La globalizzazione continua ad essere data per scontata e inevitabile, eppure il processo di de-globalizzazione è già iniziato e avanza, a partire dagli Stati Uniti e dalla stessa Europa, con un movimento di recupero della democrazia nazionale sulla “governance” in cui economia e finanza prevalgono sulla politica. Ne discute l’economista francese Jacques Sapir in un lungo articolo di cui pubblichiamo qui la prima parte. (Traduzione in collaborazione con Attivismo.info).
di Jacques Sapir, 20 febbraio 2019
Quando ho scritto il mio libro La Demondializzazione, pubblicato nel 2011 dalle edizioni Seuil, era già chiaramente possibile percepire i segni di una crisi della globalizzazione e persino l’inizio di un processo di de-globalizzazione. La conclusione minima che si può trarre dagli ultimi dieci anni è che questa mondializzazione, o globalizzazione, è andata molto male e che ha generato forze profonde e potenti di protesta. Oggi siamo in grado di vedere meglio ciò che era evidente sin dall’inizio: questo processo è in contraddizione con l’esistenza stessa della democrazia. Ciò che colpisce oggi è che queste patologie politiche hanno raggiunto un punto di rottura nel Paese che si è presentato come il cuore stesso del processo di globalizzazione, gli Stati Uniti
Considerando le questioni sociali, le questioni ecologiche o direttamente le questioni economiche, i segni di un esaurimento del processo, ma anche di una messa in discussione del processo stesso, si accumulano. Il ritorno in prima linea delle nazioni come attori politici era evidente [2]. Vari eventi, dal referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (il “Brexit”) all’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, comprese le reazioni ai tentativi degli stessi Stati Uniti di istituzionalizzare l’applicazione extraterritoriale del diritto USA e l’ascesa dell’euroscetticismo, che è oggi molto importante nei Paesi dell’Unione europea, valgono a confermare l’analisi.
Quindi oggi parliamo di rischi di guerra su scala globale. Ed è vero che le tensioni geopolitiche sono aumentate. Ma, bisogna sapere, “la globalizzazione” non ha mai interrotto le guerre. Negli ultimi anni, sia nei Balcani che in Africa o in Medio Oriente, la “globalizzazione” è stata accompagnata da conflitti violenti, alcuni che coinvolgono eserciti regolari e altri che coinvolgono le cosiddette forze “irregolari”. Alcuni di questi conflitti armati sono persino stati provocati, persino incoraggiati, dalla cosiddetta “globalizzazione”. Gli interessi delle grandi aziende e degli stati, la volontà in certi casi di assicurare un monopolio delle risorse (sul petrolio ma anche sulle terre rare [3]) per usare questo monopolio nel contesto di un mercato “globalizzato” hanno precipitato milioni e milioni di donne, uomini e bambini negli orrori delle guerre e delle guerre civili [4]. Il fatto che il commercio sia “globalizzato” induce un nuovo livello di concorrenza, ma implica anche nuove aspettative di profitto. Questi due elementi giocano spesso un ruolo decisivo nella decisione di entrare in conflitto armato o di provocarlo, sfruttando questa o quella rivendicazione. Già nel 2011 scrivevo che le navi mercantilie erano sempre precedute dalle navi da guerra. Niente di più vero.
Questo dovrebbe farci capire che stiamo vivendo un periodo pericoloso, perché all’ordine gelido della “Guerra Fredda” non è seguito alcun sistema stabile di organizzazione dei rapporti tra le nazioni. E se la “globalizzazione” ha potuto inizialmente beneficiare della fine della “guerra fredda”, della caduta del muro di Berlino e della dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’incapacità di alcuni di costruire una vera egemonia e la l’incapacità degli altri di mettere in atto strutture di coordinamento efficaci sta portando a un arretramento accelerato della cosiddetta “globalizzazione”. Gli eventi dal 2011 hanno quindi portato una sorta di conferma delle tesi del mio libro. Il processo di de-globalizzazione, i cui primi segni si potevano vedere già nel corso degli anni 2000, ha drammaticamente accelerato. Probabilmente è diventato irreversibile, almeno per il periodo storico nel quale siamo entrati.
Che cos’è la de-mondializzazione?
Ma cosa intendiamo oggi per “de-globalizzazione”? Alcuni confondono questo termine con un’interruzione volontaria o fortuita dei flussi commerciali che circolano in tutto il pianeta. Confondono quindi il protezionismo, che può essere ampiamente giustificato dalla teoria economica, con la pratica dell’autarchia che, molto spesso, è foriera di guerre. Si sbagliano anche sulla natura del legame tra la crescita del PIL su scala globale e il volume degli scambi. Ricordiamo qui che è la crescita del PIL che guida il commercio, non il commercio, che guida il PIL. Ma, soprattutto, dimenticano che questi scambi, scambi di merci e di servizi, ma anche scambi culturali o anche scambi finanziari, sono molto più antichi del fenomeno chiamato “mondializzazione” o “globalizzazione”. Perché la “mondializzazione”, per utilizzare solo questo termine, non si riduce all’esistenza di questi flussi di scambio.
Ciò che a suo tempo aveva fatto emergere il fenomeno della globalizzazione e l’aveva trasformato in un “fatto sociale” generalizzato era stato un doppio movimento. C’era stata la combinazione, e l’intreccio, di flussi di merci e di flussi finanziari, ma ANCHE lo sviluppo di una forma di governo (o di governance) in cui l’economia sembrava prevalere sulla politica, le imprese sugli Stati e le norme e le regole sulla politica. Tuttavia su questo punto non possiamo non notare un recupero da parte degli Stati di questi flussi, un ritorno vittorioso della politica. Questo movimento piuò essere definito come un ritorno della sovranità degli stati. Ora, la sovranità è indispensabile per la democrazia [5]. Abbiamo esempi di stati sovrani e non democratici, ma da nessuna parte esistono stati democratici ma non sovrani.
Questo recupero, e si tratta di un fatto nuovo rispetto all’inizio del 2010, è anche accompagnato da una sollevazione dei popoli contro gli effetti della “globalizzazione”. Questa insurrezione può assumere forme molto diverse. Di è manifestata essenzialmente a livello elettorale negli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump, o in Gran Bretagna e in Italia. Si gioca nelle strade, sulle rotatorie, in Francia, come abbiamo visto con il movimento dei Gilets Jaunes. Quello che è ricorrente in tutti i casi è la rivolta di un popolo impoverito dalla “globalizzazione” – fenomeno analizzato già più di dieci anni fa [6] – che si sente anche umiliato e spossessato della propria capacità di decidere sulla propria vita. È stato detto, e giustamente, che il movimento dei Gilets Jaunes è una rivolta della Francia di periferia, un concetto reso popolare da un geografo, Christophe Guilluy [7]. Ma, e questo dice molto sulla profondità di questo movimento, esso ha anche creato contatti con altre categorie sociali che, come questa Francia di periferia, soffrono per la globalizzazione. In Francia, è molto istruttivo vedere come le pretese dei Gilets Jaunes si sono evolute dalla rivolta antifiscale iniziale ad una messa in discussione dell’iniquità fiscale e della struttura economica che mantiene i salari e il reddito della maggioranza dei francesi a livelli troppo bassi e, infine, ad una messa in discussione del quadro politico, con la rivendicazione di una iniziativa referendaria dei cittadini e con la richiesta di dimissioni del Presidente della Repubblica.
Quindi, diciamo così, la de-mondializzazione sarà il grande ritorno della politica al di sopra della “tecnica”, delle decisioni politiche sull’automatismo delle norme. Ora, la “tecnica” è incarnata oggi principalmente nell’economia e nella finanza. La de-mondializzazione è quindi fondamentalmente il recupero della sovranità. Essere sovrani significa avere la capacità di decidere [8], concetto che Carl Schmitt esprime anche nella forma “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” [9]. Su questa questione della sovranità non bisogna esitare a confrontarsi, quindi leggendo Carl Schmitt [10] sperare di avere una intelligenza del futuro. Poiché la questione del rapporto tra decisione politica e regole e norme, e quindi la questione della delimitazione dello spazio governato dalla politica e quello governato dalla tecnica, è davvero costitutiva del dibattito sulla sovranità [11].
Non che i ragionamenti economici e finanziari debbano perdere ogni importanza. Sicuramente continueranno a dover essere presi in considerazione, e la questione del potere economico, come quella della sovranità monetaria, sarà chiaramente una parte importante del potere di uno stato. Non che non esistano spazi, nelle nostre società, governati dall’ordine tecnico o almeno spazi dominati da una legittimità tecnica. Ma queste dimensioni diventeranno seconde rispetto alla politica, che recupererà i suoi diritti. L’economia e la finanza diventeranno strumenti al servizio della politica. E con questo forte ritorno della dimensione politica, potremo avere anche il ritorno della democrazia, di un ordine che attinge la sua legittimità non dal mercato, ma dal popolo; che è messo al servizio degli interessi della gente e che si materializza nel potere delle persone. La frase pronunciata da Lincoln [12] nel suo famoso discorso di Gettysburg del 19 novembre 1863 per commemorare una delle più terribili battaglie della guerra civile americana [13], “Del popolo, per il popolo, dal popolo”, trova tutto il suo significato. La de-globalizzazione deve essere quindi intesa come il ritorno della sovranità, quella delle Nazioni, che è stata analizzata in un libro del 2008 [14], ma anche di una sovranità che in democrazia assume la forma di sovranità popolare. Certo, questo ritorno della sovranità non garantisce il ritorno della democrazia. Come abbiamo detto, ci sono stati sovrani che non sono democratici. Ma la sovranità permette la democrazia, perché bisogna ricordare che non può esistere un regime democratico che non sia sovrano e che non riconosca la sovranità del popolo. Ed è per questo che la de-globalizzazione deve essere considerata come una cosa positiva, perché implica la riaffermazione della sovranità, che rende possibile la democrazia e quindi determina il contesto delle future lotte politiche.
Note
[1] Page, B et Gilens, M, Democracy in America: What Has Gone Wrong and What Can be Done About It, Chicago, IL, University of Chicago Press, 2017; Domhoff, W, The Power Elite and the State, Londres, Routledge, 2017.
[2] J’en avais rendu compte dans Sapir J., Le Nouveau XXIè Siècle, le Seuil, Paris, 2008.
[3] Voir le cas de la guerre du Kivu, Autesserre S.,“Penser les Conflits Locaux: L’Echec de l’Intervention Internationale au Congo,” in L’Afrique des Grands Lacs : Annuaire 2007-2008, Paris: L’Harmattan, pp. 179 – 196, 2008.
[4] Voir par exemple Lavergne M., Darfour : impacts ethniques et territoriaux d’une guerre civile en Afrique, http://archive.wikiwix.com/cache/?url=http%3A%2F%2Fgeoconfluences.ens-lsh.fr%2Fdoc%2Fetpays%2FAfsubsah%2FAfsubsahScient4.htm%23popup1
[5] Sapir J., Souveraineté, Démocratie, Laïcité, Paris, Michalon, 2016.
[6] Voir Bivens J., “Globalization, American Wages, and Inequality” Economic Policy Institute Working Paper, Washington DC, Septembre 6, 2007 ; Irvin G., “Growing Inequality in the Neo-liberal Heartland,” in Post-Autistic Economics Review, 43 15 Septembre 2007.
2007), pp. 2–23, <http://www.paecon.net/PAEReview/issue43/Irwin43.htm>;
[7] Guilluy C., La France périphérique : Comment on a sacrifié les classes populaires, Paris, Flammarion, coll. Champs, 2015.
[8] Schmitt C., Légalité, Légitimité, traduit de l’allemand par W. Gueydan de Roussel, Librairie générale de Droit et Jurisprudence, Paris, 1936; édition allemande, 1932.
[9] Schmitt C., Théologie politique, Paris, Gallimard, 1988., p. 16.
[10] Balakrishnan G., The Ennemy: An intellectual portait of Carl Schmitt, Verso, 2002. Voir aussi Kervégan J-F, Que Faire de Carl Schmitt, Paris, Gallimard, coll. Tel Quel, 2011.
[11] Voir Sapir J., Les économistes contre la démocratie – Les économistes et la politique économique entre pouvoir, mondialisation et démocratie, Albin Michel, Paris, 2002.
[12] https://www.citation-du-jour.fr/citation-abraham-lincoln/democratie-gouvernement-peuple-peuple-peuple-13727.html
[13] Pour un commentaire sur ce discours et sa signification tant politique que symbolique, voir Perry R.B., « La Conscience américaine », in Revue de métaphysique et de morale, Société française de philosophie, vol. 29, no 4, 1922.
[14] Sapir J., Le Nouveau XXIè Siècle, op.cit..
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