte che posso fare, pretendo da essi un dialogo e non un ammaestramento, voglio porre i miei dubbi e richiedo risposte convincenti, non basate sull’autorità; il ho il diritto di esprimere i miei dubbi e loro il dovere di rispondere, convincendomi, perché questo fa parte della loro missione e sono pagati anche per questo (qualcuno ha in mente cosa sia la cosiddetta “terza missione” dell’università?). E poi voglio che si mettano al servizio delle decisioni da me prese, perché dobbiamo finirla di essere eterodiretti (il mercato, la scienza, la tecnica, le esigenze della produzione e così via) e dobbiamo divenire di nuovo padroni della nostra esistenza. Come si diceva una volta, deve essere l’uomo a forgiare il proprio futuro e non a farsi forgiare da esso, che poi significa farsi eterodirigere da coloro che hanno il potere e i mezzi massmediali per presentarci ogni scelta nella univoca luce che loro aggrada.
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