La logica e la critica delle cose. A partire da Leopardi e Marx
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Intervista a Fabio Vander di Gabriele Zuppa.)
Nella puntata di Ottosofia che abbiamo dedicato a Leopardi e nella lectio introduttiva, dalla ricchezza sterminata contenuta nei suoi scritti, abbiamo deciso di attingere per fare il punto su una questione cruciale che è emersa finora costantemente: com’è possibile creare un soggetto politico che si costituisca come alternativa alla direzione neoliberista che caratterizza esplicitamente l’Occidente?
La costruzione non sembra oggi possibile certamente per l’egemonia culturale che il neoliberismo esercita. Non è neanche possibile perché l’ethos della società capitalista è in ultima istanza neoliberale.
Così la questione si mostra come più drammatica perché il problema si mostra radicato.
Ma si potrebbe pensare che in fondo l’ethos sia tale a causa dell’egemonia culturale. In questo caso, basterebbe – spinti dalle evidenze sulle catastrofi che vanno realizzando: sociali, militari, ambientali – sostituire un poco per volta alla narrazione imperante una nuova narrazione.
Tuttavia, ci dice Leopardi, con il potere lungimirante della sua comprensione filosofica delle strutture concettuali di fondo, non sono l’economia e la politica a dettare l’agenda neoliberale al mondo e formare così una visione del mondo ad essa funzionale; bensì è il contrario.
È una visione del mondo, è la comprensione del mondo che fa sì che l’ethos capitalista e neoliberale diventi dominante ed egemonico.
Non condivido l’impostazione delle vostre note introduttive circa lo stato delle cose, oggi, nel mondo.
È indubbio che l’egemonia capitalista si sia imposta definitivamente e su scala universale dopo la fine dell’ultimo grande “competitor” globale, il comunismo. Parliamo evidentemente del mondo dopo il crollo del muro di Berlino.
La vittoria, storica, epocale, del capitalismo è sotto gli occhi di tutti.
Di conseguenza «l’egemonia culturale che il neoliberismo esercita» costituisce ormai una sorta di «ethos della società capitalista», di senso comune, come l’aria che respiriamo.
Quello che mi lascia perplesso dei vostri spunti è l’asserito rovesciamento per cui «non sono l’economia e la politica a dettare l’agenda neoliberale al mondo e formare così una visione del mondo ad essa funzionale, bensì è il contrario». Né mi persuade leggere che «è una visione del mondo, è la comprensione filosofica del mondo che fa sì che l’ethos capitalista e neoliberale diventi dominante ed egemonico». Questa seconda affermazione mi pare tautologica, non riuscendo ad intendere la distinzione fra “visione del mondo” ed “ethos capitalista, egemone ecc.” È perché il neoliberismo è riuscito a imporre la propria “visione del mondo” (i suoi ‘valori’: l’individualismo, la concorrenza, il privatismo, la meritocrazia, ecc.), che ha imposto il proprio “ethos” come norma, anzi normalità, senso comune ecc.
Quanto al primo punto resto convinto, marxianamente se volete (ma non dimentichiamo Carl Schmitt: «cuius aeconomia eius regio»), che è “l’economia” a determinare “l’immensa sovrastruttura” e dunque politica, cultura, morale ecc.
Certo il rapporto fra i piani è dialettico, ermeneutico nel senso di Gadamer: l’economico determina il politico-culturale, ma anche questo si rifrange sull’economico e lo investe, lo influenza. In altre parole resta per me vero che «la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia in ultima istanza determinante». «In ultima istanza» come scrive e sottoscrive Engels in una lettera del 1890. Nella quale aggiunge a scanso di equivoci: «né io né Marx abbiamo mai affermato […] che il momento economico risulti essere l’unico determinante». Parole chiare, direi. Tali da scongiurare ogni rischio di determinismo, economicismo, malinteso “strutturalismo”.
Ma tutto questo ha a che vedere anche con un altro passo delle vostre note, quello in cui dite che la priorità oggi, per una cultura e una pratica critica, è «sostituire un poco per volta alla narrazione imperante una nuova narrazione». Detta così è troppo semplice. Anche per questo profilo continuo infatti a ritenere che si debba aggredire criticamente prima il piano economico e solo di conseguenza quello della “narrazione”.
Riprendiamo a criticare il capitalismo, il resto verrà da sé. E comunque dopo.
Che cos’è il capitalismo?
A nostro avviso è senz’altro una forma di sfruttamento.
Lo sfruttamento, presente ben prima della sua forma capitalistica, consiste nella sottrazione, nell’estorsione della forza-lavoro. È evidente nella schiavitù e nella servitù.
Lo sfruttamento è la violazione di quel principio che afferma che il valore di qualcosa dipende – anche, ma non solo – dalle energie profuse per la sua disponibilità.
Ordunque, come si è affermata l’età della proprietà privata dei grandi capitali, cioè della proprietà privata capitalistica?
Con l’appoggio della società in generale e, soprattutto, del potere politico in particolare.
Sì che, spiega Braudel, «il capitalismo è impensabile senza la complicità attiva della società» (F. Braudel, La dinamica del capitalismo, 1977).
Infatti, la storia comparata mostra che lo Stato moderno occidentale – «che non ha costruito il capitalismo ma lo ha ereditato» – ha deciso di servirsi del capitalismo, laddove in Cina, per esempio «le famiglie troppo ricche e potenti sono, per principio, sospette allo stato». «Lo stato cinese, malgrado le complicità locali di mercanti e mandarini corrotti, è stato sempre tenacemente ostile alla proliferazione del capitalismo» (F. Braudel, op. cit.).
Questo porta a considerare che la proprietà privata capitalistica può espandersi perché viene considerata come valore da perseguire.
Domanda capitale. Nella vostra nota scrivete: «è senz’altro una forma di sfruttamento. Lo sfruttamento, presente ben prima della sua forma capitalistica, consiste nella sottrazione, nell’estorsione della forza-lavoro. È evidente nella schiavitù e nella servitù». Definizione esatta nella sostanza. Con gli ovvi aggiornamenti, l’analisi dei classici intorno alla natura del capitalismo rimane ancora valida e stimolante.
Ma c’è anche un’analisi contemporanea del capitalismo utile in prospettiva tanto gnoseologica, quanto critica. Penso ad un classico-contemporaneo come Il Capitale del XXI secolo di Piketty, alla produzione di Žižek, alla scuola francese (che amo meno), al pensiero critico americano ma anche italiano.
Vorrei qui brevemente richiamare le analisi di Nancy Fraser e Rahel Jaeggi, perché mi permettono di riprendere il ragionamento già iniziato con la prima domanda. La conversazione fra le due studiose già nel titolo Capitalismo dà il senso della discussione, tanto più che, ricordano, il progetto neo-liberista, per quanto privo ormai di alternative globali, è stato comunque investito dalla crisi generale del 2008. Ma dicono anche: è giunto il momento di “una teoria critica della società capitalistica”. Più che ragionare del capitalismo in astratto riprendiamo dunque a ragionare della critica del capitalismo. Non in astratto, ma in concreto. Cioè politicamente.
Capire quindi le cose, ma per cambiare. Pensare il mondo, ma per trasformarlo.
Da dove partire? Per le due autrici la contraddizione capitale-lavoro rimane centrale. E questo nonostante che il capitalismo di oggi sia segnato anche da altre contraddizioni, che si aggiungono però, non sostituiscono quella fondamentale.
La nuova “narrazione” del pensiero critico deve dunque saper mantenere l’essenziale della “narrazione” classica. Non partire per la tangente del nuovismo.
Solo con questa accortezza sarà poi possibile valutare ed apprezzare le nuove contraddizioni: di genere, razziali, fra sviluppo e ambiente.
Ora a mio avviso la critica dell’esistente deve però fondarsi su un preciso presupposto teorico: la natura dialettica del rapporto struttura/sovrastruttura. Ferma restando la decisività di ultima istanza del piano economico-strutturale, pure è innegabile l’importanza della politica, della cultura, della morale ecc. E se Marx considerava di natura critica la dinamica stessa produzione-riproduzione, per cui si cambia il mondo, cambiando se stessi, perché critico per natura è il mondo che intendiamo criticare e perciò critici (aperti, consapevoli, organizzati) dobbiamo essere anche noi, i soggetti di un cambiamento possibile.
Occorre lavorare sulla criticità (i.e. contraddittorietà) dell’esistente. Questa critica della critica è a mio avviso il senso profondo della rivoluzione.
Che cos’è il neo-liberismo?
Noi diremmo che è quella versione del capitalismo che non riconosce più limitazioni eventuali al successo guadagnato in termini di ricchezza, poiché l’avercela fatta è con ciò la prova di esserselo meritato. Il liberalismo originario si muoveva ancora all’interno di quella concezione del mondo tradizionale che la filosofia avrebbe presto dissolto, come previde Leopardi, contribuendo alla sua dissoluzione. Il neoliberismo si muove all’interno di un mondo in cui la tradizione è nelle fasi avanzate di dissolvimento.
Il neo-liberismo è la fase suprema del capitalismo. È il capitalismo scatenato dopo la fine del comunismo (fermo restando che i primordi reaganiani e thatcheriani del neoliberismo furono decisivi per la crisi finale del comunismo sovietico).
Nelle vostre note richiamate Leopardi con riferimento alla crisi dei presupposti filosofici della modernità. E dunque dell’egemonia capitalistica.
Almeno il capitalismo della prima modernità, quello che poteva aver presente Leopardi, certamente, come scrivete voi, si muoveva «all’interno di quella concezione del mondo tradizionale che la filosofia avrebbe presto dissolto, come previde Leopardi, contribuendo alla sua dissoluzione»; altrettanto vero però che l’odierno neo-liberismo si muove a sua volta entro «un mondo in cui la tradizione è nelle fasi avanzate di dissolvimento».
Il punto è allora: quale alternativa? E quale pensiero, quale filosofia per l’alternativa?
Quando prima parlavo di una necessaria critica della critica, cioè della presupposizione del carattere critico, negativo, transeunte del presente, intendevo questo come il presupposto di qualsiasi nuova critica e critica radicale, di sistema.
Certo un progetto di questa ambizione deve fondarsi su un modello teorico preciso. Ebbene la critica “alla concezione del mondo tradizionale” a mio avviso ha ancora oggi i suoi presupposti teorici in Hegel, in Leopardi, in Marx.
Forse è più originale e interessante concentrarsi su Leopardi.
Giacomo Leopardi è un classico moderno. Ha davanti agli occhi la Rivoluzione e la Restaurazione, sia gli eccessi dei giacobini, che gli eccessi dei reazionari.
Non è un po’ la nostra condizione oggi? Dopo il “secolo breve” dei totalitarismi, del comunismo/bolscevismo e del fascismo/nazismo.
Leopardi cercò la soluzione nei classici (i Greci, Machiavelli, Vico), dovremmo farlo anche noi. Ripartendo dai classici moderni: appunto Hegel, Marx, Leopardi. Il Leopardi che contro gli opposti estremismi invita a coltivare quella «‘civiltà media’ in cui natura e ragione si equilibrano».
«Civiltà media» che non è mediocrità, non è moderatismo, ma al contrario è senso della politica, gusto della mediazione fra natura e ragione, forza e coscienza, economia e politica. La phrònesis dei Greci.
Questa è la alternativa neo-classica, nel senso letterale e pieno del termine, alla crisi del Moderno, della Politica, del Capitalismo.
Quella di Leopardi era una lucida mente politica. Non il poeta della “donzelletta” e degli “augelli”. Per lui ragione della “società perfetta” non significò mai il regno dell’Assoluto, ma al contrario: «una forma di società, in cui gl’individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente». Ecco dunque l’ultima parola di una nuova politica classica: una società in cui gli «individui cospirano tutti e sempre al ben comune, e si giovano scambievolmente».
Bene comune e social catena fra gli esseri umani. Una lezione che parla anche a noi.
Qual è la filosofia del nostro tempo? Il Postmoderno?
Il Postmoderno, che ha dichiarato la fine delle metanarrazioni, ossia – per usare un termine tradizionale – della verità, che almeno con Kant e Leopardi è già considerata illusione. Perciò non c’è nessuna realtà se non quella che si riesce a costruire e in cui ciascuno di noi, individualmente, crede. Nessuno – si dice – deve avere la pretesa di indicare agli altri ciò in cui credere.
Fate bene ad individuare la retorica “del nostro tempo” nel Postmoderno. In quella ideologia della fine delle metanarrazioni che è la prima e la più radicale delle narrazioni farlocche. L’ideologia dello stato di cose presenti.
La domanda l’abbiamo già posta: quale alternativa? Una risposta ho provato ad articolarla rispondendo alle precedenti domande.
Vorrei integrare il discorso rispondendo ad alcune domande particolari che mi rivolgete a partire dal mio commentario ad una antologia da me curata del Leopardi politico.
Nell’introduzione a Lo Stato libero e democratico. La fondazione della politica nello Zibaldone, riprendendo una tesi già di De Sanctis, scrivi che «con Leopardi inizia la “dissoluzione del mondo teologico-metafisico” tanto della reazione quanto del progressismo». In che cosa consiste questa dissoluzione e come viene compreso e recepito il contributo di Leopardi?
In parte ho già risposto. Leopardi è alle prese con la fine della Rivoluzione francese e con l’età della Restaurazione. Non si limita a prendere atto della “dissoluzione” (dell’ancien régime, del nouveau e del neo-ancièn), cerca le ragioni teoriche della crisi, sapendo che la loro esatta individuazione è la premessa di ogni possibile alternativa. Ora a mio avviso si tratta proprio del Postmoderno di cui si diceva, ma da intendersi rigorosamente come Ontologia della Modernità, ipostatizzazione dell’Essere dell’esistente. Una teoria/ideologia già alla base dell’Essere Supremo di Robespierre, ma anche della Restitutio reazionaria del Vero, Santo, Eterno ecc.
Impostando il discorso in questi termini, cioè di individuazione e critica dei presupposti della crisi, Leopardi apre alla ricerca di possibilità altre ed inedite. La sua è una critica ante litteram del There Is Not Alternative.
Alternativa c’è sempre. Perché alternativo è il mondo. Alternativo, cioè problematico, conflittuale, contendibile, relativo, transeunte.
Certo l’alternativa bisogna saperla poi concretamente costruire e praticare. Serve perciò una soggettività critica, un progetto, una organizzazione, una cultura politica, una classe dirigente.
Il problema della politica dopo Rivoluzione/Reazione è in fondo, mutatis mutandis, il problema anche nostro, di noi nipotini del “secolo breve”.
Il titolo della tua introduzione all’antologia appena citata è Il sistema della politica, in essa sostieni che ogni riflessione non può che essere e non può che ambire ad essere sistematica, ogni tesi trova il suo senso nella combinazione con le altre ecc. Come si concilia però questo elemento con gli scrittori di aforismi in generale e, nel particolare, con chi ci ha lasciato in eredità uno Zibaldone?
A mio avviso lo Zibaldone di Leopardi è un’opera integralmente sistematica. C’è dietro un pensiero, una struttura, una intentio conclamata e rivendicata. C’è del resto in tutti i grandi scrittori di aforismi, dai Pensieri di Pascal, ai Quaderni del carcere di Gramsci, ai Quaderni Neri di Heidegger, ai Quaderni di Cioran, fino a Nietzsche e Gómez Dávila.
Leopardi ripete infinite volte nello Zibaldone la formula «il mio sistema» ed anzi scrive: «qualunque vero pensatore, non può assolutamente fare a meno di non formarsi, o di non seguire o generalmente di non avere un sistema».
Un dovere per il “vero pensatore”, ma anche per il vero lettore.
Fra Gentile che parlava dello Zibaldone come insieme di «detriti» della successiva produzione poetica e Severino che sottolinea la «potenza filosofica» di Leopardi e respinge le tesi di uno Zibaldone «irrimediabilmente frammentario» preferirò sempre, ovviamente, questa seconda interpretazione.
Un tuo saggio recente, del 2021, si intitola Che fare? Crisi e critica della sinistra. Ritieni che la crisi della sinistra abbia a che fare con l’aspetto centrale della riflessione politica e civile di Leopardi? Mi riferisco alla tendenza della politica a perdere di respiro e prospettiva, per risolversi in interesse per il “particulare” e il personale, senza «nè legame nè rapporto nessuno interiore col resto degli uomini». Da segnalare anche un passo in cui Leopardi cita Rousseau: «I politici antichi parlavano in continuazione di costumi e di virtù; i nostri non parlano che di commercio e denaro».
È l’ethos del capitalismo a far sì che un’alternativa non sia possibile poiché da due secoli non esiste un’alternativa valoriale? E questa mancanza di alternativa etica comporta che possano bensì formarsi delle organizzazioni politiche, ma che siano destinate – per l’inevitabile conflittualità egoistica – ad essere passeggere e/o modeste?
Come sai l’originale francese di questo passo di Rousseau ripreso da Leopardi l’ho posto ad exergo della già citata antologia del Leopardi politico.
Senza dubbio la crisi della sinistra è tutta dentro la crisi della modernità politica di cui abbiamo discorso fino adesso. Non c’è sinistra fuori della dimensione del Moderno e dunque della sua crisi. Sia della modernità rivoluzionaria, sia anche di quella reazionaria, perché abbiamo condiviso la stessa Epoca.
La fine del ‘900 ha significato la fine della sinistra finora realizzata. Quella comunista e socialista, rivoluzionaria e riformista, istituzionale e movimentista.
Non c’è da avere nessuna fiducia negli attuali partiti politici organizzati, in quello che ne resta, in Italia, in Europa, ovunque nel mondo, ma neanche avere alcuna fiducia nei movimenti, nelle reti, nei Green New Deals, nelle Grete ecc.
Resto convinto che occorra una rifondazione neo-moderna, i.e. neo-classica, della Modernità. Come dicevo: un nuovo Partito, una nuova Internazionale, una nuova Politica, una nuova Rivoluzione.
Certo non vorrei essere… nei nostri panni.
Vorrei insistere sulla questione marxista, che a mio avviso è cruciale, del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Anche l’analisi empirica della realtà attuale non dovrebbe forse condurci a ritenere che è la sovrastruttura a determinare la struttura? O, meglio, che la struttura è essa stessa il modo in cui i valori trovano la loro organizzazione sociale e politica?
È divenuto celebre questo slogan, a restituire la profondità del problema ambientale: “l’ecologismo senza lotta al capitalismo è giardinaggio”; a spiegazione del rinnovarsi delle vittorie del capitalismo, potremmo proporre questa sintesi: “la lotta di classe non può vincere il capitalismo perché, in ultima analisi, è interna al capitalismo stesso”. (Un approfondimento di questa tesi la si trova nel mio articolo Leopardi e il «sistema dell’egoismo»).
No, non sono d’accordo. Credo il fatto che la lotta di classe sia “interna al capitalismo stesso” sia la sua forza, non la sua debolezza. È possibile critica del capitalismo proprio in quanto la lotta di classe è “interna al capitalismo stesso”. Proprio in quanto il capitalismo è criticità, parzialità, conflittualità. Lo dicevamo sopra, confermo. È questo il motivo filosofico decisivo: la lotta di classe è un dato ontologico. Non ha molto senso dirsi favorevoli o contrari.
La contraddizione capitale-lavoro è l’essere dell’ente sociale. Del resto Marx ed Engels lo hanno scritto a chiare lettere: «la storia del mondo è storia di lotte di classe», da sempre e per sempre: «liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba», fino a capitalisti e proletari. Prima del capitalismo e dopo, se un dopo ci sarà, del capitalismo.
Tu senti l’esigenza di ritornare ai fondamenti e il tuo tentativo è quello di ripensare, come scrivi, la logica delle cose. Lo hai fatto, tra l’altro, seguendo lo sviluppo del pensiero di Marx ed Engels a partire dal loro carteggio. Ci daresti qualche suggestione di questo straordinario scambio epistolare e di che cosa tu intenda per logica delle cose?
Il mio ultimo libro, a cui hai accennato, si intitola La logica delle cose. La rivoluzione in Occidente nel carteggio Marx-Engels e inizia con queste parole: «La logica delle cose è dialettica. ‘Das innere der Sache’ lo è». La logica interna delle cose è precisamente quel dato ontologico di cui parlavamo poc’anzi: un dato conflittuale, una differenza ontologica nel senso proprio di costitutiva dell’essere stesso “delle cose”.
L’essere dell’ente è contraddizione. Questa per me è la logica delle cose.
Marx usa la formula “die Logik der Dinge” in una lettera del 1865 a Wilhelm Liebknecht per dire che se tutto è conflitto e dunque soprattutto lotta politica, il movimento operaio non deve mai cercare accordi di collaborazione con forze borghesi moderate, perché ne perderebbe di incisività e di potenza critica.
La logica delle cose riguarda insomma sia le cose in quanto tali, sia le cose politiche in particolare, sempre bisogna tenere aperta la strada per la critica, la vita, la rivoluzione.
A dieci anni dalla sconfitta del 1848 Marx scriveva ad Engels con lo sguardo fisso sull’Europa del suo tempo: “there is something moving again”.
Chissà se anche noi potremmo mai dirlo ancora di nuovo.
FONTE:https://www.gazzettafilosofica.net/2023-1/giugno/la-logica-e-la-critica-delle-cose/
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