L’attacco di Trump ai siti nucleari dell’Iran aggrava il conflitto
di INTELLIGENCE FOR THE PEOPLE (Roberto Iannuzzi)

Il bombardamento USA non cancella il programma nucleare iraniano, allontana una soluzione negoziata, e spinge verso un’ulteriore destabilizzazione internazionale.
Annunciando il bombardamento degli impianti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan, il presidente americano Donald Trump ha definito l’operazione “uno spettacolare successo militare”.
Egli si è spinto ad affermare che queste installazioni “sono state totalmente cancellate”.
In maniera grottesca (visto che all’illegalità dell’attacco israeliano all’Iran iniziato il 13 giugno si aggiunge il carattere altrettanto illegale dell’operazione americana), Trump ha affermato che “l’Iran, il bullo del Medio Oriente, deve ora fare la pace”.
Altrimenti, ha ammonito l’inquilino della Casa Bianca, “vi sarà per l’Iran una tragedia ben più grande di quella a cui abbiamo assistito negli ultimi otto giorni”.
Alla richiesta di “tornare al tavolo negoziale”, avanzata anche dalla Gran Bretagna e dall’Unione Europea, ha risposto prontamente il ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi, affermando che l’Iran stava negoziando con Washington quando Israele lo ha bombardato.
Egli ha aggiunto che l’attacco degli USA è avvenuto proprio mentre l’Iran aveva avviato un dialogo con il gruppo E3 (Gran Bretagna, Germania e Francia). Dunque, ha concluso Araghchi, l’Iran non ha mai lasciato il tavolo negoziale. Sono altri che continuano a sabotarlo.
In effetti, il negoziato di cui parlano USA e gruppo E3 equivale a una resa per l’Iran: rinuncia ad ogni forma di arricchimento dell’uranio, ed inclusione dell’arsenale missilistico iraniano nella trattativa, come ha precisato il ministro degli esteri tedesco Johann Wadephul.
La prospettiva di avere un programma nucleare dipendente dalle forniture estere, una ridotta deterrenza missilistica, e un’economia che rischia comunque di rimanere sotto il giogo delle sanzioni (le quali furono solo parzialmente sospese, e non abrogate, perfino dopo il raggiungimento dell’accordo nucleare del 2015) è inaccettabile per un Iran che aveva invece ottemperato ai propri impegni in base a quell’accordo.
Descrivendo l’attacco come un’azione punitiva “una tantum”, Trump spera invece di piegare l’Iran con la minaccia di un castigo più duro qualora Teheran tenga il punto o addirittura pensi a una ritorsione contro gli USA.
Appena un giorno dopo, il presidente ha poi rafforzato le proprie minacce accennando alla possibilità di un “cambio di regime” a Teheran.
Secondo alcune fonti, l’Iran sarebbe stato preavvertito dell’attacco americano, oltre ad aver ricevuto un messaggio privato da parte dell’amministrazione secondo il quale gli USA non cercherebbero uno scontro su vasta scala con l’Iran.
I dilemmi di Trump
Questa scelta rivela però i limiti dello spazio di manovra del presidente.
In patria egli cerca di mantenere un difficile equilibrio tra il partito della “linea dura” contro Teheran e la base isolazionista del movimento MAGA (Make America Great Again). Quest’ultima non vuole che gli USA si impantanino nell’ennesimo conflitto in Medio Oriente.
Ma anche dal punto di vista strategico, Trump si trova su un crinale molto stretto. Dopo anni di guerra in Ucraina, a Gaza, e contro Ansar Allah (gruppo noto anche con l’appellativo di “Houthi”) nello Yemen, l’arsenale USA di missili, bombe guidate e intercettori per la difesa aerea si è assottigliato pericolosamente.
Washington non può permettersi l’ennesima guerra in Medio Oriente senza scoprirsi su altri fronti, in primo luogo nel Pacifico contro la Cina.
La stessa operazione di bombardamento delle installazioni nucleari iraniane, per quanto limitata, è stata certamente complessa, comportando costi ingenti.
Secondo la versione americana ufficiale, più di 125 aerei avrebbero preso parte alla missione, inclusi otto bombardieri B-2 (più di un terzo del totale di cui dispongono gli USA) e numerosi aerei cisterna.
Contro i siti nucleari sarebbero state lanciate 75 munizioni guidate, incluse quattordici GBU-57 MOP (Massive Ordnance Penetrator) da oltre 12 tonnellate, le più potenti bombe convenzionali in circolazione (sganciate su Fordow e Natanz).
Complessivamente l’operazione è probabilmente costata alcune centinaia di milioni di dollari.
I bombardieri B-2 sono partiti direttamente dal suolo americano, alcuni di essi si sarebbero diretti verso il Pacifico (un probabile diversivo) mentre altri si sarebbero diretti a est. Gli aerei sarebbero giunti in Iran grazie ad alcune operazioni di rifornimento in volo, per poi tornare negli USA attraverso l’Atlantico grazie ad ulteriori rifornimenti in volo sul Mediterraneo e sull’Atlantico stesso.
Un “successo” molto parziale
L’impianto di Fordow era però già stato evacuato dagli iraniani, e le riserve di uranio arricchito trasferite in luoghi sicuri. I tunnel di ingresso dell’impianto erano stati riempiti di terra per ridurre gli effetti di un eventuale bombardamento.
Fordow era originariamente una struttura militare costruita all’inizio degli anni 2000. Tra il 2006 e il 2007, gli iraniani decisero di trasformarla in un impianto di arricchimento dell’uranio, temendo che i loro siti fuori terra potessero essere bombardati.
In base all’accordo nucleare del 2015, l’Iran cessò le attività di arricchimento dell’uranio a Fordow. Esse tuttavia ripresero circa un anno dopo che Trump era uscito unilateralmente dall’accordo, allo scopo di spingere Washington a tornare al tavolo negoziale.
L’impianto si trova fra i 60 e i 100 metri di profondità (nessuno lo sa esattamente). Che esso sia stato distrutto è tutto da dimostrare.
E’ anche improbabile che i missili Tomahawk (subsonici e con uno scarso coefficiente di penetrazione) lanciati contro la struttura fortificata di Isfahan abbiano prodotto danni significativi.
L’Iran aveva inoltre annunciato di aver approntato un terzo sito di arricchimento dell’uranio prima dell’attacco (proprio a Isfahan). Tenuto conto che Teheran ha migliaia di scienziati nel campo dell’energia atomica, il programma nucleare iraniano (insieme al know-how per svilupparlo) è ancora in piedi.
Teheran a questo punto ha ogni ragione per non fidarsi di Trump (fu lui ad uscire unilateralmente dall’accordo nucleare nel 2018, fu lui a far uccidere il generale Qassem Soleimani – un eroe nazionale in Iran – nel 2020, è con la consapevolezza degli USA che Israele ha attaccato l’Iran il 13 giugno, ed è stato lui a bombardare i siti nucleari iraniani due giorni dopo aver dichiarato che avrebbe aspettato due settimane al fine di dare una chance alla diplomazia).
Difficilmente, dunque, i vertici iraniani si fideranno di eventuali proposte provenienti da Washington.
Possibili ritorsioni di Teheran
Il programma nucleare iraniano è destinato a diventare sempre più opaco. Non è escluso che Teheran possa decidere di espellere gli ispettori dell’AIEA, uscire dal Trattato di non-proliferazione (TNP), e puntare realmente alla costruzione di un ordigno nucleare.
Un’altra misura iraniana di ritorsione potrebbe essere quella di chiudere lo Stretto di Hormuz, facendo schizzare alle stelle i prezzi energetici. Ma Teheran potrebbe anche soltanto minacciare di compiere una simile azione, ottenendo ugualmente di provocare il caos nei mercati senza rischiare un ulteriore intervento militare degli Stati Uniti.
Ci si può attendere anche una possibile rappresaglia iraniana contro le basi militari USA in Medio Oriente, ma probabilmente non contro quelle nel Golfo visto che l’attacco statunitense non è partito dalle basi nella regione, e l’Iran non ha interesse ad inimicarsi le monarchie arabe.
Un’azione contro asset militari USA (eventualmente in Iraq, Siria e Giordania) potrebbe comunque essere limitata poiché Teheran non ha interesse a provocare ulteriori attacchi americani sul suolo iraniano.
Allo stesso tempo, Teheran non può lasciare impunite le violazioni statunitensi ed israeliane della sovranità iraniana. Ciò che i vertici iraniani temono di più è che l’Iran faccia la stessa fine di paesi come Siria, Libano e Iraq, dove Stati Uniti e Israele intervengono a proprio piacimento.
Responsabili israeliani hanno già osservato che, se il programma nucleare iraniano risulterà non sufficientemente ridimensionato dall’operazione americana, e se Teheran provvederà a ripristinarlo, bisognerà compiere azioni periodiche di bombardamento – una strategia che gli israeliani chiamano “tagliare l’erba”.
Uno scenario di questo tipo è un incubo che Teheran non può accettare. Alla luce di ciò, la rappresaglia iraniana più incisiva è avvenuta già la mattina successiva all’attacco USA con un’ondata senza precedenti di missili diretti proprio contro obiettivi sensibili di Israele.
Scenari di destabilizzazione
Dal canto suo Tel Aviv, pur nascondendo i danni provocati dall’Iran alle infrastrutture strategiche israeliane, ha tutto l’interesse a dare risalto alle proprie vittime civili al fine di spingere Washington ad estendere la campagna militare contro l’Iran per giungere a un cambio di regime a Teheran.
A livello regionale ed internazionale, l’azione decisa da Trump è altrettanto destabilizzante. Paesi come Pakistan, Turchia, Arabia Saudita ed altri temono non soltanto una conflagrazione regionale, ma il preoccupante precedente costituito dall’impunità con cui Israele attacca i propri vicini godendo della protezione di fatto della principale superpotenza mondiale.
Due potenze nucleari (Israele ed USA) hanno attaccato un paese non dotato di armi atomiche che aderisce al TNP (l’Iran). Le conseguenze sono evidenti: questa guerra dimostra che aderire al TNP non assicura reali vantaggi, e che l’unica vera garanzia di protezione sembra essere costituita dal possedere armi nucleari.
Israele e Stati Uniti, con le loro azioni, stanno dunque dando un possibile impulso alla proliferazione nucleare a livello mondiale.
FONTE:https://robertoiannuzzi.substack.com/p/lattacco-di-trump-ai-siti-nucleari
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