Lo strano caso dello spread dell’Italia, costretta ad indebitarsi in valuta estera
di SCENARI ECONOMICI (Antonio Maria Rinaldi e Fabio Dragoni)
Sono mesi che il circo mediatico di TV, giornali e social network assortiti mantiene ossessivamente viva l’attenzione dell’opinione pubblica sul rendimento dei nostri BTP decennali e sulla sua differenza rispetto agli omologhi Bund tedeschi; il famigerato spread. Quanto più questo è alto tanto più “sarebbe” critica la nostra situazione. Lo spread misurerebbe la credibilità. Tanto più questa è bassa tanti più sarebbero gli interessi pagati sui titoli di stato. Il debito cresce e servirebbe nuova austerità per abbattere il debito, recuperare la perduta credibilità e far diminuire il rendimento dei BTP. Ma è veramente così? Uno sguardo ai titoli di stato decennali di altri paesi, come USA o Giappone, ci aiuta a capire meglio.
USA: il rendimento dei Treasury americani a dieci anni si attesta attorno al 2,6%. Addirittura superiore al 2,5% pagato dai nostri BTP. Ma come è mai possibile se Washington ha un rating AA+ contro la nostro BBB? Secondo Standard and Poors gli USA meritano cioè un bel 9 e 1/2 contro il nostro striminzito 6. E quindi perché pagano un tasso addirittura superiore rispetto al nostro? Oltretutto hanno un rapporto debito/PIL del 105% circa e quindi inferiore al nostro vituperato 130%. Sono inoltre 101 mesi consecutivi che negli USA i posti di lavoro crescono. La più lunga serie storica nell’economia americana visto che supera di oltre il doppio il quadriennio 1986-1990 quando la serie ininterrotta di mesi con crescita degli occupati si era fermata a 48. Infine ancora 5 mesi di crescita del PIL e l’economia statunitense compirà il record storico 121 mesi di sviluppo economico ininterrotto. Non siamo quindi di fronte ad un Paese in crisi economica e di credibilità ma rimane da spiegare perché Washington paghi a dieci anni un tasso superiore a quello italiano.
Giappone: cosa dovremmo aspettarci da un Paese il cui rapporto debito pubblico / PIL supera il 250%? Cavallette e peste bubbonica verrebbe da dire visto che quasi doppia il nostro 130%. Così non la pensano ad esempio gli analisti di S&P che danno al Giappone addirittura la tripla A. Vabbè direte voi: i mercati esigeranno comunque rendimenti elevato visto il debito pubblico così alto. Ma nemmeno questo è vero dal momento che i rendimenti dei titoli di stato giapponesi a 10 anni sono addirittura di pochissimo inferiore allo zero. Del resto il Giappone è un Paese con quasi 130 milioni di abitanti (più del doppio dell’Italia) ed un numero disoccupati pari a circa 1,7 milioni contro in nostri 2,7 milioni.
La retorica del debito pubblico e dello spread fa acqua da tutte le parti. Giappone e Stati Uniti sono due paesi aventi sovranità monetaria che non sono minimamente preoccupati –il primo- dell’entità del proprio debito ed il secondo del relativo costo. Del resto i primi a riconoscere che la mancanza di sovranità monetaria possa recare un pregiudizio sono le stesse agenzie di rating, come del resto afferma testualmente Standard and Poors nella descrizione della metodologia adottata per esprimere il giudizio di affidabilità sui debiti sovrani: “I rating dei debiti sovrani emessi in valuta locale tendono ad essere più alti dei debiti in valuta estera perché nel primo caso la solvibilità del debito emesso in valuta locale può essere supportata da una serie di poteri unici di cui dispongono gli Stati all’interno dei loro confini, compreso il potere di emissione della valuta locale”. Trascurando la circostanza che molti politici di opposizione ritengono i confini un retaggio del passato e quindi sopprimibile, la criticità evidenziata da S&P finisce per motivare la sua stessa più recente conferma del rating all’Italia: “Il rating è condizionato dalla limitata flessibilità monetaria italiana. In detto contesto ravvisiamo una minore flessibilità fiscale rispetto a paesi più ricchi e dinamici dl G7 quali Canada, Giappone, Regno Unito e US”. Guarda caso i quattro Paesi che a differenza di Italia, Germania e Francia hanno conservato il potere di coniare moneta senza privarsene per concederlo ad una banca centrale straniera senza stato. La BCE appunto.
E’ la conferma di una criticità che ritorna ciclicamente a galla. I Paesi che emettono la loro valuta sono sostanzialmente diversi dalle imprese, famiglie ed enti locali presenti dentro i loro confini. Questi ultimi devono guadagnarsi la valuta che a loro serve o prenderla a prestito prima di spenderla. Lo Stato sovrano no. Potendo creare moneta dal nulla, se decide di indebitarsi lo fa esclusivamente per governare ed indirizzare l’intera struttura dei tassi di interesse cui dovranno uniformarsi tutti gli altri operatori: banche, famiglie ed imprese appunto. Ecco perché a 10 anno gli Stati Uniti pagano il 2,6% ed il Giappone il -0,04%. Due politiche monetarie di segno opposto: più restrittiva la prima ed espansiva la seconda. Non è il caso dei paesi dell’eurozona -come ad esempio il nostro- che decidono di indebitarsi in euro (che altro non è che un marco tedesco travestito tanto che Berlino in questo momento a 10 anni paga lo 0%) così riducendosi al rango di tutti gli altri soggetti utilizzatori di moneta (famiglie ed imprese) ed anzi in concorrenza con questi pur di accaparrarsi la valuta che non possono più coniare.
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