I BRICS, l’Oro e la Dedollarizzazione
di TELEBORSA (Guido Salerno Aletta)
Oltre il fallimento di Bretton Woods e la drammatica presunzione dell’Euro
La Storia la scrivono i vincitori: e stavolta spetta alla Cina, che ha sbaragliato l’Occidente nel Ventennio della Globalizzazione. Assai meno impulsiva e presuntuosa degli Stati Uniti, che pretesero di subentrare al lungo dominio della Sterlina senza rendersi conto che lo straordinario successo della loro economia era dovuto soprattutto alle due guerre mondiali combattute in Europa, la Cina si è sempre cautelata sotto il profilo monetario e valutario: ha esercitato e continua a farlo per quanto possibile, in un contesto di enorme complessità viste le dimensioni che hanno raggiunto la sua economia e le interazioni con l’estero, il controllo delle dinamiche economiche e finanziarie.
Non è casuale infatti che, mentre nel resto mondo ci si lamenta per l’alta inflazione da cui deriva la falcidie dei redditi reali e del risparmio, e per gli ulteriori effetti negativi sulla crescita economica che derivano dalle politiche monetarie restrittive adottate dalle Banche centrali, in Cina si cerca di stimolare la crescita economica e di ovviare alla caduta dei prezzi mediante una politica monetaria e creditizia espansiva: la Banca del Popolo Cinese, diversamente dalla Fed e dalla Bce, non ha inondato per anni i mercati di sempre nuova liquidità comprando titoli del debito pubblico, abbattendo le rendite e fornendo munizioni invincibili per la speculazione. Dopo anni di taglieggiamento per via dei tassi che erano stati portati a zero, ora le banche sono tornate a fare profitti di dimensione mai vista prima. Molte imprese si sono accodate, dal settore energetico a quello alimentare: aumentano i prezzi con ogni scusa, compensando con i maggiori fatturati monetari il ristagno delle vendite. Un sistema che nel breve le rende euforiche, ma che le porta all’autodistruzione.
Mentre l’Occidente passa da una crisi finanziaria all’altra, la Cina ha cercato di scansarle tutte: il Mercato si autoregola, certo, ma passando dai boom per euforia agli scoppi disastrosi della bolle speculative che aveva creato.
Il Gruppo dei BRICS, come accadde inizialmente al G5 che fu portato a G7 per l’insistenza dell’Italia che era rimasta esclusa da questo formato di cooperazione occidentale nonostante il suo Pil avesse superato quello la Gran Bretagna, aggiungendo però anche il Canada per bilanciare la presa del mondo anglosassone, si fonda sugli interessi convergenti dei Paesi partecipanti.
C’è un aspetto ulteriore, che riguarda i BRICS: la Cina è attualmente il più grande consumatore e produttore e mondiale di oro al mondo, seguita dalla Russia. Nelle classifiche ufficiali, il Brasile si colloca al settimo posto mentre il Sudafrica, che pure non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detiene il 50% delle risorse aurifere del pianeta, rimanendo come secondo produttore in Africa dopo il Ghana: le sue riserve iniziano ad esaurirsi e il paese è passato all’undicesimo posto nella graduatoria della produzione mondiale. In India, il rapporto con l’oro è sempre stato un tema assai politicamente complesso: costretta ad usare la rupia coniata in argento quando era colonia britannica per lasciare il monopolio dell’oro alla sterlina, c’è sempre stata grande incetta per uso privato, con forti limitazioni legislative per evitare questa forma di tesaurizzazione mediante il divieto di produrre monili con un oro superiore ai 14 carati.
Anche oggi, tutte le Banche centrali detengono riserve auree tra gli attivi patrimoniali a fronte dei quali emettono moneta, cui si aggiungono quelle in valuta “forte”: dollaro, euro, sterline, yen e di recente ed in misura limitata anche yuan. La ragione di questa pratica ha origine storiche: poiché la Banca di Inghilterra aveva una copertura garantita tra oro delle riserve e banconote in circolazione, detenere sterline significava detenere oro. Lo stesso valeva per i dollari, fino al 1971.
Ma questa relazione tra l’oro e le riserve in valuta “forte” iscritte all’attivo patrimoniale da una parte, e le emissioni di moneta che risultano al passivo delle Banche centrali non esiste più: all’attivo vengono iscritti non solo i crediti che vengono erogati alle banche a fronte della immissione di liquidità a tempo determinato, ma soprattutto i titoli di Stato che vengono comprati sul mercato in cambio delle immissioni di liquidità in via definitiva effettuate con i Qe.
La moneta non ha dunque un valore intrinseco, ma quello che deriva dalla sua accettazione: è “moneta fiat”, e la forza del dollaro deriva dalla sua straordinaria accettazione a livello globale per ogni tipo di operazione, dal commercio alla finanza. Il punto è che la quantità di dollari in circolazione, ed i tassi di interesse sono decisi dalla Fed nell’interesse dell’economia americana, con l’obiettivo di aumentare l’occupazione e la crescita dell’economia stessa al massimo livello compatibile con la stabilità del valore del dollaro. Le manovre espansive o restrittive decise dalla Fed comportano dunque conseguenze per tutti gli “operatori in dollari”, favorendo o penalizzando, di caso in caso, i debitori o i creditori, i compratori o i venditori.
La de-dollarizzazione è dunque un obiettivo strategico per tutti i Paesi che intendono sottrarsi a questo straordinario privilegio che ha la valuta statunitense. La Cina ha sempre avuto un’enorme attenzione sia al tasso di cambio con il dollaro che ai flussi di capitali verso l’estero in yuan: una rivalutazione della sua moneta avrebbe compromesso l’export ed una svalutazione la proficuità degli investimenti interni.
L’idea che i BRICS possano creare anche in prospettiva una moneta comune, come l’Euro, non ha il minimo fondamento: è una gabbia pericolosa e dannosa.
Il processo di de-dollarizzazione riguarda innanzitutto la creazione di infrastrutture tecnologiche ed amministrative alternative a quelle “occidentali” come lo SWIFT per le transazioni bancarie ed i circuiti di pagamento delle carte di credito.
In secondo luogo, si attivano processi di negoziazione commerciale in valute nazionali: alla Russia fa comodo vendere petrolio alla Cina incassando yuan, perché si smarca dal dollaro ed acquisisce la valuta con cui può comprare direttamente merce cinese; lo stesso interesse ha la Cina, che usa valuta propria per comprare e vendere con la Russia. Lo stesso vale per la vendita di petrolio da parte dell’Arabia Saudita ed il commercio con l’Argentina, nella misura in cui non c’è bisogno di utilizzare i dollari per effettuare transazioni bilaterali.
In terzo luogo, si attivano sistemi di swap bilaterale tra le Banche centrali dei Paesi: quella della Cina presta yuan alla sua corrispondente argentina, che li fornisce ai propri importatori per pagare la merce cinese; così come quella dell’Argentina presta pesos alla sua corrispondente cinese, che a sua volta li fornisce ai propri importatori per pagare la merce argentina. Se il commercio internazionale è bilanciato, alla fine del periodo è tutto già regolato.
In quarto luogo, si attivano sistemi di finanziamento ad hoc: le banche di ciascun Paese si insediano nel Paese corrispondente per finanziare il commercio o gli investimenti, su base di reciprocità.
Il problema sono innanzitutto gli squilibri commerciali internazionali: quando, nel complesso, c’è un Paese che compra più di quanto vende. Qui sta il punto: se deve svalutare la propria moneta per comprare di meno e vendere di più, anche gli altri devono corrispondentemente rivalutare per vendere meno e comprare di più.
A questo punto serve una unità di conto comune, che pesi i rapporti tra le economie che partecipano al sistema, rendendo possibile questo meccanismo di riequilibrio valutario: a questo serviva lo SME, che nel ’92 saltò in aria per convergenti interessi strategici e speculativi enormemente superiori, di Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Se si mantiene un rapporto stabile tra le riserve patrimoniali delle Banche centrali, auree e valutarie, e la moneta in circolazione, si limitano le conseguenze negative derivanti dalla immissione eccessiva di liquidità attraverso il Tesoro, le Banche ordinarie ed i Mercati finanziari. E’ un limite alle politiche monetarie che va posto, per evitare che creino problemi maggiori di quelli che vorrebbero correggere sia sul piano interno che internazionale.
C’è bisogno di un riequilibrio nei processi di accumulazione internazionale: neppure la Cina può continuare ad accrescere le proprie attività sull’estero, mentre gli altri Paesi si indebitano.
Questa sarà la vera prova di maturità per la Cina, verso il Partner dei BRICS e verso il Sud del Mondo: mentre non può minimamente pensare di sostituire la dittatura del dollaro con quella dello yuan, può certamente contribuire alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equilibrato.
Fonte: https://www.teleborsa.it/Editoriali/2023/07/11/i-brics-l-oro-e-la-dedollarizzazione-1.html
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