Nel pieno dell’emergenza sanitaria e delle sue terribili conseguenze socioeconomiche, di pensioni, negli ultimi mesi, si era stranamente parlato poco. A occuparsene, in maniera non rassicurante, erano rimaste solo le istituzioni europee, subordinando ad un loro taglio la scialuppa di salvataggio che dovrebbe salvare le economie dei paesi membri. A parte questo, uno dei temi sociali più martellati dal legislatore negli ultimi trent’anni era finito per un po’ in soffitta. Eppure, il tempo scorre anche per il sistema previdenziale e tornano gli spettri del recente passato.
Il triennio sperimentale della cosiddetta “quota 100” volge ormai al termine e l’ultimo anno in cui sarà possibile beneficiarne sarà il 2021. Dal 2022 si torna ai fasti del precedente status quo, fissato in via definitiva dalle Leggi Sacconi-Tremonti e poi dalla Legge Fornero nel 2011: si potrà così andare in pensione di vecchiaia a 67 anni, con almeno 20 anni di contributi, oppure usufruire della pensione anticipata con 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Requisiti che sono soggetti, come noto, al continuo adeguamento sulla base della speranza di vita e che, al momento, resteranno validi fino al 31 dicembre 2022.
Si sgretola così il castello di sabbia della “riforma” pensionistica del governo penta-leghista che aveva previsto, proprio per il suo tassello più importante, una durata a tempo determinato, dimostrando così l’inconsistenza di una riforma già debole e parziale nei suoi contenuti.
In assenza di misure correttive, dal 1° gennaio 2022 anche chi ha raggiunto i fatidici 62 anni di età e 38 anni di contributi sarebbe costretto ad attendere altri cinque anni per poter aspirare all’agognato riposo. Un terribile scalone sopra le teste di centinaia di migliaia di lavoratori.
Il governo attuale, dai primi mesi della nuova legislatura, specie tramite dichiarazioni del Ministro dell’Economia, aveva lasciato intendere più volte che quota 100 non sarebbe stata rinnovata, tacciandola di misura iniqua e finanziariamente insostenibile e rispolverando i peggiori luoghi comuni sul presunto conflitto intergenerazionale che la misura generava tra giovani e vecchi, penalizzando i primi a beneficio dei secondi. Dentro e fuori dall’ambiente governativo, nella cerchia dei più fanatici sostenitori del rigore finanziario e della compressione dello stato sociale, negli ultimi due anni si è scatenata una vera caccia alle streghe contro quota 100, diventata all’improvviso la fonte di tutti mali.
Si è distinto di recente per lucida volgarità argomentativa un editoriale de “Il Foglio” a cura del direttore Claudio Cerasa, puntualmente rilanciato dal solito Marattin di Italia Viva. Secondo Cerasa, il pensionamento anticipato di personale sanitario e scolastico avrebbe comportato una grave carenza di organico che, al momento dello scoppio della crisi sanitaria da Covid-19, si sarebbe poi manifestata in tutta la sua drammaticità. Insomma, decenni di assunzioni bloccate nella scuola e nella sanità, decine di migliaia di giovani in attesa di inserimento dopo le scuole di specializzazione in medicina o dopo i concorsi di abilitazione per l’insegnamento costretti a lunghi periodi di precariato, circa 10.000 laureati in medicina che non avranno una borsa di specializzazione e non potranno andare nei reparti, una classe medica sempre più anziana (come certificato – pagina 27 – dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio), e, quindi, sempre più a rischio nella battaglia contro il virus, d’un tratto scompaiono dalla realtà e il problema di un organico ridotto all’osso diventa il pensionamento anticipato di qualche migliaio di medici e insegnanti. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.
Sulla stessa linea Davide Faraone, Presidente dei senatori di Italia Viva, che così argomenta:
“La doppia fregatura. Anzi il doppio pacco che ci ha lasciato il governo gialloverde. Che oggi, alla luce dell’emergenza Covid-19, non solo è una beffa, è soprattutto la dimostrazione che il populismo non fa bene alla salute. I dati sono pubblici e fanno male. E sono dell’Inps. Parlo di Quota 100. Bene, con questa misura costosissima che ha ipotecato il futuro delle nuove generazioni, sono andati in prepensionamento 7.225 dipendenti del sistema sanitario nazionale. Morale della favola, in un momento così drammatico, con una carenza di personale sanitario di migliaia e migliaia di donne e uomini, abbiamo 7 mila sanitari in meno. In più, se fossero rimasti al lavoro quei soldi sarebbero potuti servire per assumere giovani medici, giovani infermieri, più operatori per le ambulanze… insomma, più sicurezza sanitaria per i cittadini. E invece no. Il populismo ha fatto un altro danno. E questa volta è davvero un danno grave“.
In poche righe esce fuori tutta la miseria delle argomentazioni liberiste, nelle quali al mito della scarsità delle risorse – in un paese con il 10% ufficiale di disoccupati e centinaia di migliaia di sottoccupati e occupati precari – si unisce il mito del fardello della spesa pensionistica che ricadrebbe sulle giovani generazioni.
Così la crociata liberista contro quota 100 continua! Una battaglia tutta ideologica, a ben vedere, data la natura in verità sbiadita e temporanea della misura, finalizzata a preparare il terreno culturale e politico per richiudere quanto prima il dibattito pensionistico sui binari dell’ineluttabilità delle riforme restrittive scolpite nella pietra e che nessuno deve osare discutere. Nel contempo, tuttavia, il governo si è dovuto in qualche modo confrontare con il rischio sociale (e di tenuta di un consenso già molto fragile), rappresentato dalla brutalità dello scalone determinato dalla fine della misura, denunciato a più riprese anche dai sindacati confederali.
Nella Nadef viene così abbozzata una misura che è un pannicello caldo, quota 102. Si tratterebbe di una replica di quota 100 spostata però due anni in avanti per quanto riguarda il requisito anagrafico che da 62 viene elevato a 64. Resterebbero i 38 anni di contribuzione minima. Non è dato sapere al momento se la misura sia pensata come strutturale o nuovamente come palliativo a tempo determinato. C’è però già qualche voce tristemente nota per i lavoratori e i pensionati che mette le mani avanti auspicando un provvedimento temporaneo. Si parla poi della possibile estensione del pensionamento con 41 anni di contribuzione, oggi limitato ai lavoratori precoci che rispettino determinati requisiti, anche ai cosiddetti «lavoratori fragili», identificatiin alcune categorie di persone malate, o che non possono prestare attività lavorativa perché giudicati inidonei al lavoro o che siano stati licenziati per superamento del periodo di comporto (6 mesi), e coloro che sono impegnati in settori con un più alto rischio di contagio come la sanità e i trasporti.Una misura, insomma, non universale, ma selezionata per categorie specifiche.
L’impressione è che il governo propenda ancora una volta per misure tampone. La predilezione per questo tipo di misure, va sottolineato, non è un semplice capriccio della nostra classe politica, ma la conseguenza di scelte deliberate. Le sue cause vanno ricercate in un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, vi è l’obbligo di rispettare gli stringenti vincoli alla spesa pubblica dettati dai Trattati europei: ciò impedisce di pensare a forme di pensionamento “anticipato” strutturali. In secondo luogo, manca la volontà politica di accorciare la vita lavorativa, perché una tale scelta, garantendo reddito negli anni più avanzati dell’esistenza di una persona, significherebbe fondamentalmente stimolare l’occupazione, anche quella giovanile, con tutto ciò che questo comporta a livello di conflitto distributivo.
A dispetto delle intenzioni dichiarate nel gennaio 2020, con l’apertura di tavoli di discussione con il mondo sindacale al fine di approntare nuove forme strutturali di flessibilità in uscita e risolvere i più gravi problemi di insostenibilità sociale degli striminziti redditi pensionistici attesi, sembra proprio che non vi sia nulla di nuovo sotto il sole.
La già di per sé peggiorativa (rispetto a quota 100) quota 102 e la timida estensione dei 41 anni per la pensione anticipata non risolvono in alcun modo i nodi più gravi del sistema previdenziale per come è stato costruito dal 1995 in poi. La coesistenza del sistema contributivo con carriere lavorative precarie e bassi salari condurrà da qui ai prossimi anni a pensioni misere, sia come percentuale del salario medio percepito sia in termini assoluti. Una situazione che tocca livelli di indecenza per i lavoratori dipendenti e autonomi o falso-autonomi con carriere precarie e discontinue, che in alcuni scenari potrebbero ritrovarsi con pensioni pari al 30-40% del reddito medio percepito. In questo quadro strutturalmente così fosco, suona quasi come una beffa discutere animatamente e spesso sentire osteggiare con tanto accanimento timidissime forme di mera flessibilità in uscita. Queste ultime, infatti, per la logica insita nel sistema contributivo – meno anni di contribuzione e più anni di aspettativa di vita dopo il pensionamento equivalgono ad un taglio dell’assegno pensionistico – si risolvono sempre in una decurtazione di pensioni già molto basse. Si baccaglia per qualche provvedimento sulle briciole mentre la pagnotta a poco a poco scompare.
Oltre a promuovere sacrosante, strutturali e ben più serie forme di uscita flessibile dal lavoro e accesso ai diritti pensionistici, occorrerebbe con urgenza una rivisitazione generale dell’impianto del sistema previdenziale che rimetta al centro del dibattito l’entità della pensione. Una battaglia che non può che essere condotta in parallelo a quella per redditi da lavoro dignitosi e stabili nella chiara consapevolezza che il diritto alla pensione è la naturale prosecuzione del diritto al lavoro e il diritto al lavoro è la premessa sostanziale del diritto alla pensione.
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