Il tema è centrale per la vita delle sarde e dei sardi, per la loro storia recente e per le loro prospettive future, anche se accuratamente accantonato dalla politica dei palazzi, che sa che chi affronta la militarizzazione della Sardegna mette a rischio la propria personale carriera politica. Esu offre un quadro chiaro, minuzioso, dal quale non si può scappare. “Sotto il profilo metodologico questo studio si basa su un’analisi delle fonti istituzionali, e su materiali originali di ricerca qualitativa condotta in un arco temporale di 8 anni”.
Il libro è strutturato in quattro capitoli, legati tra di loro ma compartimentati per temi: militarizzazione e costruzione del consenso, politiche dell’incertezza, isole e militarizzazione, proteste, resistenza e azioni dirette.
Un tema trasversale, centrale almeno sino a 20 anni fa nella vicenda della militarizzazione e nell’intera vicenda sarda, è l’utilizzo della dicotomia “tradizione/modernità”, con la modernità che significa accettare la militarizzazione, che porta ricchezza, servizi, benessere. Sino a qualche decennio fa le lotte contro la militarizzazione della Sardegna, che ebbero luogo talvolta anche con una partecipazione di massa, erano legate a grandi organizzazioni politiche, che rispondevano anche a logiche di posizionamento internazionale. Una eccezione, che fu anche un momento-spartiacque, fu la lotta (vittoriosa) di Pratobello del 1969. E infatti Esu sostanzialmente suddivide la storia del movimento contro la militarizzazione della Sardegna in tre fasi: la prima dal dopoguerra a Pratobello, la seconda da Pratobello ai primi anni Duemila, e la terza è quella attuale, dei movimenti “no-bases”.
Questa ultima fase è anche quella in cui, grazie ai processi, ad una diversa postura della stampa e dei media ma non solo, la narrazione sulla positività delle base viene intaccata. Il senso comune si modifica. Nel 2018, per esempio, “la relazione finale della Commissione parlamentare sull’uranio impoverito richiama la necessità di mitigare la presenza militare nell’isola attraverso una pianificazione di riduzione della presenza militare nell’isola entro i 3 mesi dall’approvazione della relazione. Questo contenimento avrebbe dovuto comportare la progressiva riduzione delle aree soggette a servitù militare, la dismissione dei Poligoni di Capo Teulada e Capo Frasca, la riqualificazione del PISQ”.
Oggi, a distanza di sei anni, queste posizioni sembrano impensabili. La “terza guerra mondiale a pezzi”, nella quale siamo immersi, e la complicità italiana nel genocidio del popolo palestinese rende impensabile, per la totalità dello scenario politico e mediatico, anche solo pensare di progettare una riduzione della presenza militare. Ricordo che, chiaramente, quella relazione fine della Commissione non portò a nulla.
Il libro di Esu parte, con informazioni precise, dal secondo dopoguerra, e arriva sino a oggi e al movimento “no-bases” di Aforas. Un aspetto giustamente centrale in ogni capitolo del libro è il continuo tentativo, riuscito fino ad oggi, di insabbiare, nascondere, instillare dubbi, mistificare, rendere incerto ogni ragionamento sulla militarizzazione della Sardegna. Per esempio, sulle questioni sanitarie, “la non visibilità e l’inesistenza di un registro regionale tumori sono i due strumenti su cui fanno leva le autorità militari per minimizzare ogni relazione tra ambiente e salute”. Sugli effetti demografici ed economici della militarizzazione della Sardegna diversi studi si sono soffermati, ma non sono mai stati popolarizzati.
Il libro di Aide Esu inserisce la vicenda umana di chi vive la Sardegna di oggi e sente la militarizzazione, poiché la vive quotidianamente o perché ha imparato a riconoscerla, dentro paradigmi conoscitivi “liberatori” e all’interno di una dimensione internazionale “geopolitica” che rende chiari i termini della questione, demistificando in modo magistrale la decennale mistificazione tecno-politica-militare.
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