Dirsi socialisti oggi? Parliamo di democrazia economica e autogestione
di LA FIONDA (Jacopo Foggi)
Lasciamo un attimo le miserie del nostro presente e proviamo a riprendere il filo delle grandi questioni di fondo. Visto che negli ultimi anni si è più o meno ricominciato a parlare con una certa forza di socialismo e neosocialismo, e visto che, contrariamente a quanto pensano i nostri battaglieri anti-sovranisti, vi sono innumerevoli persone dall’indiscutibile profilo democratico che si riconoscono apertamente anche in principî schiettamente “comunisti”, vorrei azzardarmi a gettare alcuni sguardi che esplicitino e chiariscano aspetti e concezioni provenienti da queste tradizioni nei quali possano riconoscersi anche i moderni socialdemocratici, e che mi sembrano più utili ad orientare una politica ispirata a tali concetti – per altri e molti ovvi aspetti ormai irrimediabilmente compromessi e irricevibili. Qui cercherò di restare su un piano ancora generale e limitato ad alcuni principi economici, data l’impossibilità di presentare compiutamente e in poche pagine tra i concetti più discussi e dibattuti degli ultimi due secoli.
La ripresa di un’idea di comunismo e socialismo che sia capace di integrare in sé anche i valori democratici fondamentali della nostra tradizione europea (dall’Habeas Corpus alla divisione dei poteri e alle libertà di movimento, associazione, parola, espressione, religione, ecc.), cioè che non corra il rischio di ammiccare e prestare il fianco a forme sempre latenti di negazione del pluralismo, deve a mio avviso basarsi in particolare sui concetti di democrazia radicale, e di democrazia economica. Dopotutto, elemento cruciale di tutta la tradizione delle rivendicazioni comuniste millenaristiche proto-moderne (da Moore e Campanella agli Zappatori), e di quelle socialiste, tanto pre-marxiste (da Owen e Fourier a Proudhon)[i] quanto, ovviamente, marxiste, è sempre stato il fatto di dare un ruolo di primo piano alla forma dei rapporti economici di produzione, e alla messa in discussione radicale specificamente degli iniqui assetti di produzione e distribuzione dei frutti della terra e in generale del lavoro: l’ambito economico o, per meglio dire, del potere nell’economia, ha cioè costituito sempre un aspetto dirimente della lotta politica dei movimenti che immaginavano la ristrutturazione della società e dell’economia in funzione «dell’interesse collettivo dei molti contro i privilegi dei pochi». Per questa ragione si può dire che il concetto di democrazia economica, democrazia delle persone in quanto lavoratori e fruitori dei frutti del proprio lavoro in senso lato, non può non rivestire una posizione centrale in qualunque prospettiva che si rifaccia alle tradizioni socialiste e comuniste.
L’idea di comunismo che mi pare assumere un valore orientativo generale, capace di resistere al trascorrere dei secoli, può essere così definita:
Dal momento che tutte le persone sono moralmente uguali, tutte hanno in linea di principio lo stesso uguale diritto di godere dei frutti della cooperazione sociale complessiva e di prendere parte a tale sistema di cooperazione.
L’ideale comunista come valore orientativo potrebbe essere così riassunto in tale principio di inclusione ed uguale potere e responsabilità nella produzione, prima, e di accesso ai beni, poi. Di conseguenza, la democrazia economica verrebbe intesa nel senso del pari diritto sia a prendere parte alla produzione sociale, e quindi alla determinazione della forma di tale sistema di cooperazione – quindi distribuzione del potere decisionale nei vari ambienti di lavoro e nella vita sociale – sia a godere e accedere ai frutti che da essa derivano. L’idea del comunismo trova così concretizzazione nella rivendicazione di democrazia economica intesa sia come distribuzione del potere decisionale e della responsabilità produttiva – quindi uguaglianza economico-politica a monte –, sia, al contempo, come distribuzione e redistribuzione dei redditi – cioè come redistribuzione dei beni economici e sociali a valle.
L’idea di socialismo possiamo invece intenderla come maggiormente programmatica, e riguarda in misura maggiore il primo aspetto, quello della determinazione della produzione e dello sviluppo sociale. Secondo lo storico Bruno Bongiovanni[ii], il socialismo si è storicamente posto il problema di come la società possa diventare in grado di autodeterminare la direzione del proprio sviluppo, mirando ad assoggettarlo a finalità e modi giustificabili per quanto possibile anticipatamente. Da un lato – come sostiene anche Axel Honneth[iii] – l’idea del socialismo si sovrappone in larga parte a quella di solidarietà come consapevole azione di cooperazione sociale, di sostegno reciproco alle condizioni di autodeterminazione individuale e collettiva, e come promozione e tutela della dimensione sociale dei soggetti, del “mondo della vita” comunitario – un aspetto ripreso da Durkheim nel suo studio sul socialismo come fronte contrapposto agli effetti disgregatori dello sviluppo industriale e della crescita capitalistica. Dall’altro lato, ma come sviluppo di tale concezione cooperativo-solidale, l’idea di socialismo fa propria, già da Saint-Simon, anche quella del “piano” e della programmazione sociale, cioè relativa a come la società e i suoi soggetti componenti, consapevoli e formati, possano sfidare le tendenze anomiche e predatorie per concepirsi come autori della società e della storia, e quindi determinare in maniera il più consapevole possibile quantomeno l’orientamento generale del processo sociale in vista dello sviluppo umano complessivo.
È circolata recentemente una frase addirittura di Bettino Craxi, non certo un esempio di rigore vetero-comunista – e sarebbe meglio, ma scontato, citare molti altri esponenti italiani, da Silvio Leonardi a Riccardo Lombardi a Giorgio Ruffolo[iv] –, che riassume bene il punto di vista socialista nel quale si integrano i due aspetti che abbiamo visto: «Il socialismo [è cercare] di sottoporre il processo produttivo e distributivo ad un’istanza diversa da quella del profitto e dell’interesse individuale, ad un’istanza cioè etico-politica»[v]. Quindi, se l’idea di comunismo riprende un’aspirazione per certi versi arcaica e mitologica, anche nel senso migliore del termine, cioè di un’ideale profondo e sempre presente di giustizia ed eguaglianza fra gli uomini e di palingenesi dei rapporti sociali in forma comunitaria, il socialismo si presenta come una sua declinazione in chiave moderna e modernista, in cui le condizioni della riproduzione sociale degli uomini diventano sempre più trasparenti e suscettibili di essere orientate allo sviluppo e alle libertà individuali e collettive dell’umanità, nonché, appunto, all’emancipazione intesa come autodeterminazione, come progressivo svincolamento dall’arbitrio e dalla lotteria naturale e sociale.
Per molti motivi sia concettuali che storici, socialismo e comunismo hanno poi finito per convergere in un’idea di statalizzazione forzata guidata da un’élite di illuminati che seguiva il “necessario” corso della Storia verso l’emancipazione: la parità di tutti nella produzione e nella distribuzione dei redditi, insieme alla direzione consapevole e deliberata della produzione e degli investimenti. Sappiamo ormai tutti però come tale traiettoria abbia finito, con gli esperimenti di pianificazione socialista del Novecento, per avere ben poco di effettiva democrazia: la direzione della produzione era riservata a pochissimi alti dirigenti responsabili del Gosplan, e alle cariche politiche elevate erano riservati privilegi e distribuzioni dei redditi del tutto spropositati rispetto ai comuni cittadini-lavoratori; mentre l’aspetto della democrazia intesa come diritto alla libera espressione, per quanto associativa, dell’individuo veniva del tutto negata – l’uguaglianza di potere nel determinare le sorti sociali era così completamente disattesa.
Venendo all’oggi, dunque, un progetto contemporaneo di democrazia economica socialista non può, a mio avviso, rinunciare ad affermare e rivendicare due elementi: 1) la più ampia possibile partecipazione dei lavoratori, prima di tutto, ma poi anche dei cittadini, alle decisioni su cosa, come e quanto produrre; 2) La redistribuzione a valle dei mezzi materiali per uguali opportunità, e la destituzione dei privilegi accumulati, mediante le classiche politiche di tassazione progressiva, di welfare e servizi pubblici universali.
Dal primo punto conseguono rivendicazioni più specifiche di robuste politiche di sostegno alle forme più inclusive e partecipative di gestione dei lavoratori nelle decisioni aziendali e nelle quote di partecipazione (dalle rappresentanze sindacali nei consigli di amministrazione alla creazione di Fondi dei lavoratori sulla linea del Piano Rehn-Meidner della Svezia degli anni ‘70); di sostegno alla creazione di imprese democratiche e cooperative e a processi di workers buyout (imprese recuperate) mediante prestiti agevolati o dotazioni universali di capitale, anche per quote di proprietà parziali o crescenti nel tempo; oltre, ovviamente, a robuste politiche di piena occupazione e di aumento del potere contrattuale dei lavoratori (occupazioni pubbliche di prima e di ultima istanza). A livello statuale maggiore democrazia economica implicherebbe la ri-socializzazione delle banche centrali e di dare ruoli più importanti alle forme di bilancio partecipativo; e lunghi discorsi si potrebbero fare ovviamente per la democratizzazione della finanza in generale.
Il secondo punto riprende il più tradizionale ruolo redistributivo dello Stato: welfare, servizi universali, redistribuzione e aumento della progressività fiscale, imposte patrimoniali, tasse di successioni e, di nuovo, dotazioni di capitale finanziario per i maggiorenni e similari[vi].
La prospettiva politica generale sarebbe quindi quella che nel solco di un’autorevole tradizione è stata definita come socialismo autogestionario, coadiuvato da politiche statali di abolizione dei privilegi ereditati e di posizioni di rendita, di servizi e di pari opportunità. Due elementi che dovrebbero essere costituiti in modo da rinforzarsi a vicenda: negli ultimi trenta-quarant’anni abbiamo visto che senza democrazia industriale il welfare trova sempre meno forza per imporsi, facendosi sempre più residuale e caritatevole, ma senza welfare e tassazione progressiva la prima può certo non essere sufficiente a conseguire un’effettiva democrazia economica.
Dopodiché un elemento di grandissima rilevanza è ovviamente rappresentato da quali dimensioni si ipotizza sia necessario, inevitabile, auspicabile o accettabile, lasciare all’ordinamento dei meccanismi del mercato e delle aziende private orientate al profitto. Non è certo qui il caso di ripercorrere discussioni di tale portata, occorre però segnalare l’urgenza di riprendere una discussione di rilievo sui vari approcci di socialismo di mercato[vii]. Nell’ottica di una radicale democratizzazione delle organizzazioni produttive, private e pubbliche, si tratterebbe di rimodulare numerosi aspetti tanto del mercato quanto dello Stato, per cui è impossibile stabilire a priori i rapporti di proporzione tra settore privato e pubblico: si potrebbe infatti pensare che con le opportune forme istituzionali di partecipazione dei cittadini, di cooperative di utenti, di lavoro, di comunità e di servizi, ecc., sia possibile concedere ad alcuni servizi anche maggiori aspetti di privatezza, oppure di avere maggiori margini di autonomia gestionale pur rimanendo di diritto pubblico e di stretta responsabilità sociale[viii]; così come che l’orientamento al profitto venga ridimensionato pur mantenendo statuto privato, attraverso forme di compartecipazione oppure sotto forma di cooperative con o senza partecipazioni pubbliche o di enti locali. È possibile che il classico orientamento delle imprese private orientate al profitto debba diventare nel complesso relativamente marginale, nell’ordine del 20-30% del Pil, magari concentrato maggiormente nel settore orientato alle esportazioni.
Da questo punto di vista l’obiettivo prioritario non dovrebbe essere quindi semplicemente quello di pensare o auspicare una supposta abolizione integrale della proprietà privata del capitale, quanto piuttosto quello di minimizzare l’orientamento privatistico, estrattivo e competitivo di tali attività, ampliando il coinvolgimento dei soggetti interessati alle produzioni, esplorando molteplici forme di comproprietà e cogestione – per dirla con Polanyi, aumentando e ufficializzando l’incardinamento dell’attività economica all’interno del tessuto sociale.
Arriviamo così a un punto che ritengo debba essere oggetto di maggiori riflessioni. Il concetto economico di “esternalità” ci aiuta a comprendere il legame stretto tra democrazia economica e responsabilità sociale e ambientale d’impresa. L’obiettivo generale della democrazia economica può a mio avviso essere concepito come la riduzione ed eliminazione dei cosiddetti effetti esterni. In imprese democratiche e partecipate, quel contesto sociale e ambientale esterno alla transazione sul quale vengono riversate le conseguenze non calcolate degli scambi – non venendo preso in considerazione nel valutare le implicazioni e gli effetti secondari di transazioni o strategie produttive –, verrebbe di fatto ricollocato all’interno della transazione mediante i suoi rappresentanti – innanzitutto a partire dai lavoratori stessi che sono anche cittadini (residenti di zone sacrificate o genitori con difficoltà a conciliare lavoro e famiglia). La transazione o la strategia economica non riguarderebbe quindi più solo i due attori che scambiano, indifferenti al contesto, ma andrebbe a coinvolgere una molteplicità di attori: non sarebbe uno scambio competitivo tra venditore e acquirente ma di fatto una sorta di collaborazione tra decine di persone capaci di far valere il fatto di potersi immedesimare nelle posizioni di lavoratori, cittadini e consumatori. In un’ottica democratica e partecipativa le cosiddette esternalità verrebbero limitate quasi per definizione, in quanto ad essere coinvolti in ogni transazione sarebbero i soggetti nella loro interezza più i rappresentanti del mondo sociale circostante: nella realtà sociale complessiva, dopotutto, non esistono soggetti e spazi esterni sui quali scaricare i costi sociali e ambientali, e ciò dovrebbe costituire il criterio generale per una direzione riformatrice partecipativa dell’economia, in cui in ogni produzione sono inseriti i molteplici stakeholder presenti in una società, così che ogni impatto transattivo può essere di fatto “tenuto in conto”, diventando vittime e beneficiari parte interna alle transazioni e alle decisioni d’impresa.
In questo senso lo Stato più che passare dall’essere il gestore diretto e pianificatore all’essere un ente regolatore esterno – compiendo il passaggio celebrato dai neoliberali da gestore monopolista a mero regolatore giuridico esterno – si presenterebbe soprattutto come Stato stratega e come Stato coordinatore. Cosa che implicherebbe il mantenimento di un ruolo rilevante in settori e aziende chiave per l’orientamento del modello di sviluppo, anch’esse ovviamente da pensare come governate in modo realmente democratico e multi-stakeholder. Il carattere eminentemente regolativo e normativo dello Stato rimane in ogni caso centrale proprio in vista della riduzione delle esternalità. Ma il modo migliore perché si possa pensare che le aziende private e pubbliche si adeguino di buon grado al rispetto di vincoli ambientali e di benessere sociale non può che essere quello di coinvolgere nelle decisioni aziendali le potenziali vittime delle prassi insalubri, prima di tutto i lavoratori e consumatori. Si tratterebbe quindi certo di imporre regole, ma anche di avere produttori-lavoratori che siano direttamente interessati a garantirne il rispetto essendone i diretti beneficiari, e capaci di portarle nelle fasi decisionali. A questo riguardo sarebbe di grande interesse verificare empiricamente quante sono in proporzione le cooperative di lavoratori e di utenti che producono beni e servizi ritenuti diffusamente inutili, dannosi, immorali, insalubri, superflui ecc., perché la mia impressione è che lo siano di meno di altre forme di attività, dato che imprese democratiche devono inevitabilmente fare maggiore appello alle motivazioni intrinseche di chi vi lavora e alla sensatezza delle attività che si svolgono. La prospettiva di una riforma economica in senso democratico-socialista, insomma, dovrebbe a mio avviso fondarsi sull’idea della responsabilità e corresponsabilità sociale dei produttori/lavoratori e fruitori di beni e servizi. La partecipazione della soggettività del lavoro avrebbe in questo senso conseguenze dirette su un forte incremento delle opportunità di un’economia ecologicamente sostenibile.
Nel caso delle esternalità ambientali la questione appare in tutta la sua evidenza, e in maniera particolare nei casi delle grandi industrie chiave, cosa di cui abbiamo un esempio chiaro ed eclatante dell’acciaieria Ilva di Taranto. Pare difficile pensare che un’azienda di tale tipo e dimensione non debba necessariamente prevedere partecipazioni azionarie e organi decisionali composti da una molteplicità di stakeholder locali e nazionali di tipo non economico; e magari che, tra questi, in particolare quelli locali abbiano poteri di veto su diverse questioni di maggiore rilievo territoriale dal momento che ne subiscono più direttamente le esternalità negative. L’amministrazione locale di insediamento e i comuni limitrofi, le associazioni sindacali, quelle ambientali e sanitarie, oltre ai rappresentanti imprenditoriali della filiera e, ovviamente, del Ministero sia dell’economia che dello sviluppo economico, e magari anche dell’ambiente, dovrebbero tutti avere voce in capitolo e la possibilità di orientare la strategia aziendale ad un accordo di interesse nazionale che preveda la convergenza di numerose istanze, economico-produttive, lavorative, ambientali e di salute. Mi risulta veramente difficile pensare che processi decisionali in seno a un tale aggregato di molteplici interessi sociali non sarebbero riusciti a trovare negli anni accordi ben più rapidi e ben più costruttivi, anche a livello finanziario, rispetto ai decenni persi senza alcun risultato positivo.
Per concludere, se vogliamo dare un contenuto un minimo definito a espressioni valoriali che si dichiarano comuniste e socialiste, adatte ai nostri tempi, occorre rivendicare esplicitamente obiettivi di democrazia economica, d’impresa e di welfare, e delineare gli strumenti programmatici più adeguati. Per conquistare diritti di definire in modo democratico e socialmente utile cosa, come e quanto produrre, occorre non limitarsi a pretendere nazionalizzazioni e statalizzazioni su vasta scala – queste sono risorse strumentali, utili e legittime nella misura in cui alimentano la partecipazione democratica e l’autocoscienza politico-economica, non certo in quanto rappresentano l’incarnazione finale del socialismo. Occorre collocarsi nella tradizione del socialismo autogestionario di riforma del mercato, per esplorare nuove forme di proprietà, sfruttare le potenzialità delle forme aziendali cooperative e democratiche – anche nei settori della gestione dei big data e delle piattaforme digitali – e incrementare la partecipazione e le occasioni di equità e di responsabilità sociale d’impresa. Ma non posso che lasciare ad altri l’immenso e ingrato compito collettivo di progettare gli strumenti di partecipazione e riappropriazione nell’epoca delle catene globali del valore, della competizione fiscale transnazionale e dell’economia degli algoritmi, ostacoli decisivi alla socializzazione dell’economia. Ciò che conta è porsi nuovamente l’obiettivo esplicito di rivendicare il diritto ad avere il potere di gestire il processo lavorativo; di avere titolo a decidere cosa, come, per chi e quanto produrre; di appropriarsi del controllo sul processo di produzione.
[i] Giorgio Spini, Le origini del socialismo. Da Utopia alla bandiera rossa, Einaudi 1992.
[ii] B. Bongiovanni, Postfazione, pp. 118-23, in K. Marx ed F. Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi 1998, pp. 115-220.
[iii] A. Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, 2016.
[iv] S. Leonardi, Democrazia di piano, Einaudi 1966; G. Ruffolo, Rapporto sulla programmazione, Laterza 1973, e La qualità sociale, Laterza 1986; R. Lombardi, L’alternativa socialista, Lerici 1976.
[v] In Il vangelo socialista, Licosia, 2016. La citazione di Craxi ha la funzione provocatoria di mostrare quanto alcuni concetti fossero imprescindibili in una formazione politica di orientamento socialista, sebbene anche solo a parole.
[vi] Un’ottima elaborazione programmatica di molte di queste proposte è quella del «Forum Disuguaglianze e diversità», 15 proposte per la giustizia sociale, ispirate dal programma di azione di Anthony Atkinson, Il Mulino, 2020.
[vii] Si può vedere la ripresa della discussione nel recente volume di Geoffrey Hodgson, Is Socialism Feasible?: Towards an Alternative Future, Edward Elgar, 2019.
[viii] P.A. Mori e J. Sforzi, Imprese di comunità. Innovazione istituzionale, partecipazione e sviluppo locale, il Mulino, 2019; L. Sacconi e S. Ottone (a cura di), Beni comuni e cooperazione, il Mulino 2015.
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