La fragile tregua nel Tigrè rischia di riaprire la crisi tra Etiopia ed Eritrea
da ANALISI DIFESA (Mirko Molteni)
La guerra civile in Etiopia fra il governo centrale di Addis Abeba e le milizie tigrine del fronte TPLF, combattute anche dall’Eritrea alleata del premier etiope Abiy Ahmed, ha nelle ultime settimane compiuto il giro di boa dei due anni dal suo inizio, il 3 novembre 2020. Ma le due parti hanno raggiunto, giusto un giorno prima del secondo anniversario, il 2 novembre 2022, un accordo di tregua, siglato nella sede neutrale di Pretoria, in Sudafrica, patto ancora in via di consolidamento e quindi assai fragile. Ciò, da un lato fa indubbiamente ben sperare sulla risoluzione del conflitto, ma la prudenza è d’obbligo.
Il conflitto etiopico aveva già conosciuto vari mesi di tregua fra marzo e agosto 2022, per poi veder riesplodere i combattimenti e tale precedente non alimenta certo facili entusiasmi. Inoltre, l’accordo di Pretoria vede protagoniste l’Etiopia e i poteri regionali del Tigrè, ma non l’Eritrea, il che potrebbe perfino far balenare il sospetto che, una volta “risolta” in qualche modo, la crisi tigrina, Addis Abeba potrebbe essere tentata di ripensare, quando non di rinnegare apertamente, l’alleanza con Asmara, lega d’interesse finora tenuta in piedi dalla necessità di lottare contro il comune nemico TPLF.
I colloqui di pace che hanno portato, perlomeno in questi giorni, a una apparente, e ancora imperfetta, cessazione delle ostilità, sono scaturiti in sostanza quando i tigrini vi sono stati costretti dalla nutrita controffensiva attuata fra settembre e ottobre scorsi dall’esercito federale etiopico, appoggiato dalle milizie etniche Amhara e dall’esercito di un’Eritrea che aveva da poche settimane proclamato la mobilitazione totale, dopo aver per molto tempo subito gravi perdite a opera del TPLF sul versante settentrionale del Tigrè.
Trattative iniziali
Praticamente dimenticata dal mondo per due anni, e ancor più oscurata negli ultimi nove mesi dal conflitto tra Russia e Ucraina, la guerra del Tigrè, su cui si sono innestate altre ribellioni armate del mosaico etnico etiope, come quella del popolo Oromo, ha causato finora centinaia di migliaia di morti, le cui stime variano molto.
Esperti dell’università belga di Gand propendono per una forbice di vittime compresa fra 385.000 e 600.000, mentre il Senato USA, che aveva in ottobre scritto una lettera bipartisan ad Abiy per chiedergli la fine della guerra, stima da sue fonti “approssimativamente 500.000 morti”. L’esperto Abdurahman Sayed parla perfino di “700.000-800.000 morti”, fra civili e militari. L’ipotesi più cauta è quella del rappresentante Esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, che si limita a valutare “non meno di 100.000 morti”, cifra comunque terribile. Senza contare che l’ONU e le ong umanitarie impegnate sul campo hanno calcolato 2,5 milioni di sfollati e 5 milioni di persone a rischio carestia. Numeri tremendi di fronte ai quali l’attenzione prevalente per la guerra russo-ucraina, in proporzione molto meno sanguinosa di quella etiopica, passerebbe in secondo piano, se non vi fosse implicata una potenza nucleare come la Russia a pochi passi dai confini con la NATO.
Le stragi nel paese africano rendono comprensibile quanto trionfalmente sia stato annunciato l’inizio dei negoziati di Pretoria, il 25 ottobre 2022, dal presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki, dopo che per mesi l’ente pan-africano aveva cercato di mediare.
Nella capitale sudafricana sono così giunti per via aerea, grazie a un volo organizzato dagli Stati Uniti, i delegati della parte tigrina, cioè il generale Tsadkan Gebretensae e il portavoce del TPLF, Getachew Reda, che hanno incontrato il maggior negoziatore etiope, il consigliere della sicurezza nazionale Redwan Hussein.
Ai negoziati hanno partecipato, fin dai primi giorni, vari mediatori impegnatisi in prima persona, a cominciare dall’ex-presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, che più volte, nel corso del sanguinoso biennio aveva già cercato di far tacere le armi, oltre all’ex-presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, e all’ex-vicepresidente sudafricano Phumzile Mlambo-Ngcuka. Un importante ruolo lo hanno avuto anche gli americani, in particolare l’inviato speciale di Washington per il Corno d’Africa, Mike Hammer, che per settimane ha fatto pressione sul governo di Addis Abeba affinchè accettasse di sedersi al tavolo col TPLF, oltre ad ammonire, sull’altro versante, l’Eritrea perchè non violasse i confini nazionali dell’Etiopia.
I tigrini puntavano fin dall’inizio dei colloqui a far cessare il fuoco e a far accedere il loro territorio ai flussi di aiuti umanitari finora bloccati. Fiducioso era l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi: “Guardiamo a Pretoria con attesa e impazienza.
Quella del negoziato è l’unica via da seguire. Se le parti non si impegnano in modo significativo per una soluzione negoziata, non usciremo mai da questa situazione”. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha fatto sentire ancora il fiato di Washington sul collo delle parti in causa: “Occorre una tregua immediata.
Questi colloqui sono il modo più promettente per raggiungere una pace e una prosperità durature per tutti gli etiopi”. Meno ottimista si mostrava il quotidiano USA Washington Post, che ironizzando sul fatto che l’Unione Africana ha la sua sede centrale proprio ad Addis Abeba, scriveva: “L’Unione Africana nel ruolo di mediatore in un conflitto esploso appena fuori dalla porta del suo quartier generale nella capitale etiope non consente molto ottimismo”. In effetti, per giorni le cose non sembravano procedere per il meglio. Inizialmente era previsto che le trattative si concludessero entro il 30 ottobre, poi al permanere di uno stallo diplomatico, il 31 ottobre il governo sudafricano ha comunicato che si sarebbero prolungati oltre la scadenza.
Il giornale sudafricano Daily Maverick ha pubblicato indiscrezioni da parte di anonimi funzionari del governo di Pretoria, secondo i quali le trattative sarebbero proseguite in forma riservata perchè “ci vuole tempo”, anticipando che etiopi e tigrini “potrebbero accettare una sorta di parziale cessazione delle ostilità o giorni di tranquillità”.
E’ così emerso gradualmente che i negoziati in Sudafrica costituivano solo la prima fase di un lungo processo e che il primo obbiettivo era, semplicemente, cercare di arrestare i combattimenti.
Solo in una seconda fase si sarebbe discussa una tregua di lungo periodo con la relativa demilitarizzazione della crisi e la garanzia per il Fronte Tigrino di essere riconosciuto come formazione politica, unitamente al riconoscimento della provincia del Tigrè nell’ambito dello Stato federale etiopico e alla richiesta di ritiro delle truppe eritree presenti sul fronte Nord.
Ancora il 1° novembre sembrava che fosse tutto in alto mare, quando il premier etiope Abiy dichiarava, intervistato dalla televisione cinese CGTN: “Ci sono pesanti interferenze straniere nei colloqui. Chiaramente, se ci sono interventi da destra e manca, tutto è più difficile. Gli etiopi dovrebbero capire che possiamo risolvere i nostri problemi da soli. Stiamo cercando di convincere il TPLF a rispettare la legge della terra, la Costituzione e ad agire come un unico stato in Etiopia”.
Poichè l’Etiopia, nel corso del conflitto, è stata ampiamente appoggiata dalla Cina, oltre che dalla Turchia, non è difficile immaginare che la critica espressa dal premier, proprio davanti alle telecamere di una tv cinese, si riferisse agli Stati Uniti, fra i maggiori sponsor del TPLF e della necessità di trattare.
Del resto, fino a pochi mesi fa Abiy proclamava di voler “cancellare” il fronte tigrino, definito “terrorista”, aspirando a una vittoria totale rivelatasi finora impossibile.
Finalmente, il 2 novembre l’avvenuta firma dell’accordo è stata comunicata dal mediatore Obasanjo, che ha dato alla tregua carattere di lungo periodo: “Abbiamo concordato di far tacere per sempre le armi. Il conflitto ha provocato un livello tragico di perdite di vite umane ed è nell’interesse di tutto il popolo etiope lasciarselo alle spalle”.
I termini principali dell’accordo di Pretoria, ancora da perfezionare, prevedono, da parte del governo centrale “l’arresto di qualsiasi operazione militare contro il TPLF”, il “ripristino dei servizi essenziali” per la popolazione del Tigrè, lo storno del TPLF dalla lista delle organizzazioni considerate terroristiche da Addis Abeba e il libero accesso delle ong umanitarie al territorio tigrino per portare assistenza ai civili.
Dal canto suo il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè promette di rispettare l’autorità del governo e la sovranità del paese, specie evitando “rapporti con potenze straniere”, non schierare o addestrare forze militari “in preparazione a un conflitto”, non forzare cambi di governo con mezzi incostituzionali e non “supportare altri gruppi armati in altre parti del paese”.
Una condizione, quest’ultima, dovuta in particolare all’alleanza che il fronte tigrino aveva stipulato con vari fronti etnici ribelli, a cominciare dall’OLA, Oromo Liberation Army.
La stipula dell’accordo di tregua è stata accolta con soddisfazione, ma anche con cautela, dai paesi occidentali. Lo stesso 2 novembre, la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, l’ha definito “un’importante passo verso la pace in Etiopia”, dando a intendere che è solo l’inizio di un processo.
Il 3 novembre il nuovo ministro degli Esteri britannico (il primo di origine africana) James Cleverly ha esclamato: “Plaudo alla scelta di pace fatta ieri dalle parti in conflitto e agli sforzi di mediazione dell’Unione Africana, del Sudafrica e del Kenya. Londra è pronta ora a dare sostegno a questo processo di pace”.
Quanto all’Italia, la nuova premier Giorgia Meloni, si è felicitata personalmente col premier etiope Abiy Ahmed incontrandolo il 7 novembre in Egitto, a margine della conferenza COP 27 di Sharm El Sheikh: “Esprimiamo soddisfazione per l’accordo per una pace duratura attraverso la cessazione delle ostilità e sottolineiamo l’importanza di una sua efficace attuazione per il bene del popolo etiopico e la stabilità del Corno d’Africa”. Tutti intuiscono, in sostanza, che con l’accordo di Pretoria è solo iniziato un processo lungo e travagliato che potrebbe non riuscire, almeno nel breve periodo, a risolvere tutte le sfaccettature dell’instabilità etiopica, data la pluralità dei soggetti in campo, dall’Eritrea alle altre etnie ribelli.
Si spara ancora
La tensione sul campo si taglia ancora col coltello, mentre nessuno ha di fatto deposto le armi. Venerdì 11 novembre, il governo di Addis Abeba ha rivendicato il controllo di due terzi del territorio del Tigrè, sostenendo di aver dato via libera, in ottemperanza alla tregua firmata in Sudafrica, all’ingresso nella regione dei convogli umanitari, ma le fonti del TPLF hanno negato tutto.
E’ stato il consigliere di Abiy, Redwan Hussein, a dichiarare: “Il 70% del Tigrè è sotto il controllo della ENDF, Ethiopian National Defence Force. I soccorsi stanno affluendo come mai prima d’ora. Convogli di camion con cibo e medicine sono stati mandati nella strategica città di Scirè e sono stati consentiti i voli”. Ma il portavoce del TPLF, Getachew Reda, gli ha rinfacciato: “Sta raccogliendo fatti dall’aria fritta”.
E un altro famoso esponente tigrino, il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha confermato che, a una decina di giorni dalla firma dell’accordo, “niente si sta muovendo in termini di consegne di cibo e di medicine”.
E ha spiegato che le condizioni degli oltre 6 milioni di abitanti del Tigrè restano critiche: “Molta gente sta morendo per malattie curabili o per fame. Mi aspettavo che cibo e medicine sarebbero stati subito sbloccati, invece non sta accadendo”.
Fortunatamente, un primo sblocco degli aiuti umanitari si è avuto pochi giorni dopo. Il 15 novembre, infatti, il portavoce per l’Etiopia del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), Jude Fuhnwi, ha diramato: “Le prime forniture mediche dell’ICRC sono arrivate a Macallè. Due camion hanno consegnato medicine, kit di emergenza e primo soccorso per aiutare le strutture sanitarie del Tigrè a curare i pazienti che richiedono un trattamento urgente. Questa consegna di aiuti è la prima dalla ripresa dei combattimenti dello scorso agosto e dalla firma degli accordi a Pretoria e a Nairobi”.
Che la situazione resti pericolosa lo testimoniano tuttavia vari indizi di attività militare, anche criminale, ancora in corso nei giorni scorsi. Il portavoce tigrino Kindeya Gebrehiwot, ex-presidente dell’università di Macallè e attualmente portavoce dell’Ufficio Esteri del TPLF, ha accusato il 4 novembre le forze etiopi di aver colpito ancora obbiettivi civili nella città tigrina di Maychew, basandosi sui resoconti giunti dall’ospedale locale Lemlem-Karl: “Gli etiopi hanno colpito Maychew con droni.
Nella stessa città ci sono stati anche bombardamenti d’artiglieria che hanno ucciso e ferito civili. Questo accade dopo la firma dell’accordo di pace a Pretoria”.
Gebrehiwot ha denunciato inoltre che l’alleato di Addis Abeba, l’Eritrea, non toccata dall’accordo, continua il conflitto depredando le aree occupate. Sempre il 4 novembre, scriveva infatti su Twitter: “Oggi forze eritree stanno saccheggiando Adua casa per casa, rubando ogni veicolo che trovano. Queste forze stanno commettendo crimini infami, vandalizzando e depredando proprietà, da ormai due anni.
E proseguono le atrocità stanno combattendo duramente per arrivare fino ad Adigrat”. Il 9 novembre segnalava che “le forze eritree attuano una campagna massiccia di uccisioni e distruzioni, anche di campi coltivati, nel Tigrè”. E il 10 novembre: “Uccisioni, rapimenti e cannoneggiamenti attorno a Scirè e Adi Daero continuano da parte delle forze eritree”.
Se l’Eritrea prosegue le violenze, anche le ribellioni armate in altre zone dell’Etiopia non sono state arrestate, soprattutto sul fronte dell’irrequieta Oromia.
L’8 novembre testimoni locali (sotto anonimato per paura dei governativi) fra i quali un prete della città di Bila, nel distretto del Wollega Occidentale, hanno confermato all’agenzia Associated Press che “un piccolo aeroplano”, probabilmente un drone, ha attaccato Bila “in un giorno di mercato e ci sono state molte dozzine di persone morte e ferite”.
L’assalto è stato attribuito all’esercito governativo. Il prete ha sostenuto che solo nella sua parrocchia sono stati sepolti 11 morti, mentre “centinaia di feriti sono stati mandati negli ospedali vicini”. In una zona vicina, le forze etiopiche sono avanzate combattendo contro i ribelli dell’Oromo Liberation Army e hanno “ripreso il controllo della città di Nekemte, nel Wollega Orientale”. Un esponente dell’OLA, Odaa Tarbii, ha però ribattuto che “le nostre forze sono riuscite a liberare 120 prigionieri politici nella stessa Nekemte e a distruggere molte installazioni del regime militare”.
Un portavoce del governo centrale etiope, Legesse Tulu, non ha voluto commentare nulla sulle notizie degli ultimi combattimenti in Oromia, limitandosi ad accusare l’OLA di perpetrare “uccisioni di massa”.
Il 9 novembre, ancora Odaa ha denunciato “nuovi attacchi aerei dell’aviazione federale etiopica avvenuti oggi con 4 droni sulla città di Mendi, occupata dall’OLA”. I droni avrebbero colpito “l’area di un mercato e una fermata di autobus causando più di 30 morti civili”.
Mendi, situata 412 km, in linea d’aria, a Ovest di Addis Abeba, è stata conquistata dai guerriglieri Oromo proprio agli inizi di novembre, mentre il TPLF firmava la tregua col governo centrale a Pretoria. Secondo il portavoce oromo “oltre 300 civili sono stati uccisi in più di 12 attacchi con droni effettuati in Oromia nelle ultime due settimane”.
Odaa sostiene inoltre che attaccare con droni i civili delle etnie ribelli corrisponde a una precisa tattica per dissuaderli dal fornire appoggio ai guerriglieri: “Questi attacchi non sono diretti a obiettivi militari, ma piuttosto ad aree ad alta densità di civili con l’intenzione di terrorizzare la popolazione locale. Il regime sta mettendo in atto la minaccia del funzionario del Partito della Prosperità del premier Abiy Ahmed, Fikadu Tessema, che voleva prosciugare l’oceano per uccidere i pesci”. Evidente riferimento alla classica immagine della guerriglia usata a suo tempo dal cinese Mao Zedong, secondo cui il guerrigliero è come un pesce che vive e sguazza in mezzo alla popolazione che lo aiuta.
Dagli Stati Uniti, anche una testata come “Foreign Policy” ha scritto il 16 novembre che “mentre procedono i negoziati nel Tigrè, le tensioni stanno montando in Oromia”, dove gli scontri tra l’esercito regolare ENDF e l’OLA vengono definiti apertamente “l’altra guerra dell’Etiopia”, notando che “si sono intensificati proprio mentre si arrivava all’accordo di pace col TPLF”.
Più tardi, il 3 dicembre, fonti governative di Addis Abeba hanno parlato di “un genocidio nel Wollega Orientale” asserendo che le milizie Oromo hanno impegnato in combattimento milizie locali della città di Angur Guten, armate direttamente dai governativi “per proteggere le comunità dai gruppi radicali etnici Oromo”.
Frattanto, tra fine novembre e inizio dicembre si sono rinnovate ancora violenze contro i tigrini, da parte degli alleati del governo centrale etiope, dando l’impressione che, in sostanza, l’incompleto cessate il fuoco riguardi solo le forze regolari di Abiy. Il 27 novembre, l’Associated Press, da fonti di testimoni sul territorio, anche operatori umanitari, scriveva: “Gli alleati dell’esercito federale etiope stanno saccheggiando proprietà ed effettuando detenzioni di massa nel Tigrè. Truppe eritree e le forze della vicina regione etiope di Amhara hanno saccheggiato aziende, proprietà private, veicoli e strutture sanitarie a Scirè. I civili accusati di aiutare le forze tigrine sono detenuti nella città di Alamata, nel Sud del Tigrè”.
Il 30 novembre, il portavoce tigrino Getachew scriveva ancora: “Forze eritree stanno ancora uccidendo civili, saccheggiando e distruggendo proprietà. La scorsa settimana sono stati giustiziati sommariamente centinaia di donne e bambini”. E il 1° dicembre i media Garowe On Line e Bloomberg parlavano di un rapporto pubblicato a Macallè secondo cui: “Soldati eritrei avrebbero ucciso 111 persone ancora fra il 17 e il 23 novembre, inoltre 103 persone sono state ferite e 241 case distrutte nelle aree occupate dagli eritrei”.
Dal portavoce del governo di Addis Abeba, Legesse Tulu, e dal ministro dell’informazione eritreo, Yemane Gebremeskel, finora ci sarebbe stato solo un silenzio pari a un “no comment”. E’ chiaro che tutte queste notizie sono difficilmente verificabili e che potrebbero anche essere, perlomeno, “gonfiate” dai tigrini per poter procrastinare in qualche modo il disarmo e mantenere nel tempo una capacità di autodifesa, ma non v’è dubbio che la regione e la sua popolazione hanno subito devastazioni e abusi tali da rendere plausibile che sul terreno proseguano purtroppo azioni che paiono ormai sconfinate dall’operazione militare al puro banditismo.
Difficile disarmo
Frattanto, poiché l’accordo del 2 novembre costituiva soltanto un primo passo, le delegazioni etiopica e trigrina si sono incontrate di nuovo per perfezionare il disarmo del TPLF e l’avvio, presunto, di una normalizzazione in Tigrè. Così, dal 7 novembre, sempre sotto la supervisione dei mediatori Obasanjo e Kenyatta, si sono seduti attorno a un tavolo, a Nairobi, in Kenya, negoziatori militari delle due parti. Per Addis Abeba il feldmaresciallo Berhanu Jula, capo di stato maggiore delle ENDF, e il generale Tadesse Worede, attuale comandante in capo delle milizie tigrine.
Come ha spiegato il consigliere governativo etiope Redwan Hussein: “I capi politici hanno firmato l’accordo, ma i nostri capi militari prepareranno la strada per accelerarne l’implementazione”. E l’Unione Africana ha promesso che i negoziati di Nairobi avrebbero “dato via libera all’accesso umanitario e al ripristino dei servizi essenziali nella regione del Tigrè”, come in effetti sembra stia finalmente avvenendo, a dar retta a quanto asserito il 15 novembre dalla Croce Rossa.
Il negoziatore tigrino Getachew Reda ha precisato che lo scopo principale dei colloqui di Nairobi erano “portare avanti effettivamente la tregua e garantire che continui il cessate il fuoco”.
Inizialmente era previsto che i colloqui durassero “tre-quattro giorni”, fino al 10-11 novembre, poi si sono chiusi il 12 novembre con la firma di un’ulteriore dichiarazione che ha indicato nel 15 novembre la data in cui dovrebbe essere iniziato il disarmo delle milizie TPLF, controllato da una commissione formata da ambo le parti. Obasanjo ha confermato che fra l’esercito federale etiopico ENDF e il fronte TPLF “è stata stabilita una linea diretta di comunicazioni per verificare la tenuta della tregua ed evitare incidenti”.
Nel testo della dichiarazione di Nairobi, firmata da Birhanu (Etiopia) e Tadesse (Tigrè) e dai mediatori Obasanjo e Kenyatta, si legge, a proposito della cessazione delle ostilità e del disarmo del TPLF, i cui comandanti hanno 7 giorni di tempo, a partire dal 15 novembre, per “orientare” le proprie formazioni in quattro aree designate di smobilitazione, cioè entro il 22 novembre, dopodichè avranno altri 4 giorni di tempo, fino al 26 novembre, per deporre le armi. Inoltre vi si stabilisce che “il disarmo delle armi pesanti verrà attuato in concomitanza col ritiro di forze straniere e non-ENDF dalla regione”. Un accenno implicito alle milizie Ahmara filo-governative e all’esercito dell’Eritrea, che peraltro non è parte in causa degli accordi in fieri.
In realtà, dopo che la data di inizio del disarmo era stata inizialmente spostata al 17 novembre, non è ancora avvenuto alcun disarmo, nonostante Obasanjo abbia cercato di spingere in tal senso compiendo il 24 novembre una visita a Macallè e incontrando la dirigenza del TPLF, ancora guardinga, alla quale ha però espresso la comprensione per il preoccupante persistere delle truppe eritree sulla fascia di confine, dichiarando: “Nessuno dovrebbe accettare la presenza di forze di un paese straniero all’interno dell’Etiopia”. Obasanjo e l’Unione Africana dovrebbero beneficiare, per la verifica sul campo degli accordi, di 10 osservatori in loco, nonché di foto satellitari. Lo stesso giorno, da Washington, Blinken ha telefonato ad Abiy e, stando al portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price, ha espresso “l’importanza di implementare gli accordi facendo ritirare le truppe straniere”.
E’ stato formato un comitato congiunto tra rappresentanti del governo etiopico e del fronte tigrino, allo scopo di mettere a punto il disarmo, e i cui componenti si sono incontrati per la prima volta il 30 novembre nella città di Scirè, ma il lavoro resta difficile per le tensioni permanenti. Fonti di Addis Abeba hanno indicato nel 3 dicembre la nuova scadenza di consegna delle armi pesanti, data ancora disattesa.
E’ stato l’ambasciatore etiope in Kenya, Bacha Debele a dichiarare il 1° dicembre: “Per quanto riguarda la consegna delle armi pesanti, quelli del TPLF avrebbero dovuto consegnarle il 17 novembre, ma questo non è stato fatto e ora è stato deciso che le consegneranno il 3 dicembre. I comandanti sul campo si incontrano ogni giorno per discutere sul processo di disarmo e i combattenti tigrini si stanno riunendo in aree designate per implementarlo”. Dopo alcuni giorni, tuttavia, sembra che ancora poco sia stato fatto.
Il 4 dicembre, il comandante militare del TPLF, Tadesse Worede ha parlato soltanto di ritirata su nuove posizioni delle sue milizie, che a quanto pare restano armate di tutto punto: “Abbiamo iniziato il ritiro e il ridispiegamento delle nostre forze dalle linee del fronte. Il 65% dei combattenti è stato spostato dal fronte a nuovi posti loro designati”.
Le ultime offensive
I negoziati sono stati propiziati da una crescente crisi militare che ha visto all’inizio dell’autunno le milizie del TPLF sempre più provate dalla controffensiva avversaria, complice la limitatezza delle proprie risorse militari, sebbene rimpinguate da rifornimenti provenienti dal vicino Sudan, che d’accordo con l’Egitto ha tutto l’interesse a mantenere una spina nel fianco di Addis Abeba, dalla quale li divide il nodo della grande diga GERD sul Nilo Azzurro.
Peraltro, ancora nelle ultime settimane è stata spesso segnalata, con documentazione fotografica, la ricorrente presenza presso i moli di Porto Sudan di una nave logistica della Marina egiziana, la A231 Halaib. Si tratta di un vecchio cargo militare, specializzato nel trasporto munizioni, originariamente varato in Germania, nei cantieri di Lubecca, e in servizio con la Deutsche Marine dal 1967 al 2002, col nome Odenwald, seconda unità della classe Westerland. Nel 2003 la nave fu ceduta all’Egitto e da allora, ribattezzata Halaib, opera con la flotta del Cairo. Unità da circa 3500 tonnellate, la nave egiziana sarebbe una habituè di Porto Sudan ed è molto probabile che con i suoi carichi abbia contribuito notevolmente ad alimentare le milizie tigrine, per il tramite sudanese.
Senza riepilogare nel dettaglio i due anni di conflitto, alle quali Analisi Difesa ha dedicato ampio spazio in precedenti articoli, ricorderemo che all’origine della contesa ci fu nel 2018 la fine dell’egemonia politica che il partito tigrino TPLF aveva esercitato per lungo tempo ad Addis Abeba e il suo successivo arroccamento nella propria regione etnica del Tigrè.
Lo scoppio del conflitto il 3 novembre 2020, dopo che i tigrini avevano preso il controllo degli arsenali governativi nella loro regione, fu seguito, fino alla primavera 2021, da una fase in cui l’esercito etiope invaso il Tigrè. Ma il TPLF, con una strategia guerrigliera “maoista”, ritirandosi dalle città, come la capitale regionale Macallè, si riorganizzò e passò alla controffensiva, espellendo i militari dell’ENDF dal Tigrè e perfino avanzando verso Addis Abeba fino al novembre 2021.
L’esercito etiopico, rafforzato da forniture d’armi da vari attori, come Turchia, Cina ed Emirati Arabi Uniti, in particolare grazie ai droni turchi Bayraktar TB-2, riuscì poi a fermare il TPLF sul suo slancio e a farlo ritirare di nuovo verso Nord, sebbene nel frattempo scontasse l’estendersi di altre rivolte endemiche, come quella degli Oromo, avanzando ancora fino alle soglie del Tigrè. Un primo cessate il fuoco venne proclamato dal governo centrale il 24 marzo 2022, aprendo a tentativi di negoziato che facevano molto affidamento alla mediazione del presidente kenyano Kenyatta.
In luglio l’esercito di Abiy varò un comitato che partecipò a colloqui con il TPLF nelle sedi neutrali delle Seychelles e di Gibuti, promettendo il ritiro delle truppe. I negoziati decisivi erano previsti a Nairobi, ma la sconfitta elettorale di Kenyatta, rimpiazzato ai vertici del Kenya da William Ruto, pare abbia contribuito a togliere credibilità al processo di pace.
La tregua di fine marzo è saltata il 24 agosto 2022, quando le due parti si sono accusate a vicenda di aver ripreso gli scontri nella città di Kobo. Lo stesso giorno, gli etiopi dichiaravano d’aver “abbattuto un aereo proveniente dal Sudan che portava armi al TPLF”. A Kobo pare fossero impegnate 20 divisioni etiopiche, ma dopo aspri combattimenti, entro il 27 agosto è stato il TPLF a occupare la città. Intanto, il giorno 26, vecchi caccia Mig-23 dell’aviazione etiopica hanno bombardato un asilo di Macallè, come confermato dall’UNICEF, causando un minimo di 4 morti, di cui 2 bambini, sebbene il Guardian abbia parlato di 7 morti di cui 3 bambini.
In quell’occasione, il tigrino divenuto più famoso nel mondo a seguito della pandemia Covid-19, il direttore dell’OMS Tedros Ghebreyesus, aveva dichiarato con rara efficacia, per sensibilizzare il mondo: “Ho molti parenti lì. Vorrei inviare loro del denaro. Non riesco a farlo, non so neanche se siano vivi o morti. Posso dire che la crisi umanitaria nel Tigrè è più grave di quella dell’Ucraina, senza esagerazione. L’ho già detto mesi fa. Forse il motivo è il colore della pelle della gente del Tigrè”.
Dal 1° settembre Etiopia ed Eritrea hanno annunciato l’inizio di una grande offensiva a tenaglia sul Tigrè. Già il 4 settembre venivano segnalati combattimenti lungo la fascia di confine fra Etiopia, Eritrea e Sudan, nelle zone di Dima e Qudimah, allo scopo evidente di tranciare le vie di rifornimento d’armi aperti dal governo di Khartum per i tigrini.
Il governo sudanese, che comunque non intende farsi coinvolgere direttamente nei combattimenti, ha ordinato l’evacuazione del centro per profughi etiopi di Hamdayet, che si trova in un territorio da tempo conteso fra Addis Abeba e Khartum, il Grande Al Fashaga. Il 5 settembre Al Sharq riportava che ieri che un ufficiale etiope e i suoi soldati, in fuga dal TPLF, si sono consegnati alle guardie di frontiera sudanesi.
Intanto l’esercito etiopico appoggiato dalle milizie Amhara attaccava lungo il confine del Tigrè presso Addi Arkay, avanzando di 20 km lungo la strada provinciale B30 ed espugnando May Tsemere il 7 settembre.
Le truppe dell’Eritrea, dal loro versante, avanzavano in quei giorni entrando a Rama, a 50 km a Nord di Adua, Zalambessa (60 km a Nord di Adigrat) e Dallol, concentrandosi poi nell’aggiramento da Est e Ovest di Adigrat, sottoposta dal 7 settembre a durissimi cannoneggiamenti. Il giorno 8 gli eritrei cominciavano aspri combattimenti presso Shiraro, destinati a portarli entro il 13 settembre a conquistare la città. Frattanto, il 12 settembre si accendevano furiosi attacchi governativi e Amhara contro le posizioni del TPLF nella zona del Woreda Qwara. L’indomani, 13 settembre, i tigrini hanno denunciato un bombardamento aereo su Macallè effettuato con droni, che avrebbe causato almeno 10 vittime civili.
E’ stato in quei giorni che l’Unione Africana ha iniziato a tornate alla carica per proporre nuovi negoziati, ma sebbene la dirigenza del TPLF si sia detta in linea di massima favorevole, a patto che si ritirassero tutte le forze nemiche comprese le milizie Amhara, questi primi approcci sono falliti.
D’altronde, l’Eritrea, annunciava dal 14 settembre una mobilitazione di massa per tutti i suoi cittadini maschi di età inferiore a 55 anni, dopo che nei giorni precedenti il regime dell’Asmara, guidato da Isaias Afewerki, aveva già proceduto ad arruolamenti forzati anche di ragazzi di 15-16 anni. Il 20 settembre, Getachew Reda ha denunciato l’avvio di una vasta offensiva eritrea sulla frontiera settentrionale del Tigrai, presso le località di May Kuhli, Zban Gedena, Adi Awala, Rama, Tserona e Zalambessa. Contemporaneamente agli eritrei, si sono rimessi in moto quel giorno le milizie Amhara e Fano, a insidiare le formazioni tigrine nel Sudovest.
L’inviato speciale americano Mike Hammer, aveva già allora espresso preoccupazione per questa recrudescenza della guerra, soprattutto temendo per la violazione dei confini etiopici da parte degli eritrei, seppure di fatto alleati di Addis Abeba. Il 23 e 24 settembre, l’aviazione etiopica ha attaccato ancora con droni Macallè, uccidendo civili e distruggendo persino un automezzo del World Food Program impegnato nel trasporto di cibo e medicinali aiuti da Scirè a Zana. Anche gli eritrei utilizzavano droni, come i cinesi Wing Loong avuti per il tramite degli Emirati Arabi Uniti, per attacchi di interdizione come quelli del 27 settembre e 5 ottobre su Adi Dairo, con l’uccisione totale di circa 65 persone.
Le crescenti difficoltà del TPLF nell’arginare gli svariati nemici che in pratica ne circondavano il territorio, si confermavano il 2 ottobre, quando le milizie tigrine annunciavano che parte delle proprie forze schierate nel Sud a fronteggiare gli Amhara, dovevano essere ridispiegate nel Nord contro gli eritrei.
Campagne d’autunno
Le testate britanniche BBC e iNews, rispettivamente il 16 e 24 ottobre riportavano le analisi dell’esperto norvegese Kjetil Tronvoll, studioso di conflitti alla New University College di Oslo, che paragonava le tattiche d’assalto a ondate delle fanterie della Prima Guerra Mondiale con quelle tutt’oggi adottate dalle truppe etiopiche e eritree contro le linee difensive tigrine.
Per Tronvoll, “non è il conflitto russo-ucraino la maggior guerra attualmente in corso sul pianeta, ma quella etiopica”, calcolando che siano in totale coinvolti “1 milione di combattenti” di tutte le parti. “La carneficina è orrenda -ha scritto Tronvoll su Tweet- e solo nelle ultime settimane sono stati annientati 100.000 soldati”.
L’analista norvegese ritiene che l’esercito di Addis Abeba stia adottando lo stesso tipo di spallate già abituali nel conflitto contro l’Eritrea del 1998-2000: “Voi avete migliaia di soldati che corrono sul campo di battaglia tentando di raggiungere la linea nemica. E ovviamente la prima, la seconda e la terza ondata verranno decimate. Ma quando arriva la quarta ondata, le forze tigrine hanno esaurito le munizioni e vengono soverchiate.
Così riescono ad avanzare di poche centinaia di metri, come fecero gli eserciti europei del 1914-1918, e sappiamo che le stesse tattiche sono state usuali nella guerra Etiopia-Eritrea fra il 1998 e il 2000”.
Non stupisce che lo studioso norvegese sia convinto che quello etiopico sia il maggior conflitto dei giorni nostri. Inoltre ritiene che per il TPLF un colpo gravissimo sia stata la progressiva perdita di città conquistate dai governativi etiopi fra settembre e ottobre, come Scirè, Alamata e Korem. In particolare, la presa di Scirè, dotata di un grande aeroporto e di agevoli collegamenti stradali con Macallè, sarebbe una svolta importante in favore delle truppe di Addis Abeba, che secondo Tronvoll “credono di poter raggiungere Macallè e uccidere migliaia di soldati del TPLF”.
Ancora la BBC, il 19 ottobre interpellava Alex de Waal, direttore dell’americana World Peace Foundation, che valutava le truppe impegnate nel conflitto in un totale di almeno 700.000, di cui “500.000 degli eserciti etiope ed eritreo e 200.000 delle milizie tigrine”.
De Waal prevedeva che le difese tigrine attorno a Scirè non potessero ormai resistere a lungo a causa dell’esaurimento delle munizioni, oltre che della minaccia della fame per la popolazione locale. Un anonimo funzionario di una ong, per dare l’idea dell’immane tragedia in atto in quei giorni, ben più crudele del dramma dell’Ucraina, parlava alla testata britannica di “stupri, uccisioni indiscriminate di civili in fuga da Scirè e i cui cadaveri spesso erano dilaniati da animali selvatici, in particolare iene”.
Violenze che, a quanto pare, sarebbero commesse da ambo le parti, poiché “entrambe le parti stanno perdendo soldati e quando entrano in un villaggio sfogano la loro rabbia sugli abitanti locali”.
Il già citato esperto Abdurahman Sayed corrobora il quadro di un impiego di fanterie come carne da cannone, in cui è importante solo il numero indipendentemente dalla qualità: “Le persone vengono coscritte negli eserciti e, dopo poche settimane di addestramento, mandate in gran numero attraverso campi minati in direzione delle trincee del nemico.
Gli avversari aprono il fuoco, ne uccidono molti, ma essi mantengono la pressione a ondate finchè il nemico esaurisce i proiettili e gli attaccanti occupano le trincee”.
Un modo di operare di cui Sayed individua le origini molto indietro nella storia dell’Etiopia: “E’ un vecchio modo di combattere. E’ stato usato per la prima volta dal re d’Abissinia per sconfiggere gli invasori italiani negli anni attorno al 1890. A dispetto del loro superiore volume di fuoco, gli italiani vennero sopraffatti dalla pura forza del numero dei guerrieri con cui si confrontarono”.
Il riferimento storico dell’esperto africano, avaro di dettagli, è certamente alle battaglie di fine XIX secolo che vide il Regio Esercito sconfitto dai guerrieri del negus Menelik II, anche a causa della scarsa conoscenza dell’aspro territorio etiopico, in primis l’annientamento dei reparti comandati dal maggiore Pietro Toselli sull’Amba Alagi il 7 dicembre 1895, e, pochi mesi più tardi, l’assai più famosa disfatta subita dal generale Oreste Baratieri ad Adua il 1° marzo 1896.
Dopo quasi 130 anni, in una regione dell’Africa fra le più popolate e a maggior tasso di natalità, è chiaro che il “materiale umano” resta la principale risorsa di guerra, oseremmo dire praticamente inesauribile, ed è comprensibile l’interpretazione degli analisti che studiano i drammi del Corno d’Africa. Mentre i tigrini, ancora negli ultimi mesi di combattimenti, hanno dovuto fare i conti con rifornimenti insufficienti, soprattutto per via sudanese, l’Etiopia e l’Eritrea, aperte alle vie di comunicazioni mondiali per via aerea o marittima, e con potenti alleati, non hanno mai avuto un sostanziale problema di approvvigionamenti.
La chiave per costringere infine il TPLF a sedersi al tavolo negoziale e poi ad accettare procedure di disarmo, è stata quindi durante questi ultimi combattimenti d’autunno, esaurirne le energie al di sotto di un livello tale da far balenare una totale disfatta. In tutto questo, ha giocato la sua parte anche il totale dominio dell’aria esercitato da Addis Abeba grazie ai droni Bayraktar TB-2 comprati dalla Turchia, ai quali sarebbero da aggiungere anche droni iraniani Mohajer-6 che secondo gli Stati Uniti Teheran ha iniziato a consegnare alle truppe di Abiy Ahmed dal 2021.
Attacchi con droni su obbiettivi militari, ma anche civili, per demoralizzare la popolazione tigrina e intiepidirne l’appoggio al TPLF, uniti a cariche di fanteria sacrificabile per far consumare munizioni al nemico, hanno infine segnato il successo delle campagne d’autunno finali della coalizione anti-tigrina.
Assalito da tre fronti, dalle truppe governative etiopiche ENDF nonché da milizia etniche pro-governative Ahmara e anche Fano, e dagli eritrei, il TPLF si è definitivamente trovato a malpartito a partire dal 17 ottobre, quando la città di Scirè, cerniera tra il fronte etiopico e quello eritreo, è stata infine presa da entrambi gli eserciti dopo giorni di offensiva a tenaglia con pesanti bombardamenti con artiglieria e droni, soprattutto sulle strade. In un territorio brullo, la lotta per le vie di comunicazione terrestri resta cardinale, per impedire l’arrivo di rinforzi avversari, o minacciare di tagliarne le ritirate spingendoli così a più lesti ripiegamenti.
Così, le forze etiopiche ed eritree, da Scirè hanno proseguito l’avanzata verso est, lungo la strada B30, conquistando il 19 ottobre Selekleka e il 22 ottobre Wukro, per poi proseguire su Axum e Adua, catturate con scarsa resistenza da parte tigrina. Intanto, altri corpi etiopici, insieme ai miliziani Amhara e Fano, avanzavano lungo un tratto più meridionale della B30, nelle aree di confine fra Tigrè e regione Amhara. Frattanto, più a Sud, l’ENDF sfondava verso Alamata allargandosi in seguito a ventaglio. Da Alamata, poi, gli etiopi sono avanzati il 22 ottobre su Kersole arrivando infine al limitare della regione dell’Afar. Anche Adua veniva raggiunta dall’ENDF.
Le truppe governative etiopiche hanno in sostanza preso il controllo del Tigrè meridionale e di un tratto di autostrada A2 che potrebbe portarle a nord verso Macallè, mentre nel Nordovest si sono congiunte con gli eritrei a Scirè potendo poi dare origine a un’ala per accerchiare Macallè alle spalle. Nell’ultima settimana d’ottobre, gli etiopi controllavano le strade B30 e B20. Il 24 ottobre, in particolare, la B30 è stata conquistata per intero dall’esercito federale, con due avanguardie che avanzavano simultaneamente da nord e da sud.
All’avvio dei colloqui di Pretoria, il TPLF era arroccato soprattutto nella parte nordorientale del Tigrè, dove aveva raccolto il grosso delle sue forze, progressivamente costrette a indietreggiare per non farsi imbottigliare dalla progressiva caduta in mani avversarie delle maggiori vie di comunicazione. Le milizie tigrine, nonostante le sconfitte sul campo, sarebbero riuscite nella maggior parte dei casi a ritirarsi in relativo ordine e limitando le perdite. Dovrebbero quindi aver conservato una residua forza sufficiente a difendere perlomeno la porzione del Tigrè rimasta sotto il loro controllo. Del resto, il capo politico del TPLF, Debretsion Gebremichael, ancora il 28 ottobre dichiarava “inevitabile la vittoria”, e osservando: “Andiamo ai colloqui in Sudafrica mentre stiamo ancora combattendo. Quelle forze nemiche che sono entrate nel Tigrè verranno seppellite”.
Incognita eritrea
Due sono le grandi incognite che aleggiano sulla possibilità di una reale pacificazione della regione. La prima è costituita dall’Eritrea, che si ritrova in un certo senso “spiazzata” dall’accordo intra-etiopico dopo che tanto aveva scommesso sulla discesa in campo a fianco di Addis Abeba contro i tigrini fin dal 2020, vedendovi una sorta di rivincita per la guerra del 1998-2000, quando l’Etiopia tutta era guidata da un governo formato dal TPLF.
La seconda è quella delle altre etnie ribelli, soprattutto gli Oromo, che proprio col TPLF avevano stretto alleanza contro il governo di Abiy Ahmed, reo di perseguire da tre anni lo smantellamento di un imperfetto, ma realistico, federalismo etnico in favore di un centralismo più “trasversale”.
Già abbiamo visto che il conflitto sul fronte Oromo continua strisciante, ma anche sul versante eritreo, la guerra potrebbe di nuovo riaccendersi, se il governo dell’Asmara dovesse ritenere di essere stato semplicemente “utilizzato” da Addis Abeba solo finchè era ritenuto opportuno per piegare il TPLF. Ciò ribalterebbe gli scenari portando, forse, a una tensione Etiopia-Eritrea come quella che, peraltro, è durata decenni ed era stata risolta solo nel 2018 da Abiy Ahmed, che non a caso aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Ma la pace d’interessi, dettata da un comune contrapporsi ai tigrini come entità etno-politica, può rivelarsi assai effimera e riportare indietro la regione di vent’anni.
Il Dipartimento di Stato USA, in una conferenza stampa diplomatica tenutasi il 15 novembre a commento del processo di pace (disponibile on line all’indirizzo https://www.state.gov/briefing-with-senior-state-department-official-on-the-situation-in-ethiopia/ ) ha affermato, a monito, che uno dei punti più cruciali del secondo accordo, quello militare, raggiunto da etiopi e tigrini a Nairobi si riferiva proprio all’accenno, velato, alla presenza eritrea entro i confini dell’Etiopia, che ora non avrebbe più ragion d’essere: “E’ stato il primo riconoscimento, in essenza, che ci sono forze eritree operanti all’interno dell’Etiopia e c’è ora chiara consapevolezza che si devono ritirare”.
Nella conferenza stampa del Dipartimento di Stato, a una specifica domanda su “cosa accadrà se gli eritrei non si ritireranno?”. Al che, il funzionario americano ha risposto cautamente, ma evocando possibili tensioni: “Certamente l’accordo richiede la ritirata non solo delle truppe dell’Eritrea, ma anche delle milizie Amhara e Afar che al momento si trovano nel Tigrè. Non intendo gettare lo sguardo avanti nei termini di cosa succederà se questi impegni non verranno osservati, poiché quello che stiamo sentendo dal governo dell’Etiopia e certamente anche dalla controparte, cioè le autorità tigrine, è che sono impegnati a far sì che ciò accada”.
Gli americani si dicono inoltre pronti a sfoderare “lo strumento delle sanzioni” per assicurare l’osservanza degli accordi, ribadendo comunque che “il ritiro di tutte le forze non-ENDF è nell’interesse di entrambi”, cioè di Addis Abeba e Macallè. A questo punto, si rafforza l’impressione che l’Eritrea non accetterà facilmente di essere trattata da mero “strumento”, tenuto fuori dai negoziati perchè il suo ruolo nel conflitto è sempre stato, per due anni, misconosciuto e ufficialmente negato da Abiy.
Ma se il governo di Afwerki si opporrà a che ci si disfi delle sue forze che ora “non servono più”, porrà il seme di una ripresa del conflitto in una forma più simile alla guerra terminata nel 2000 e a incidenti di frontiera susseguitisi anche negli anni seguenti. Sotto tale aspetto, il fatto che in molte zone del Tigrè, come nell’area di Scirè, truppe etiopiche e truppe eritree siano tuttora accampate praticamente fianco a fianco nei corridoi territoriali scaturiti nelle ultime settimane di offensiva comune per circondare le milizie tigrine, non fa che aumentare esponenzialmente il pericolo di improvvisi e sanguinosi scontri fra ex-alleati.
Se ne rendono ben conto ad Addis Abeba, dove il 19 novembre, sul giornale The Reporter, Ashenafi Endale scriveva: “L’assenza di chiarezza sul ritiro delle forze eritree dall’Etiopia Settentrionale sta mandando segnali confusi a livello locale e alle potenze straniere”.
E precisava: “Non c’è alcuna precisa indicazione su quando, e se, le forze eritree dovrebbero indietreggiare sulla loro linea di confine pre-2020 o tentare di inglobare Badme, il controverso villaggio di confine che potrebbe rimettere in discussione gli accordi di Algeri”.
Il commentatore etiope si riferiva agli accordi che nel 2000 posero fine alla guerra etiope-eritrea, anche se solo nel 2018 la “nuova Etiopia” di Abiy Ahmed accettò infine di ritirare proprie truppe dalla contesa area di Badme. L’esperto eritreo Fikrejesus Amahazion, d’altronde, ha scritto già il 26 ottobre: “Ci sono stati numerosi esempi di disinformazione durante questo devastante conflitto, e uno dei più persistenti e dannosi concerne l’affermazione che il TPLF sia genuinamente in favore della ricerca della pace. E’ solo il rovesciamento della realtà”.
L’eritreo ha poi accusato il TPLF, prima del 2018 alla guida del governo di Addis Abeba, delle ripetute violazioni degli accordi di Algeri sui confini tra Eritrea ed Etiopia. Se oggi il premier etiope Abiy Amhed ha scelto infine di firmare accordi con il Fronte tigrino, che fino a pochi mesi fa considerava un “movimento terrorista” da eliminare totalmente, significa che, in fin dei conti, ha optato per un compromesso con l’etnia ribelle più forte militarmente, pur di non rischiare di mandare in pezzi il paese, spezzando nel contempo l’alleanza fra i tigrini e altri ribelli come gli Oromo.
Ma all’Asmara, che in questa guerra tanto ha investito in termini politici e militari, lo “sgarro” dopo che per due anni si è combattuto contro un comune nemico, potrebbe scavare di nuovo un fossato con Addis Abeba forse foriero di nuovi combattimenti. A meno che le rispettive diplomazie, oltre alle potenze straniere in gara per l’influenza sugli attori locali, non si muovano d’anticipo per chiarire prevedibili malintesi e disinnescare nuove imprevedibili fasi.
Intanto, il 2 dicembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato di non avere avuto ancora libero accesso al Tigrè, stando al suo portavoce Michael Ryan: “Questo processo di pace non ha ancora portato il pieno, libero accesso e la massiccia crescita di assistenza medica e sanitaria di cui hanno bisogno i cittadini del Tigrè.
Aspettiamo da lungo tempo di avere accesso a queste persone disperate. Vediamo un certo aumento degli accessi, in termini di alcuni del nostro personale fatti entrare, ma è una percentuale minuscola dei bisogni della regione”.
Al recentissimo vertice USA-Africa, ospitato a Washington dal 13 al 15 dicembre, con la partecipazione di 50 nazioni africane invitate dal presidente Joe Biden per tentare di contrastare l’influenza di Cina e Russia sul Continente Nero, Abiy Ahmed ha incontrato il segretario di Stato USA Anthony Blinken e ha concordato con lui “l’urgenza che le forze dell’Eritrea si ritirino dal Tigrè”.
E’ significativo che l’appello sia stato lanciato mentre era assente il presidente eritreo Afewerki, non invitato al vertice USA-Africa. Il che mostra come Addis Abeba possa sfruttare anche su platee occidentali la nuova priorità di tutelare il proprio confine internazionale, tuttora violato dall’esercito dell’Asmara, divenuto improvvisamente “ospite scomodo”.
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