Marco Bellocchio, Esterno notte
di DOPPIO ZERO (Enrico Palandri)
L’ultimo film di Marco Bellocchio dedicato al rapimento di Aldo Moro, Esterno notte, è un capolavoro. Abbiamo avuto tante inchieste, interviste, libri di storia, tante cose le sappiamo e tante altre no, ma non è questo di cui si occupa il film. Così come possiamo leggere molto sulla sessualità e la prostituzione nell’ottocento ma alla fine è La Traviata a raccontarcela, in modo certo imperfetto ma suscitando un mondo attraverso l’arte, la musica, il canto, il teatro, così Esterno notte ci offre la possibilità di comprendere non tanto i dettagli, che sono infiniti e inevitabilmente molto discussi, ma il senso di un’epoca drammatica, recente e rimossa. Come diceva Jean Cocteau, la storia è una verità che si deforma e diviene menzogna, mentre il mito è qualcosa di immaginario che si forma nel racconto e alla fine diventa vero. L’arte è questo raccontare, piegando a necessità diverse dalla verosimiglianza per creare un oggetto che è nell’immaginazione. Quindi bravissimi tutti gli artisti coinvolti: le interpretazioni, la Buy e Gifuni sopra gli altri ma tutti eccellenti. Bella la scrittura della sceneggiatura, la scenografia, le musiche. Si tratta di un film, di un artefatto, non della realtà. Anche dove ci si chieda in modo un po’ pedante se sia realistico, il senso di certi simbolismi (il mucchio di denaro su un tavolo in Vaticano) o dell’influenza della tradizione culturale della psicanalisi, sempre importante in Bellocchio, alla fine è il lavoro fatto che conta, ed è fatto benissimo. Il musicologo Giovanni Morelli diceva che storicamente la fine dell’opera è la nascita del cinema, che ne assorbe i tratti drammaturgici. Se è così, Bellocchio è il Giuseppe Verdi di questo genere, con i fatti sociali e civili al centro della creatività, una tavolozza di colori che ha radici profonde nei conflitti e nei drammi di cui siamo figli.
Quindi tantissime lodi a tutti e a soprattutto a Marco Bellocchio che ha raccolto e tenuto insieme le diverse parti che compongono l’opera. Spero che sia abbastanza eloquente per i più giovani e per i non italiani, perché a me questa storia ha parlato moltissimo, mi è parsa addirittura necessaria, anche perché è al centro di come penso tutt’oggi l’Italia.
Detto questo, sono uscito dal cinema con molte domande: la prima è proprio quanto poco si è riusciti a raccontare tutto questo, e quanto inevitabilmente lo si è fatto in modo parziale. Nel cinema, da Piazza delle cinque lune a La meglio gioventù e qua e là qualche film su un episodio o sull’altro; pochissimo nei romanzi, e comunque per lo più legati al terrorismo, che come mostra bene il film è un fatto sanguinoso ma in realtà marginale alla crisi di quegli anni.
La seconda riflessione, figlia della prima, è sul perché sia stato tanto difficile. Allora ho ripensato a come i nostri genitori ci hanno raccontato la guerra e la resistenza: i partigiani in montagna, la clandestinità, il fascismo. Al contrario di noi, sui fatti della loro epoca sono stati facondi, tanto che buona parte del neorealismo può essere descritto come narrazione resistenziale. Alle tragedie del ’43-45 è parso allora di poter appendere qualcosa, il romanzo italiano rinasce recuperando dal nostro risorgimento un’idea di Italia che è da sempre e per sempre irredenta, un paese che non è, un paese senza, come scriveva Alberto Arbasino, e che pare sempre avrebbe potuto essere qualcos’altro. E cosa sarebbe un paese redento? Libero, giusto, uguale? La follia delle BR era tutta lì, nell’immaginare una lotta di classe, un movimento mondiale che portasse giustizia al mondo, nel cercare il proprio protagonismo piuttosto che nella società da cui emergevano e da cui, attraverso la violenza e la clandestinità, si emarginavano.
Per la Resistenza, a distanza di anni, è più semplice capire: un paese sconfitto e alla deriva, conquistato dall’ottava armata che risalendo la penisola ne scoperchiava le magagne, si è immaginato attraverso i giovani che vivevano i propri amori (Fenoglio in Una questione privata) e le proprie inquietudini (dal Pin di Calvino a Useppe della Morante) come liberazione, emancipazione, progresso. Tutto questo è stato anche vero, e anche bello, ci ha salvato, ha offerto letteratura e racconto. Il desiderio di identità e nazione, di uscita dalla colpa d’aver dichiarato la guerra, d’aver combinato malanni in Africa, Grecia e Albania per ragioni che oggi facciamo fatica a capire, prevaleva sulla storia. Era più forte la sequenza di Anna Magnani che corre dietro al marito in Roma città aperta e viene ammazzata da una mitragliata tedesca che non le dolorose ambiguità dei nostri nonni. Era di quella storia che avevamo bisogno per integrarci nel mondo dei vincitori, l’abbiamo fortemente voluta e continuiamo a volerla a distanza di settant’anni. Ma è interessante, quando leggiamo le targhe commemorative ai partigiani caduti, per esempio in Piazza Maggiore a Bologna, come il linguaggio tradisca la nostra esasperata e inesauribile necessità di irredentismo. Fascismo e brigatismo sono stilisticamente entrambi figli di questo spirito che regolarmente precipita, nel nostro paese, in una spietata ferocia.
Terza riflessione: cosa ci riesce di raccontare oggi delle stragi degli anni ’70, del terrorismo, della profonda crisi del cattolicesimo in Italia? Nel film di Bellocchio l’Italia è sostanzialmente cattolica, ancorata alla DC, e viene improvvisamente aggredita dalle Brigate Rosse. Questo non credo sia vero storicamente: erano gli anni dei referendum e c’era tanta Italia che non era nella chiesa cattolica. La DC aveva perso il referendum sul divorzio e si apprestava a perdere quello sull’aborto. C’era una grande parte, evidentemente la più grande, che non si riconosceva più nella DC. Era questa perdita di consenso che aveva reso necessario, dalla prospettiva americana, le azioni terroristiche orchestrate dalla P2 e, simmetricamente e come risposta, l’iniziativa di Moro del compromesso storico. Era un’Italia piena di stragi e bombe, nel 1969 vi furono 145 attentati dinamitardi e la quantità rimase costante fino alla strage di Bologna del 1980.
I brigatisti erano tanti, alla fine circa cinquemila, ma in un paese di più di cinquanta milioni di abitanti erano pochissimi. A parte la loro violenza, mi riesce difficile reperire una loro influenza politica o culturale, allora e in seguito. I loro comunicati, anche allora, apparivano scritti sulla luna, primitivi nel linguaggio e soprattutto completamente disancorati dalle numerosissime aree di dissenso e progresso che dall’antipsichiatria di Basaglia al femminismo, da Don Milani e il maestro Manzi all’influenza dell’antagonismo americano, che arrivava attraverso Bob Dylan e Joan Baez, agivano davvero tra gli italiani. Come ha raccontato la Faranda, alla fine erano una banda che se la prendeva con un’altra banda, non la rivoluzione contro lo stato, come con tanta enfasi e velleità alcuni di loro pensavano.
Di assemblee ne ho fatte molte in quegli anni, ma non ho mai sentito gridare Viva le Brigate Rosse. Prima di tutto perché era pericoloso, bastava un poliziotto infiltrato e ti mettevi nei guai. Ma soprattutto perché nessuno lo pensava, non nelle università o nelle strade. Le Brigate Rosse erano ancora comuniste e il comunismo era alle spalle della società italiana almeno dall’invasione di Praga, per alcuni come Calvino dall’Ungheria, dal Dottor Zivago, da tante e tante letture, da Pasolini, Mandel’štam, Cvetaeva, Hannah Harendt. Il comunismo era alle spalle anche del PCI, che legato all’URSS faceva fatica a orientarsi nelle grandi trasformazioni di quegli anni, tanto che le BR, com’è stato raccontato da tanti suoi protagonisti, nascono proprio quando, cercando di europeizzarsi, Berlinguer si lascia a sinistra una fascia rivoluzionaria che alla fine prende le armi.
Ma queste sono notazioni minori rispetto al film di Bellocchio, è il racconto su cui vale la pena interrogarsi: di quale Italia abbiamo bisogno oggi? È qui la radice delle difficoltà che abbiamo avuto tanto a lungo nel raccontare quegli anni. Da un lato c’è stato negli ultimi vent’anni un rigurgito di nazionalismi, piccole patrie, richiami a volte tribali a un prepolitico da innestare sulla narrazione risorgimentale che ancora viene fatta nelle nostre scuole. Potersi identificare con una parte buona della società che chiede di far pulizia dai corrotti, ora in chiave antinazionalista (i primi momenti della Lega) ora in chiave italiana (la lega salviniana, Forza Italia, Fratelli d’Italia e i cinque stelle). Qui ci sono indubbie tracce dell’anima irredentista e antiborghese cui accennavo prima. Dall’altra parte, nella sinistra, le varie metamorfosi di discendenza DC-PCI che hanno prodotto alla fine il PD, assomigliano molto al ritratto che Bellocchio fa della DC di allora. Un senso delle istituzioni dato dal ruolo che si ricopre e una vita spesso all’ombra di doveri e piccoli interessi che viene percepita dall’esterno come un grande immobilismo. Questo nel film di Bellocchio è ritratto benissimo nei tinelli, le camere da letto, le cucine degli appartamenti in cui abitano i politici. Sono case come quelle in cui sono cresciuto io, uguali a quelle dei miei compagni di scuola. Sopra il letto un’immagine religiosa, quasi a scongiurare o proteggere il sesso, le cucine come credenze per tazze, senza un minimo di brio, i salotti e le sale da pranzo in un ordine che sembra assenza di vita. Così appaiono anche le case dei terroristi, legati a riti ordinari e ripetitivi, caffelatte e biscotti, una mancanza di immaginazione desolante. Sono gli anni in cui, dal Pasolini di Cosa sono le nuvole al teatro di Fo e dei numerosissimi gruppi d’avanguardia, le piazze, le case, l’Italia e l’Europa erano una polveriera ma non d’armi, di idee. Le case comuni che attraversavamo in quegli anni, spesso unite da una passione (il femminismo, il teatro, la musica o semplicemente uno stile che si costituiva tra le persone) erano tutt’altro.
Bellocchio racconta l’ordinaria passività, ripulita da una domestica che sembrava allora la norma, e che oltre all’oppressività di quell’ordine lasciava le tracce di una inferiorità sociale da cui tante di queste famiglie volevano distinguersi. Così come le brutte chiese di cemento della periferia romana, in un paese che è ricco di chiese antiche e meravigliose, anche questo segno di un cristianesimo profondamente in crisi: nella mia personale memoria, direi che dei trenta bambini con cui ero in classe alle elementari alla periferia di Roma all’inizio degli anni sessanta, la maggior parte erano cattolici. A sedici anni, nella non meno cattolica Trento, forse ce ne erano un paio. Si erano svuotate le chiese e soprattutto la fede di chi ci andava. Perché a parte alcune frange estremiste, la maggior parte dei cattolici cambiava con la parte laica della società, usava contraccettivi come gli altri, aveva trovato un modo di assorbire il divorzio e l’aborto. Quando Eleonora Moro nel film dice siamo cristiani, dobbiamo amare il nostro nemico, parla a dei figli che sono già di una generazione successiva, molto più complicata e forse ormai per sempre irriducibile alla società della generazione precedente. I nostri genitori erano nati prima del voto alle donne, e la DC perde il confronto con la parte laica della società italiana in quegli anni proprio su questi temi. Perché al di là e al di qua della santità del matrimonio o della sacralità della vita, alla fine il conflitto era tra una parte che emancipava le donne da una condizione di semi-schiavitù nelle famiglie (nel film è il parroco che rimprovera a Eleonora Moro di non fare la cena al marito), di marginalità nella chiesa, di inferiorità sociale nel lavoro e nelle retribuzioni, e un’altra parte, che in Italia come in Irlanda o negli USA, vede nella parità dei diritti tra i sessi un elemento essenziale per la vita sociale. Questa crisi del cattolicesimo era ampia, e interclassista.
Non solo Moro, ma moltissimi magistrati, poliziotti, funzionari dello stato respiravano attraverso le mogli e i figli, e presto attraverso l’ingresso di molte donne in ruoli di responsabilità, questo rinnovamento.
La famiglia Moro, come la racconta Bellocchio, è allora la vera anima dell’Italia, attraversata dalla tragedia in modo personale e al tempo stesso politico. Il rifiuto di Eleonora Moro di un funerale di stato è rifiuto del mondo politico di cui lei meglio di tutti coglie lo scollamento dalla vita di Moro. La morte del marito mostra a lei e tutti noi la fragilità della DC che predica la famiglia ma finisce con il sacrificarla allo stato. Se e in che misura questa fragilità fosse in realtà il contenitore ideale dell’influenza americana viene accennato nel film e sarebbe fuorviante parlarne qui. Uno dei pregi del film è di non essere veicolo di nessuna delle tante teorie che raccontano quegli anni.
Come augurio al film, noto che c’è oggi un comprensibile desiderio di scuotersi di dosso il rincretinimento che è stata la reazione all’impegno che aveva caratterizzato quell’epoca. Siamo di fronte a un grande vuoto che è l’inevitabile conseguenza del prevalere della finanza sulla produzione e del capitalismo sulla natura. Un processo di astrazione e svuotamento che ci rende anche orfani della storia. Il racconto contemporaneo dell’Italia, emerso con Berlusconi e Murdoch, annega tra varietà, talk show, competizioni sportive, echeggiando all’infinito in un infospazio dove non si colgono più segnali di alcun tipo. Ha senso oggi parlare di Italia? O di un’idea di società? Anneghiamo in una catastrofe che dalla guerra alla crisi ambientale al Covid o a come va male tutto quanto, ci impedisce di ricordare che Cherubino fa tremare casa d’Almaviva, e tutto l’Ancien Régime, con una canzonetta. In realtà i racconti probabilmente ci sono già, sta a noi riprenderli, intesserli tra loro, vedere la bella storia a cui apparteniamo. Come mi dissero Julien Beck e Judith Malina del Living Theatre in una chiacchierata a Radio Alice durante una notte di tafferugli a Bologna, il movimento sono le cose che sappiamo dirci, gli spettacoli che ci indichiamo, il nostro appartenere a un mondo che per vivere e respirare deve avere orizzonti, felicità davanti a sé, e non il senso angosciante di una fine che ci reprime e ci opprime. Di questa speranza, che molto più prepotentemente delle Brigate Rosse trasformava l’Italia, mi sarebbe piaciuto trovare qualche traccia in più nel film di Marco Bellocchio.
Ha invece prevalso il desiderio di rappresentare intorno ai protagonisti della vicenda un cristianesimo importante, vivo, che ha il senso degli altri prima e oltre la politica. Come viene riportato da una lezione di Moro: la persona viene prima del cittadino. Ragione per cui il tema delle migrazioni e dei diritti di tutti oggi non è solo una questione giuridica, è radicata nel diritto a essere umani. Questione che dalla legge delle Guarantigie ai Patti Lateranensi rimane irrisolta perché non è il Vaticano a doverla negoziare, ma i diritti di tutte le religioni e di tutti gli umani. È su questo diritto umano che dovremmo reggerci piuttosto che sul lavoro, come recita la nostra costituzione, perché hanno diritti anche i bambini e gli anziani, e quelli che il lavoro non ce l’hanno.
Un dibattito anche sul ruolo politico che i cristiani assumono nella nostra società è urgente, perché come con la DC anche attraverso CL e tante simili organizzazioni, quando la comunità dei cristiani si è identificata con una parte politica ha perso anche lei la capacità di riconoscere nel non cristiano un altro umano di uguali diritti.
Questo è stato e continua a essere un guaio che inevitabilmente produce strumentalizzazioni (il rosario di Salvini nei comizi) e quindi conflitti in cui la forza che vediamo nel modo in cui la Buy/Nora Moro affronta sia il partito che il dolore privato nel momento del rapimento, si smarrisce in uno spirito tribale poco fecondo. Spero che questo film parli a tanti come ha parlato a me e ci consenta di far nostre le tante buone ragioni che hanno impegnato Bellocchio e tutti quelli che hanno lavorato con lui a raccontare questa storia in questo modo. E quindi grazie.
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