Rischi e limiti nell’apertura della NATO all’ingresso di Georgia e Ucraina
da ANALISI DIFESA (Maurizio Boni)
Nel corso delle ultime settimane il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha ribadito in diverse occasioni pubbliche la volontà di rispettare le decisioni del summit di Bucarest del 2008 riguardanti l’adesione della Georgia e dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica. L’argomento è uno dei più scottanti tra quelli attualmente trattati nei colloqui in corso tra gli Stati Uniti, la NATO e la Russia, a Bruxelles e a Ginevra.
Il New York Times riferisce che lo scorso 10 gennaio, dopo sette ore di negoziati estenuanti, le posizioni di Stati Uniti (che parlano a nome della NATO) e Russia sul futuro dell’Alleanza e la situazione in Ucraina sono rimaste inconciliabili. Il Viceministro degli esteri russo Sergei A. Ryabkov, che è anche il capo dei negoziatori di Mosca, ha ribadito che “è assolutamente indispensabile che l’Ucraina mai e poi mai diventi un membro della NATO”.
La sua controparte statunitense, nella persona del Vicesegretario di Stato Wendy Sherman, ha replicato affermando che gli Stati Uniti non potranno mai sottoscrivere un impegno del genere in quanto non permetteranno a nessuno di chiudere la porta della politica aperta della NATO.
L’episodio costituisce il punto di arrivo di un processo, quello dell’allargamento dell’Alleanza Atlantica, iniziato subito dopo la fine della guerra fredda e proseguito sino ad oggi, sulla base di considerazioni politico militari un tempo condivisibili e oggi, nella loro evoluzione, molto meno. Credo quindi che valga la pena capire da dove siamo partiti, comprendere quali errori di valutazione nei confronti della Russia sono stati commessi nel corso del tempo, e perché la politica della porta aperta a tutti i costi voluta da Washington sia controproducente per la NATO.
Le origini dell’allargamento: la proiezione della democrazia
La prima organica trattazione di ordine strategico del tema dell’allargamento fu pubblicata nel 1993 sul numero autunnale della rivista Foreign Affairs a cura del think thank californiano della RAND
(Ronald D. Asmus, Richard L. Kugler, F. Stephen. Larrabee, Building a new NATO, “Foreign Affairs” vol.72, n.4, September-October 1993).
Tre analisti (Asmus, Kugler e Larrabee) presentarono un’analisi drammatica dello scenario politico militare lungo i due “archi di crisi” che fiancheggiavano a sud e a est il perimetro dell’Alleanza e che si erano creati a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Le nuove zone d’instabilità si estendevano dalla Germania e Russia dal nord al sud Europa, e scendeva attraverso la Turchia, il Caucaso e l’Asia centrale.
Tutta quest’area, a giudizio degli analisti della RAND, era costellata di potenziali “mini repubbliche di Weimar”, ciascuna capace di destabilizzare le altre. Queste, infatti, benché pesantemente armate, difettavano della capacità di difendersi da sole contro un più grande aggressore esterno. Il vuoto di sicurezza che caratterizzava la regione, la mobilitazione ideologica (soprattutto nazionalista) attorno a questo security vacuum e la disperata ricerca di garanzie di sicurezza avrebbero agevolato la competizione geopolitica, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e l’instabilità regionale. Quindi, benché situata alla periferia dell’Europa, quest’area con il suo immenso potenziale conflittuale avrebbe potuto condizionare la sicurezza degli Stati europei dell’Alleanza.
In tale contesto, la NATO avrebbe costituito lo strumento più valido per realizzare una solida cornice di sicurezza nella regione. Un accordo tra gli Stati Uniti e l’Europa avrebbe potuto espandere geograficamente gli orizzonti strategici della NATO e trasformare un’alleanza basata sulla difesa collettiva contro una specifica minaccia, in un’alleanza impegnata a proiettare democrazia, stabilità e crisis management in un senso strategico più ampio.
Le alternative possibili
Due anni più tardi, gli stessi autori discussero tre possibili modalità per l’allargamento in uno studio pubblicato da Survival, una delle riviste dell’International Institute for Strategic Studies di Londra (Ronald D. Asmus, Richard L. Kugler, F. Stephen. Larrabee, NATO Expansion: The Next Steps, “Survival” – Spring 1995).
Le alternative possibili erano definite di “espansione evolutiva” (Evolutionary Expansion), d’”incentivazione della stabilità” (Promote Stability) e di “risposta strategica” (Strategic Response).
Nella prima modalità si partiva dal presupposto che, in assenza di una minaccia diretta al proprio territorio, i Paesi dell’Europa centro-orientale avrebbero dovuto affrontare problemi di carattere prevalentemente economici, politici e di sicurezza interna.
Dunque, il loro interesse primario sarebbe stato quello dell’integrazione con l’Unione Europea. La partecipazione alla NATO ne avrebbe costituito il completamento necessario, ma secondario.
L’istituzione chiave del processo sarebbe stata l’UE che avrebbe dovuto anche definire i propri criteri di ammissione. Il tutto non sarebbe accaduto, in ogni caso, prima di dieci anni, dal momento che difficilmente i Paesi orientali sarebbero stati pronti prima.
L’ipotesi dell’incentivazione della stabilità prediligeva invece il ruolo della NATO per proteggere le deboli democrazie dell’Est europeo ed evidenziava il legame tra democrazia e sicurezza ricordando il ruolo svolto dalla NATO stessa nel promuovere la democrazia nella Germania del secondo dopo-guerra.
L’allargamento dell’Alleanza ad est avrebbe fornito stabilità ai Paesi dell’ex blocco sovietico e preservato l’Europa occidentale da pericolosi contraccolpi. I criteri per l’ammissione sarebbero stati stabiliti dall’Alleanza e il tempo previsto era compreso nell’arco di tre-cinque anni. A seguire avrebbe dovuto seguire l’estensione dell’UE.
L’ultima modalità, infine, prevedeva un allargamento condizionato all’atteggiamento della Russia: l’estensione avrebbe avuto luogo solo se Mosca fosse tornata a rappresentare una minaccia militare per gli Stati dell’Est.
Era una teoria appoggiata dai sostenitori della politica del Russia first e da quanti intendevano sottolineare che la NATO, dopo tutto, era e doveva restare un’alleanza di difesa collettiva il cui scopo primario era quello della dissuasione o, in caso di fallimento di quest’ultima, della difesa da un attacco contro i suoi membri. Quindi, anche il momento in cui realizzare l’allargamento sarebbe stato subordinato agli avvenimenti interni russi: in caso di assenza di nuove minacce avrebbe potuto anche non verificarsi affatto.
Gli autori analizzarono quindi i vantaggi e gli inconvenienti di ciascuna opzione. L’Evolutionary Path avrebbe offerto all’Alleanza il tempo di preparare all’estensione sia i vecchi che i nuovi membri ma, di contro, avrebbe mancato di considerare adeguatamente i problemi di sicurezza dell’area centro-orientale e, cosa ancora più grave per gli americani, avrebbe implicato la possibilità che fossero stati gli europei a decidere sul futuro della NATO e, quindi, a guidare, in definitiva, i processi decisionali statunitensi.
Per contro, il Promote Stability Path avrebbe garantito agli USA il controllo della situazione e la possibilità di determinare criteri e modalità dell’allargamento (d’altronde il Senato degli Stati Uniti avrebbe dovuto ratificare a maggioranza qualificata di due terzi un’eventuale estensione della protezione americana ai nuovi membri).
Tuttavia, per ciò stesso, avrebbe obbligato gli USA ad assumere la leadership del processo e a fare delle scelte in tempi rapidi, con la possibile conseguenza di irritare la Russia e di non sapere bene cosa fare riguardo a Paesi, come l’Ucraina, che sarebbero stati sicuramente esclusi dall’allargamento.
La terza opzione, quella della Strategic Response, avrebbe consentito alla NATO di aspettare e di vedere gli sviluppi della politica interna russa ed avrebbe evitato sicuramente il pericolo di un peggioramento delle relazioni con Mosca. Da un altro punto di vista, non avrebbe risolto i problemi di sicurezza dell’Europa centro-orientale e, in ultima istanza, avrebbe consentito alla Russia di interferire, se non di decidere, sul futuro dell’Alleanza.
Inoltre, ci sarebbero state difficoltà nel valutare se la Russia fosse realmente tornata a essere una minaccia o meno: in alcuni scenari, peraltro molto improbabili, ciò avrebbe potuto essere chiaro e perfino ovvio, ma in altri molto meno, con discordanti valutazioni e con conseguenti possibili fratture all’interno della NATO.
Vince la promozione della stabilità
Secondo gli analisti della RAND il Promote Stability Path era quello che aveva più senso, dal punto di vista strategico, per l’Occidente. L’Evolutionary Path era, infatti, troppo lento e subordinava la sicurezza dell’Europa centro-orientale all’evoluzione incerta, in quel momento più che mai, dell’Unione Europea. Le stesse considerazioni potevano essere estese alla Russia per lo Strategic Response Path. Dunque, il Promote Stability rappresentava la migliore via all’estensione dell’Alleanza: era l’unica modalità che potesse rendere più stabili e solide le democrazie dell’Europa centro-orientale, facilitando la loro integrazione politica ed economica nelle istituzioni europee.
E non soltanto inquadrava gli Stati dell’Est nel sistema europeo, ma al tempo stesso conservava inalterata la centralità del ruolo americano nella difesa dell’Europa. Naturalmente, avvertivano gli autori, doveva essere accompagnato da un’attenta politica nei confronti della Russia e dell’Ucraina.
Dalle origini dell’allargamento sino ad oggi sono state attuate, alternativamente, le prime due modalità con prevalenza netta del Promote Stability Path. Tuttavia, nel corso di quasi trent’anni di storia dell’allargamento il principio del rafforzamento delle libere democrazie che si trovano in pericolo ispirato dal liberal democratic internationalism di matrice statunitense è stato pressoché totalmente soppiantato da quello della NATO globale.
Albania, Croazia e Macedonia del Nord, per citare le ultime ammesse al club nordatlantico, non sono certamente democrazie in pericolo e il loro apporto in termini militari è oltretutto decisamente modesto. L’elemento di continuità è basato sul fermo controllo del processo di allargamento esercitato dagli Stati Uniti dove continua a risiedere l’origine concettuale delle politiche evolutive dell’Alleanza Atlantica di lungo termine.
Presupposti errati e segnali ignorati
Dopo la Guerra Fredda e sino alla crisi del 2014, la politica dell’Alleanza Atlantica si è sviluppata sulla base di cinque presupposti principali:
- la Russia sarebbe rimasta un partner strategico,
- l’allargamento della NATO e della UE sarebbe stato compatibile con gli interessi russi,
- la NATO avrebbe avuto mesi di preavviso in caso di attacchi convenzionali ai propri territori,
- le crisi all’interno e all’esterno del continente europeo sarebbero state di modesta intensità, lente nello svilupparsi e scevre dalle manipolazioni delle grandi potenze,
- il ruolo principale della NATO sarebbe stato quello della gestione delle crisi.
Quando nel 2008 l’esercito della Federazione Russa sconfisse in una settimana le truppe georgiane, filoccidentali, che avevano invaso l’Ossezia del sud respingendole fino quasi alla capitale Tbilisi, nessuno comprese che Mosca stava tracciando un’invalicabile linea rossa con l’Occidente a quattro anni di distanza dall’ammissione di sette nuovi membri nell’Alleanza (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia).
Non avrebbe più tollerato ulteriori avvicinamenti della NATO ai propri confini in un momento storico nel quale la possibile membership della Georgia veniva promossa nei comunicati ufficiali di Bruxelles e che proprio in seguito a quegli eventi venne congelata in attesa di tempi migliori.
Nessuno comprese che era l’inizio dello smantellamento dell’impianto logico dei cinque presupposti che si stava dissolvendo punto per punto.
La Russia non avrebbe più accettato un partenariato strategico a senso unico, l’allargamento della NATO era diventato chiaramente incompatibile con gli interessi russi, nella crisi siriana (certamente non di modesta entità) Mosca (grande potenza) sarebbe risultata determinante per i nuovi equilibri in Medio Oriente, mentre in quella libica la NATO non aveva gestito un bel niente contribuendo a detronizzare un dittatore e consegnando ad alcuni alleati direttamente interessati un paese totalmente destabilizzato.
Ma, soprattutto, l’invasione russa della Crimea e del Donbass, operazione militare di ampia scala e culmine di questo processo di smantellamento, era avvenuta senza alcun preavviso sotto gli occhi costernati di europei e americani.
L’attuale situazione in Ucraina costituisce la logica evoluzione di questo confronto dove si fa veramente fatica a comprendere le motivazioni di una politica della porta aperta a tutti i costi che solo pochi (ma in questo momento storico influenti) paesi europei sostengono e nella quale gli altri hanno poca o nessuna voce in capitolo.
Georgia e Ucraina nulla hanno a che fare con l’area euroatlantica e con i problemi di sicurezza dell’occidente, ma sono diventati il simbolo conclamato di una ulteriore “linea rossa” tracciata da Mosca che sarebbe controproducente superare soprattutto ora dove il recupero di una partnership strategica con la Russia è diventato non solo auspicabile ma necessario quando svolgiamo il nostro sguardo di occidentali verso oriente.
Sicurezza o espansione a prescindere?
Osservato in retrospettiva, il processo dell’allargamento della NATO pone un problema di fondo, legato essenzialmente alle origini della Guerra Fredda e alla stessa ragione di esistere dell’Alleanza. Ovvero, se questa incarnò una semplice esigenza di sicurezza e quindi di containment, per usare il concetto stesso della dottrina Truman, o abbia rappresentato lo strumento di una predeterminata volontà di espansione, come asseriscono i detrattori del Trattato di Washington.
Nel primo caso, di fronte alla minaccia sovietica, si sarebbe trattato di un’alleanza strettamente difensiva, dettata dalle circostanze. Nella seconda ipotesi, secondo alcuni autori, si sarebbe trattato di un sistema politico atlantico che con una sua matrice valoriale e non solo di sicurezza, avrebbe costretto in un primo tempo i sovietici sulla difensiva, e potuto proseguire indisturbata la propria funzione espansiva.
La storia e i fatti hanno senza dubbio confermato la funzione di sicurezza, mentre l’aspetto di più lungo termine è difficilmente dimostrabile anche se, dal punto di vista di un osservatore russo, la percezione delle funzioni della NATO, giudicando gli stessi fatti storici, sarebbe con molta probabilità diametralmente opposta.
Infatti, l’Alleanza Atlantica globale ha costantemente ampliato missioni e membership (double enlargement) estendendo il proprio raggio d’azione politico e militare su società e territori un tempo impensabili e, non paga, prevede che tale ampliamento si estenda all’Asia centrale e all’area del Pacifico per contrastare l’ascesa politico militare della Cina.
Come dare torto all’ipotesi che l’allargamento non fosse in qualche misura già preconizzato e che determinate circostanze, nel passato come oggi, non abbiano fatto altro che agevolarne lo sviluppo? Come giudicare l’esasperazione del ruolo della NATO “politica” che estende le partnership a decine di stati e ad altri continenti se non in un’ottica egemonica che non ha sicuramente radici europee?
In parole povere, l’allargamento a prescindere e ad ogni costo è diventato uno dei tasselli di un grand design che gioca a favore di chi vuole compromettere la credibilità della NATO come attore di sicurezza europeo e la sua reputazione di alleanza militare più longeva ed efficace della storia.
Gioca sicuramente a favore della Russia che potrà sempre contare sull’oltranzismo occidentale e sulle provocazioni della NATO per alimentare la sua politica ostile nei confronti dell’Europa. La politica della porta aperta nei confronti della Georgia e dell’Ucraina non fa bene alla NATO e, soprattutto, ai suoi membri europei.
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