Il Nobel per l’economia? Conformista e prevedibile. Ecco perché bisognerebbe abolirlo (forse)
di LINKIESTA (Andrea Fioravanti)
Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all’Università del Sannio spiega i retroscena e le critiche al premio economico più famoso al mondo nel suo libro “Il discorso del potere” (Il Saggiatore), in libreria dal 14 marzo. E ha previsto il nome del prossimo vincitore
Il premio Nobel per l’economia è come l’Oscar: tutti lo criticano ma ognuno sogna di vincerlo. Non esiste premio più controverso. L’economista più famoso del mondo, John Maynard Keynes non l’ha mai vinto, mentre un matematico come John Nash è riuscito ad aggiudicarselo nel 1994 per la sua “teoria dei giochi”. Può capitare che due avversari politici citino in un talk show economisti che l’hanno vinto per giustificare politiche economiche radicalmente opposte. Quasi tutti credono che vincere il premio Nobel dia il potere di cambiare il corso dell’economia, ma raramente queste teorie sono applicate dalla politica che le riscopre 15 o 20 anni dopo. E quando ogni autunno viene pubblicato il nome del vincitore sono in pochi a cercare le motivazioni della vittoria. Per questo Emiliano Brancaccio, professore di politica economica all’Università del Sannio, ha scritto in collaborazione con Giacomo Bracci il libro “Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica” (Il Saggiatore) in libreria dal 14 marzo. Brancaccio da molti anni è protagonista di confronti serrati con i principali esponenti della dottrina economica prevalente, dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard all’ex premier Mario Montii. Il suo obiettivo è far conoscere i retroscena, le critiche e il meccanismo del premio economico più famoso al mondo.
Brancaccio, partiamo dalla provocazione contenuta nelle prime pagine del suo libro. Bisognerebbe abolire il premio Nobel?
L’idea di abolirlo non è certo nostra. Fin dalle sue origini il premio ha attirato polemiche e contestazioni. Addirittura lo stesso Alfred Nobel non aveva previsto questo premio nel suo testamento. E infatti i suoi discendenti protestarono quando fu istituito nel 1969 per volere della Banca di Svezia. Da allora negli anni ci sono stati moltI appelli per abolirlo. Per esempio nel 1976 quando Milton Friedman ricevette l’onorificenza, l’Accademia svedese delle scienze fu accusata di aver premiato un simpatizzante della sanguinaria dittatura di Augusto Pinochet. Oppure nel 1992 quando il premio venne assegnato a Gary Becker, si disse che il Nobel per l’economia onorava un propugnatore di teorie sessiste e misogine. È capitato che gli stessi vincitori proponessero di abolirlo. Friedrich von Hayek: temeva che i vincitori sarebbero stati considerati dei “guru” infallibili e che avrebbero avuto il potere d’influenzare la politica economica di interi Paesi.
Aveva ragione?
No. Da individualista libertario, Hayek sopravvalutava l’importanza dei singoli. In realtà il corso della politica economica è il risultato di processi storici complessi, condizionati da conflitti tra grandi gruppi sociali contrapposti. Le idee dei singoli economisti, vincitori o meno di Nobel, possono influenzarlo ben poco. Addirittura Gunnar Myrdal che lo vinse lo stesso anno di Von Hayek, il 1974, reputava l’economia una “scienza molle”, cioè troppo condizionata dai giudizi di valore e dagli orientamenti politici. Secondo lui il Nobel per l’economia rovinava la reputazione degli altri premi assegnati alle scienze cosiddette “dure”, come la fisica e la chimica.
Sono in molti a pensare come Myrdal che l’economia non possa essere una scienza paragonabile alla fisica o alla chimica.
Non sono d’accordo. L’economia è una scienza a tutti gli effetti, e distinguerla dalle cosiddette scienze “dure” è più difficile di quanto si immagini, come spieghiamo nel libro. Anche la fisica è stata condizionata dall’influenza dei giudizi di valore e dagli interessi politici. Un esempio su tutti è il caso di Galileo, che fece abiura della teoria copernicana eliocentrica per evitare la condanna di eresia della Chiesa cattolica. Così come la biologia: per anni la teoria della razza superiore fu un caposaldo ideologico del nazismo, e qualunque critica a essa veniva considerata un attacco al potere costituito.
Però molto spesso le previsioni degli economisti sono sbagliate. Nessuno aveva previsto la crisi economica del 2008.
Non è vero. Magari sono meno noti di altri, ma ci sono economisti che hanno predetto una grande recessione. Per esempio in Italia Paolo Sylos Labini fece considerazioni illuminanti pochi anni prima della crisi. In realtà le previsioni economiche non sono molto peggiori di quelle di alcune scienze naturali. Spesso i geologi non sanno prevedere quando ci sarà un terremoto o i meteorologi sbagliano le previsioni del giorno successivo, ma li riteniamo giustamente degli scienziati. L’eccezione è un’altra. A differenza delle altre scienze, l’economia crea “il discorso del potere”, ossia il linguaggio attraverso cui si formano le decisioni politiche. Questo puo’ rendere la scienza economica influenzabile dagli assetti di potere vigenti e dai loro meccanismi di riproduzione.
Quindi il Nobel per l’economia subisce l’influenza dalla politica?
Le assegnazioni del premio Nobel sono state piuttosto conservatrici. Finora è stato quasi sempre premiato soltanto il “mainstream”, ossia la teoria dominante di ispirazione neoclassica. Pur con alcune varianti tutti i vincitori sono accomunati da un’idea di fondo: in un mondo del tutto ipotetico, in cui non esistessero imperfezioni o asimmetrie, il libero gioco delle forze spontanee del mercato capitalistico condurrebbe a un equilibrio “ottimale”, caratterizzato dalla piena occupazione dei lavoratori e dall’uso più efficiente possibile delle risorse disponibili. Loro stessi riconoscono che questa è solo un’idealizzazione che non ha riscontro nella realtà. Però quell’equilibrio ottimale ipotetico condiziona le loro ricerche e le loro ricette di policy.
Però anche Joseph Stiglitz e Paul Krugman hanno vinto il Nobel per l’economia. Non mi sembrano così legati al mainstream.
Vero, da tempo criticano il liberismo estremo e sono a favore di forme di intervento pubblico nell’economia. Però guardate quando e perché hanno ricevuto il premio Nobel e noterete che hanno vinto per i loro primi contributi teorici, alcuni dei quali molto ortodossi e spesso piuttosto ostili alle politiche progressiste. Per esempio, Stiglitz è stato premiato anche per avere elaborato negli anni Ottanta una interpretazione del mercato del lavoro secondo cui i sussidi ai disoccupati e le tutele per i lavoratori creano disoccupazione e crisi. E Krugman è stato premiato anche per un suo contributo degli anni Settanta, che “scagionava” gli speculatori da ogni responsabilità sulle crisi valutarie. Secondo la sua analisi gli speculatori sono solo il sintomo di una malattia causata da politiche errate, e per questo è stata accolta con grande favore a Wall Street. Oggi Stiglitz e Krugman hanno cambiato idea. Ma avrebbero vinto il Nobel se avessero portato avanti queste tesi fin dall’inizio delle loro carriere? Il dubbio ci pare lecito.
Lei sembra molto critico verso la teoria neoclassica dominante.
Non sempre. Alcuni contributi neoclassici hanno fatto avanzare la scienza economica nel suo complesso. Però per capire come funziona in generale il capitalismo contemporaneo serve un approccio alternativo. Alcuni la chiamano “teoria monetaria della produzione”, parte dalle opere di Marx, passa per le intuizioni di Keynes e i contributi di Piero Sraffa. Anche il premio Nobel Wassily Leontief rientra in questo paradigma alternativo. Però anche Leontief ottenne il Nobel solo dopo avere attenuato il potenziale sovversivo della sua teoria. Dichiarò persino un falso conclamato, e cioè che il suo approccio poteva esser considerato una mera variante della teoria neoclassica prevalente. Un’abiura che gli spianò la strada per il premio.
Facciamo un esempio concreto per capire la differenza tra le due teorie.
Prendiamo le politiche di flessibilità del mercato del lavoro, quelle che riducono le tutele contro i licenziamenti e la durata dei contratti, e che sono state portate avanti per molti anni un po’ in tutto il mondo, inclusa l’Italia. Secondo la teoria neoclassica, queste politiche liberano le forze spontanee del mercato e in tal modo dovrebbero determinare un aumento dell’occupazione. Il problema è che i dati non confermano questa tesi: l’hanno ammesso persino istituzioni da sempre favorevoli alla flessibilità, come la Banca Mondiale, l’Ocse e il Fondo monetario internazionale. Anzi i dati indicano che le politiche di flessibilità del lavoro riducono la quota di reddito che va ai salari. Non creano efficienza ma disuguaglianza. Questi risultati empirici contrastano la teoria neoclassica e sono invece pienamente compatibili con l’approccio alternativo
Ma allora perché si continua a dare il Nobel al paradigma neoclassico?
Perché la scienza economica è sensibile al potere costituito ed è difficile cambiare sistema. La storia della ricerca economica è segnata da veri confronti tra i diversi paradigmi scientifici solo quando ci sono stati grandi conflitti sociali e politici. Vanno di pari passo.
Siamo in una di queste fasi?
No. C’è grande contesa tra liberismo globalista e un sovranismo xenofobo. Ma è solo una disputa tra due forme diverse di conservatorismo. Siamo ancora lontani dalle grandi dispute fra paradigmi alternativi, come quelle degli anni Trenta o del secondo dopoguerra.
Se la teoria è sempre la stessa si può prevedere il vincitore del prossimo Nobel per l’economia?
Più o meno. Guardiamo gli indici bibliometrici, che pesano il valore di ciascuno studioso in base al numero di citazioni che i suoi studi hanno ricevuto dai suoi colleghi. Nel libro facciamo notare che questa sorta di “Nobelmetria” sembra in grado di prevedere i vincitori futuri del premio meglio di quanto riesca a fare riguardo ai Nobel delle altre scienze. Questoci fa capire che nella scienza economica c’è più conformismo: si premia solo chi ha già una posizione molto consolidata in accademia.
Facciamo un nome.
Nel libro riportiamo una celebre classifica di potenziali vincitori futuri calcolata in base a quella che definiamo “nobelmetria”. Tutti mainstream, ovviamente. Uno dei più papabili secondo me è Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale perché è una figura interessante. Pur restando nei confini della teoria dominante, ha ammesso che per fare evolvere la scienza economica bisogna guardare anche agli approcci concorrenti.
Dico io quello che non può dire lei. L’accademia è diventata così conformista da scoraggiare gli economisti a pensare fuori dagli schemi della teoria dominante?
Essere outsider in accademia e’ sempre stato difficile, in tutti i settori. Ma oggi l’ostracismo verso il pensiero economico critico puo’ esser considerato “scandaloso”. Lo ha detto Luigi Pasinetti, un grande studioso italiano. Nel libro ricordiamo che un altro premio Nobel, Jean Tirole, qualche anno fa tentò in gran segreto di persuadere la ministra francese dell’università a negare ogni legittimità alle scuole di pensiero economico alternative. Queste chiusure non aiutano la competizione tra paradigmi. Eppure, come ci ricorda Imre Lakatos, solo la competizione delle idee determina il progresso scientifico.
Quindi un economista molto citato dai nostri politici come John Maynard Keynes, ispiratore del moderno intervento pubblico nell’economia, oggi non vincerebbe il Nobel.
Probabilmente no. In realtà ha vinto la Medaglia Söderström nel 1939, l’onorificenza conferita dall’Accademia svedese prima che il premio Nobel venisse istituito. Ma erano altri tempi. Quell’epoca lo rendeva possibile perché c’era spazio per un pensiero critico dell’economia. C’era un grande scontro tra capitalismo e socialismo, e il pensiero di Keynes in un certo senso si proponeva come un complicato tentativo di sintesi tra le due opposte concezioni della vita sociale.
Parliamo dei vincitori del Nobel. Qual è stato il più immeritato?
Quello a Edward Prescott, del 2004, ha suscitato molte polemiche. Nel libro ricordiamo che dalle sue teorie si possono trarre tesi alquanto bizzare, come ad esempio quella secondo cui la Grande Depressione degli anni 30 non fu provocata da un crollo della domanda di merci ma semplicemente da un cambiamento tecnico che potrebbe avere indotto i lavoratori ad abbandonare le loro occupazioni in attesa di tempi migliori. La disoccupazione, in quest’ottica, viene vista come un fenomeno puramente volontario. Una teoria un po’ folle, che tuttavia negli anni passati ha avuto un notevole seguito, accademico e politico.
Anche Franco Modigliani, l’unico italiano ad averlo vinto, nel 1985?
Modigliani è stato un economista ambivalente. La sua “sintesi neoclassica”, ovvero l’interpretazione neoclassica della teoria keynesiana e ha rappresentato dal dopoguerra agli anni Sessante il mainstream teorico e politico. Anche lui però ha avuto luci e ombre. Criticò le dottrine liberiste e per questo fu un convinto sostenitore dell’uso delle politiche keynesiane di gestione della domanda per raggiungere la piena occupazione. Ma fu anche ostile alle rivendicazioni dei lavoratori. Secondo lui il sindacato doveva contenere le istanze sociali, per garantire una dinamica dei salari compatibile con le decisioni di politica monetaria della banca centrale. Una posizione teoricamente discutibile, che in ogni caso gli creò non pochi problemi negli anni caldi del conflitto sociale in Italia.
E cosa ne pensa dell’ultimo vincitore del Nobel: Paul Romer?
Nel libro parliamo anche di lui. Sul piano teorico, Romer ha fornito contributi interessanti in tema di rapporti tra cambiamento tecnologico e sviluppo economico. Ma le sue proposte politiche sono alquanto discutibili. Durante la crisi dell’eurozona, sostenne che l’unico modo per superare le inefficienze e sconfiggere la corruzione in Grecia fosse consegnare l’amministrazione dello Stato alla troika, ovvero gli emissari di Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione europea. Oppure qualche anno prima propose al Madagascar di vendere un intero pezzo dell’isola alla corporation sudcoreana Daewoo, per tentare di aumentare l’efficienza della produzione agricola. Qualcuno l’ha definita una forma raffinata di colonialismo. A riprova che dai Nobel per l’economia possono scaturire idee geniali e realmente innovative, ma anche ricette retrograde e piuttosto pericolose.
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