Coronavirus e speculazioni finanziarie
di LA CITTA’ FUTURA (Alessandro Bartoloni)
Non solo mascherine, gel e guanti: le obbligazioni e i derivati finanziari permettono di speculare sulle pandemie e guadagnare lauti profitti a spese dei contribuenti
Al 3 marzo 2020, fuori dalla Cina sono stati segnalati 1.848 casi in 48 paesi, l’80% dei quali proviene da Corea del Sud, Italia e Iran. Centoventidue paesi non avevano ancora segnalato alcun caso di COVID-19. Che ci siano le condizioni o meno per dichiarare lo stato di pandemia, vale a dire “un’epidemia che si verifica in tutto il mondo, o su un’area molto ampia, attraversando i confini internazionali e di solito colpisce un gran numero di persone” [1] è questione su cui gli scienziati si stanno ancora interrogando. E non solo gli scienziati.
La risposta a questa domanda, infatti, potrebbe avere serie implicazioni dal punto di vista economico visto che già ora stiamo toccando con mano l’inadeguatezza del modo di produzione capitalistico ad affrontare le esigenze sanitarie di larga parte della popolazione. Il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom, si dice “preoccupato per il fatto che le capacità dei paesi di rispondere all’emergenza siano compromesse dalla grave e crescente interruzione della fornitura globale di dispositivi di protezione individuale, causati dall’aumento della domanda, dall’accaparramento e dall’uso improprio. […] I prezzi delle maschere chirurgiche sono aumentati di sei volte, i prezzi dei respiratori N95 sono più che triplicati e i camici costano il doppio. Le forniture possono richiedere mesi per essere consegnate, la manipolazione del mercato è diffusa e le scorte vengono spesso vendute al miglior offerente [non a chi ne ha più bisogno, ndr]. L’Oms ha spedito quasi mezzo milione di dispositivi di protezione individuale in 27 paesi, ma le forniture si stanno rapidamente esaurendo. Stimiamo che ogni mese saranno necessari 89 milioni di maschere mediche per la risposta COVID-19; 76 milioni di guanti da visita e 1,6 milioni di occhiali”. [2]
Ma il cosiddetto “mercato” sa essere anche più spietato. Un bisogno espresso da chi non ha il denaro per soddisfarlo, semplicemente non esiste e non può essere preso in considerazione. Non a caso il bilancio dell’epidemia di Ebola diffusasi in Africa occidentale tra il 2014 ed il 2016 è stato di oltre 11.000 morti. Una grande occasione persa per chi fa affari nella sanità, che rischia di riproporsi ogni volta che ad ammalarsi sono i morti di fame. Così, sulla scia di quell’esperienza, la Banca mondiale ha creato una linea di finanziamento per le emergenze pandemiche, conosciuta come PEF, Pandemic emergency financing facility. Un vero e proprio fondo fiduciario di intermediazione finanziaria creato nel maggio 2016 in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità e tre tra le più importanti compagnie di ri-assicurazione al mondo, la Munich Re, la Swiss Re e GC Securities.
Il meccanismo prevede due linee di finanziamento per mitigare le conseguenze umanitarie ed economiche derivanti dalle pandemie. La prima è una linea in contanti finanziata da donazioni statali, che al 31 dicembre 2019 ha raccolto 181,1 milioni di dollari, soldi investiti in un portafoglio di titoli finanziari a reddito fisso e breve termine (per lo più obbligazioni governative) che al 31/12 ha permesso di realizzare profitti per 3,71 milioni ed un saldo in contanti di 23,27 milioni. Ma come sono stati spesi i 161,54 milioni che mancano all’appello? Quattro milioni (il 2% del totale delle spese) se se sono andati per le spese di amministrazione e gestione del fondo, 61,4 milioni (il 38%) sono finiti a paesi che ne hanno fatto richiesta ed avevano i requisiti per riceverli, mentre i restanti 96,14 milioni hanno rimpinguato le tasche dei grandi finanzieri che hanno sottoscritto la seconda linea di finanziamento, quella assicurativa. Il 60% dei fondi elargiti, infatti, sono serviti a pagare le cedole (gli interessi) concesse agli investitori che hanno sottoscritto 320 milioni di dollari di “obbligazioni pandemiche” e di “derivati pandemici” (pandemic bonds, pandemic swaps) – divisi in due classi, A e B, del valore rispettivamente di 225 e 95 milioni – in cambio del rischio di non vedersi restituire quanto investito nel caso in cui la pandemia fosse stata dichiarata. Un bel modo di utilizzare i fondi pubblici, non c’è che dire! [3].
Si potrebbe obiettare, tuttavia, che questo è il prezzo da pagare per avere a disposizione denaro di privati che altrimenti non lo metterebbero a disposizione in quanto, come detto, i morti di fame non pagano. D’altro canto, rendere le assicurazioni attraenti per gli investitori significa progettarle per rendere il pagamento delle cedole certo e per ridurre al minimo la probabilità di rimborsi. È chiaro, quindi, che l’interesse primario degli investitori non è solo quello di addebitare ai contribuenti, e non al tanto osannato mercato, gli interessi che ogni 15 del mese intascano a fronte del rischio che corrono di perdere il capitale; ma anche quello di fare in modo che i pagamenti per fronteggiare le pandemie non vengano mai effettuati, così da vedersi ritornare anche l’ammontare sottoscritto. Vediamo come.
Innanzi tutto, i fondi raccolti tramite queste donazioni, obbligazioni e derivati sono destinati ad autorità ed enti accreditati – i governi, le agenzie delle Nazioni Unite e le immancabili Ong – e devono essere utilizzati per affrontare solo e soltanto una pandemia in corso. Servono quindi per pagare il personale sanitario e l’acquisto di medicinali, attrezzature mediche e non mediche (compresi i dispositivi di protezione individuale, i mezzi di soccorso, ecc) ma possono essere utilizzati anche per finanziare opere civili minori (come la creazione di centri di assistenza temporanea), i servizi, i trasporti, l’organizzazione della logistica e della catena di approvvigionamento, le indennità di rischio, la comunicazione, il coordinamento, ecc. In nessun caso, però, possono essere utilizzati per la prevenzione o la preparazione ad un’eventuale pandemia in quanto i fondi sono resi disponibili solo in periodi di crisi conclamata e per i paesi colpiti da un’epidemia, mentre i paesi limitrofi a un paese interessato, ma che non sono stati colpiti sebbene rischiano di esserlo, non possono ricevere fondi dal PEF.
Ma, a differenza delle richieste per accedere ai fondi raccolti tramite donazioni, i requisiti per accedere ai fondi raccolti tramite le obbligazioni e i derivati pandemici sono molto più stringenti. Talmente tanto da renderne impossibile l’utilizzo e quindi certo il ritorno nelle mani degli investitori. Innanzi tutto, non tutti i virus sono assicurati ma solamente quelli dell’influenza A, i Coronavirus (ad esempio SARS, MERS ed il nuovo COVID-19), i Filovirus (ad esempio Ebola, Marburg), la Febbre emorragica della Crimea e del Congo, la Febbre della Rift Valley e la Febbre di Lassa. Inoltre, le epidemie devono avere specifiche caratteristiche. Quelle causate da Coronavirus devono:
- Essersi prolungate per almeno 12 settimane prima di poter richiedere i finanziamenti;
- L’epidemia deve essere presente in almeno due paesi, e ciascun paese deve avere almeno 20 decessi confermati dall’Oms;
- Il tasso di crescita dell’epidemia deve essere maggiore di zero, vale a dire il numero di ammalati deve aumentare costantemente e non essere stabile o in diminuzione;
- I decessi totali confermati dall’Oms devono essere almeno 2.500 per accedere ai fondi di classe A, oppure 250 per i fondi di classe B;
- Nelle 12 settimane precedenti la richiesta di finanziamento, il numero totale di persone infette deve essere cresciuto di almeno 250 unità;
- Nello stesso periodo, almeno il 20% delle persone dichiarate infette devono essere confermate tali dall’Oms (ma il numero totale di persone infette nelle ultime 12 settimane deve essere di almeno 750 persone);
- La richiesta di accesso ai fondi deve essere accompagnata da un piano di risposta all’epidemia elaborato dalle autorità locali e dalla valutazione del rischio di epidemia condotta o approvata dall’Oms, che deve anche confermare che i criteri per ottenere il finanziamento siano tutti soddisfatti.
Caratteristiche diverse ma ugualmente stringenti valgono per le pandemie da influenza di tipo A [4]. Si noti che le persone che l’Oms conferma morte o infette prima del 7 luglio 2020, vale a dire otto giorni prima della scadenza delle obbligazioni e derivati pandemici, non saranno conteggiate [5].
Come se ciò non bastasse, il PEF non solo è stato studiato per essere attivato solo quando la pandemia è già grave, vale a dire quando servono più soldi per fronteggiarla, ma contiene limiti stringenti all’ammontare totale dei finanziamenti che si possono effettivamente ricevere. Per quanto riguarda il Coronavirus, per i fondi di classe A, su un totale di 225 milioni disponibili, possono esserne impiegati solamente il 16,67% vale a dire 37,51 milioni mentre per i fondi di classe B, su un totale di 95 milioni, la percentuale varia a seconda del numero di paesi coinvolti e dal numero di decessi confermati, arrivando al 100% solo in presenza di almeno 2.500 vittime.
Se questo è il funzionamento del PEF, quali conclusioni possiamo trarne? A quattro mesi dalla scadenza delle obbligazioni e dei derivati, possiamo dire che questo meccanismo di finanziamento per combattere le pandemie si è rivelato una vera sóla per i contribuenti che l’hanno finanziato e per quelli che avrebbero bisogno di assistenza. Al contrario, si è rivelato un vero affare per i capitalisti, ma non tanto per quelli che operano nella sanità, quando soprattutto quelli speculativi, a cui è garantito un guadagno che a luglio avrà superato i 150 milioni di dollari senza rischiare nulla dei 320 milioni investiti. Coi tempi che corrono, un tasso annuale di profitto garantito dallo Stato del 15,6% non è niente male. Ma con 150 milioni, quante vite si sarebbero potute salvare?
Note:
[1] A dictionary of epidemiology, quarta edizione. New York: Oxford University Press; 2001 citato in Kelly, H. The classical definition of a pandemic is not elusive, Bulletin of the World Health Organization 2011;89:540-541.
[2] WHO Director-General’s opening remarks at the media briefing on COVID-19 – 3 March 2020
[3] I dati sono contenuti nel Pandemic Emergency Financing Facility – Trustee Reports. Le cifre riportate nel testo sono “per cassa”. Quelle “per competenza”, vale a dire i fondi accertati ma non ancora riscossi e le spese accertate ma non ancora pagate sono maggiori. L’ammontare della cedola è data dal valore del libor a 6 mesi più il margine di rischio, 6,9% per le obbligazioni di classe A e 11,5% per quelle di classe B, meno il margine di finanziamento (0,4%). La formula è contenuta nel Prospetto finale del PEF citato alla nota 5.
[4] Per i dettagli si veda il manuale operativo del PEF, ottobre 2018, pagg. 6-7.
[5] Prospetto finale del PEF. Per il dettaglio di questo e gli altri criteri si vedano in particolare le definizioni di Term, Confirmed case, Confirmed ratio, Confirmed death, Rolling total case amount, Rolling confirmed case amount.
Fonte: https://www.lacittafutura.it/editoriali/coronavirus-e-speculazioni-finanziarie
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