Crescendo nel sobborgo quasi completamente proletario di Levittown, Philadelphia, si poteva percepire un certo suprematismo bianco. Quando si parlava di neri, non era quasi mai in maniera positiva. La conversazione di solito includeva parole come “ozioso”, “ineducato”, “immorale” e “irresponsabile”.
Lo stereotipo usato per giustificare questo pregiudizio era quello del nero che viveva di qualche forma di assistenza pubblica, che aveva più figli da più donne, i quali vivevano a loro volta grazie al welfare. Secondo gli adulti che vivevano nel mio quartiere, era una cultura decisamente decadente ed autodistruttiva.
Circa vent’anni dopo, i problemi un tempo identificati con la comunità nera – disoccupazione, figli fuori dal matrimonio, criminalità – si erano spostati verso altre comunità. Come ha evidenziato il critico sociale Charles Murray nel suo recente libro “Coming Apart: the state of white america, 1960-2010”, la classe lavoratrice bianca è stata colpita, nel corso degli ultimi cinquant’anni, dagli stessi problemi che un tempo colpivano i loro vicini neri.
I tassi di matrimonio sono in declino, quelli di divorzio sono aumentati, e il numero di nascite fuori dal matrimonio è esploso, il che significa che molti più bambini sono cresciuti in case con un solo genitore. Il numero di proletari bianchi che hanno lasciato il lavoro è più che raddoppiato, e le richieste di disabilità sono salite alle stelle. Il numero di prigionieri bianchi, dal 1974, è cresciuto del 500%. Per la nuova classe alta bianca, tuttavia, come dimostra Murray, il rischio di subire gli stessi problemi era identico a quello di affogare a causa di una corrente di risacca in un mare altrimenti tranquillo: succedeva, ma solo raramente.
Quello che rende il libro di Murray ancora più terrificante da leggere è quando, alla fine, fa un passo indietro ed estende la sua analisi all’intera popolazione statunitense, “includendo il riconoscimento dei modi in cui l’America si sta separando non per via della razza o dell’etnia, ma per via della classe sociale”. Una nuova classe alta, caratterizzata da alto quoziente intellettivo e grande ricchezza, si sta segregando in ricche bolle – che Murray chiama “SuperZips” – e sta occupando i posti di comando della nostra economia e del nostro governo, mentre il resto della popolazione resta nel ruolo di semplice spettatore.
Ciò che Murray spiega empiricamente è stato predetto da un altro critico sociale, morto più di due decenni fa, che ha presentato un’accusa schiacciante sull’incapacità del capitalismo americano di riconoscere qualsiasi limite nella sua ricerca di crescita economica. La sua voracità ha distrutto le cose alle quali i conservatori tenevano di più, diceva, riproducendo infine nei sobborghi proletari bianchi come Levittown le stesse tendenze distruttive che un tempo si associavano alle grandi città.
“In un modo o nell’altro, la società della classe media è diventata la pallida copia del ghetto nero”, ha scritto il celebre teorico sociale Christopher Lasch nel suo libro più famoso, La cultura del narcisismo. “Non abbiamo bisogno di minimizzare la povertà del ghetto, o la sofferenza inflitta dai bianchi sui neri, per vedere che il crescente pericolo e le condizioni imprevedibili della classe media hanno dato vita a simili strategie di sopravvivenza”, continua. “Infatti, l’attrazione dei bianchi dimenticati per la cultura nera suggerisce che quest’ultima oggi parli a una condizione generale, la cui caratteristica più importante è una diffusa perdita di fiducia nel futuro”.
Nel corso della sua vita, Lasch, figlio di parenti progressisti e inizialmente attratto dall’ideologia marxista, è diventato conservatore man mano che si è stancato della tendenza della società americana di mettere sullo stesso piano la qualità della vita con il consumismo. Sia i democratici che i repubblicani, credeva, aderivano alla “ideologia del progresso”, un sistema di idee in cui, sia attraverso la redistribuzione della ricchezza che la crescita economica, “l’abbondanza economica avrebbe eventualmente dato a tutti accesso al benessere, alla coltivazione di sé, ai vantaggi che un tempo erano appannaggio solo dei ricchi”.
Ma il conservatorismo di Lasch è sempre stato idiosincratico, fondendo il rispetto per la tradizione conservatrice della classe lavoratrice celebrata anche da Charles Murray – fede, famiglia e vicinato – con un genuino desiderio di democrazia egualitaria. In quanto ex marxista, le sue analisi hanno sempre tenuto in alta considerazione il lavoro, in particolare quello autonomo o condotto volontariamente in cooperazione con gli altri, per via dell’etica di responsabilità che esso produce.
Il lavoro non era, o non avrebbe dovuto essere, solo un mezzo per mettere il cibo in tavola o avere un tetto sulla testa, ma qualcosa che avrebbe dovuto fornire significato, dignità, istruzione morale, qualcosa che non si poteva trovare ripetendo le stesse azioni giorno dopo giorno sotto la direzione di qualcun altro.
Dopo aver esaminato la storia americana, Lasch si aggrappò sempre più a quella che descriveva come l’ideologia dei produttori che animava i giovani Stati Uniti per gran parte del diciannovesimo secolo: una celebrazione dell’affidamento su sé stessi, sull’indipendenza, sulla modestia dei contadini e degli artigiani che lavoravano di propria iniziativa e controllavano i mezzi di produzione.
Grazie alla loro indipendenza e competenza, essi potevano essere cittadini nel vero senso della parola. Detestavano le disparità estreme nella ricchezza, e guardavano il lusso con sospetto, a causa dell’effetto corrosivo che aveva sulle persone. “La ricchezza e il lusso, invece di affascinare le masse, provocava emozioni di disgusto”, scrive Lasch citando Thomas Paine, che lui considerava uno dei primi populisti d’America.
Ciò che motivava questa repulsione era la credenza che il solo modo onesto di accumulare ricchezza fosse produrla con le proprie mani; ciò assicurava anche qualunque disparità economica nascesse, essa non fosse solo tollerabile, ma anche giusta. “La libertà”, ha scritto Lasch nel libro The true and only heaven, riassumendo l’opinione della maggioranza all’inizio del diciannovesimo secolo, “non poteva fiorire in una nazione di mercenari”.
Lasch ha capito il paradosso che buona parte della moderna destra e sinistra americana trovano contraddittorio: la proprietà può essere furto, in particolare sotto le relazioni di proprietà del capitalismo e sotto il lavoro salariato, ma ha anche significato la libertà per i piccoli produttori – come i contadini, gli artigiani e i negoziati nel diciannovesimo secolo, o quelli che sono oggi i piccoli imprenditori – i quali erano in grado di controllare le condizioni con cui produrre il proprio reddito.
La nascita della produzione di massa, per dei mercati sempre più larghi, e con essa il mutamento verso il lavoro salariato, ha distrutto questo radicale, ma profondamente conservatore, modo di concepire la vita, trasformando uomini competenti che lavoravano per sé stessi in pezzi intercambiabili della macchina di qualcun altro. I lavoratori lo hanno capito, scrive Lasch, e hanno reagito “difendendo non solo i propri interessi economici, ma anche le loro capacità, le loro famiglie e il loro vicinato”.
Rivoltandosi contro le condizioni disumanizzanti del lavoro salariato non qualificato, e tuttavia comprendendo che la produzione di massa non sarebbe mai svanita, i lavoratori specializzati e i proprietari di terra produttiva, rappresentati da organizzazioni come la “Knights of Labor and the Farmers’ Alliance” immaginavano una nuova società che resistesse sia al capitalismo di stato che al socialismo di stato. La centralizzazione, fosse essa gestita da un capo o dal burocrate, era il loro nemico.
La loro nemesi, tuttavia, ha prevalso nel momento in cui gli americani hanno accettato che il costo della loro abbondanza era la perdita di controllo sulle loro vite. Senza alcun senso di come la storia avrebbe potuto andare diversamente, ogni tentativo di controllo operaio oggi è stato perso nella storia, indicato come comunista piuttosto che autenticamente americano.
Ma il populismo produttivista, credeva Lasch, dovrebbe godere di nuova linfa nel ventunesimo secolo, dal momento che le politiche contemporanee liberali e conservatrici – le quali entrambi vedono l’americano medio come spettatore e consumatore, in materia di politica e di produzione – si sono dimostrate incapaci e lontane dal popolo.
Solo una politica produttivista e populista può rivitalizzare il concetto che il controllo diretto e locale dei cittadini sulle politiche e sul lavoro è la migliore sintesi degli ideali americani conservatori e radicali, in quanto le persone si sono rese conto che il consenso bipartian sull’idea del “progresso-come-consumo” è vuota e illusoria. L’auto-sufficienza sembra un sogno, per molti di coloro che oggi sono diventati una popolazione in sovrabbondanza, con salari sempre più bassi, mentre la tecnologia velocizza l’obsolescenza del loro lavoro e distrugge il loro stile di vita.
Anche prima della sua morte nel 1994, Lasch aveva visto che molti dei fortunati che avevano un lavoro fisso erano incatenati in un lavoro del quale non gliene importava nulla, carriere finite e senza alcuno scopo se non quello della sopravvivenza economica. L’auto-espressione e l’affinamento di una propria capacità erano cose da rilegare nel tempo libero, se mai se ne aveva.
Lasch ha capito che la democrazia è una finzione, in cui le persone spendono le proprie vite in condizioni sulle quali esercitano poco o nessun controllo, compensate da beni di consumo scadenti che portano effimero conforto, quando le cose che veramente contano – come un’educazione adeguata e la proprietà della propria casa, ultimo baluardo della proprietà per molte persone oggi – sono fuori portata. Questi fatti sociali non producono cittadini capaci di auto-governarsi, ma persone che sono dirette da una remota élite tecnocratica, come ha giustamente osservato Murray, la quale prende decisioni per delle masse che non conosce e verso le quali non nutre interesse.
Anche con la promessa del presidente Obama di “risollevare l’economia della classe media”, e le occasionali concessioni del partito repubblicano alla convinzione della distruttività sociale della disuguaglianza economica, entrambe le parti si aggrappano a diversi rami di ciò che Lasch ha chiamato l’ideologia del progresso, la redistribuzione a sinistra e la crescita economica a destra.
Di contrasto, la visione di Lasch della “bella vita” è veramente radicale eppure profondamente conservatrice; si rifà alle tradizioni, ormai in gran parte assopite nella vita americana, secondo le quali coloro lavoravano per costruirsi un reddito volevano costruire comunità locali, secondo le parole del leader laburista del XIX secolo Robert MacFarlane, basato sull’ideale americano ormai dimenticato della “proprietà piccola ma universale”, che era il “vero fondamento di una repubblica stabile”.
In altre parole, l’indipendenza radicata nella libertà e nell’uguaglianza. Questa ideologia produttivista, secondo Lasch, “merita più attenzione di quanta ne abbia mai ricevuta”, perché contiene le risposte alle domande che hanno sollevato critici come Charles Murray – e rivela che troppi libertari e conservatori sono dei confusi apologeti di un sistema che produce tutto ciò che loro disprezzato: autoritarismo, centralizzazione, dipendenza.
(da American Conservative – traduzione di Federico Bezzi)
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