La crisi energetica e il problema dell’intermittenza
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
L’economia mondiale, oggi più che mai, ha bisogno di stabilità, intesa come continuità. Le persone hanno bisogno di cibo ogni giorno e di un posto dove vivere e riposare ogni sera. I loro bambini hanno bisogno di una situazione familiare stabile su cui poter contare. Dal 1950 al 1969, la rapida crescita di disponibilità di energia di ogni tipo poteva garantire stabilità al sistema economico globale con discreta facilità. Poi, sono arrivati gli anni ’70: con l’aumento – marcato e relativamente improvviso – dei prezzi di carburanti ed energia, il sistema è entrato in crisi. Con le prime spinte destabilizzanti è divenuto sempre più difficile sostenere i costi di lungo termine, impliciti nel funzionamento dell’economia globale. Si è aperta quindi la questione di come risolvere il problema. La soluzione scelta? “Kicking the can”.
Sotto la guida di Margaret Thatcher, Primo Ministro U.K. dal 1979, e Ronald Reagan, Presidente USA dal 1981, il debito è divenuto sempre di più lo strumento utilizzato per “finanziare” – o meglio “rimandare al futuro” – quei costi di lungo termine. Si è inoltre incoraggiata la concorrenza, con forti liberalizzazioni e riduzioni dei prezzi in molti settori. Insomma, è iniziato un percorso verso una maggiore complessità, ma minore stabilità, dell’economia globale che, infatti, è oggi popolata da sempre meno ridondanza in grado di fornire stabilità (la stabilità di un sistema è garantita proprio dalla presenza di ridondanze, o “buffer”).
Il picco dei prezzi dell’energia che stiamo sperimentando è, però, il segnale di qualcosa che è andato storto lungo il percorso. Sembra infatti che la tendenza alla complessità dell’economia globale sia andata troppo oltre: i modelli di sviluppo delle politiche energetiche non sono stati in grado di cogliere i rischi e le problematiche dell’intermittenza. L’elettricità “intermittente” da fonti rinnovabili (eolica, idrica e solare) è stata “venduta” come una “perfetta” alternativa alle fonti fossili. Un’utilità ben superiore a quella effettivamente dimostrata dai fatti che ha generato profonda confusione: molti decisori politici, poco scrupolosi circa i costi della transizione green, hanno “già contribuito” ad impostare politiche di transizione che, come in larga parte dimostrato dai risultati del COP26 di Glasgow, fanno acqua da tutte le parti. C’è il rischio, in un futuro prossimo venturo, di un collasso economico diffuso. Per un’ipotesi così estrema è opportuno articolare i passaggi logici fondamentali del ragionamento per punti:
Con fonti d’energia ampie e a basso prezzo è facile far crescere l’economia.
L’approvvigionamento energetico dell’economia globale è analogo alla necessità di cibo che garantisce il “corretto funzionamento” degli esseri umani. Come un essere umano non vive con un solo tipo di cibo, l’economia non funziona con un solo tipo di energia ma utilizza, invece, un “portafoglio” diversificato: il lavoro umano, l’energia diretta della luce solare, la combustione di vari tipi di combustibili, tra cui biomassa e combustibili fossili (d’ora in poi “c.f.”). Quando i prezzi dell’energia iniziano a crescere lo status quo, come accaduto, non è più sostenibile: la quota di risorse non destinate a produrre/pagare i costi energetici si contrae. In assenza d’espedienti per nascondere/rinviare il problema – leggi maggior debito complessivo – i cittadini sono costretti a ridurre i consumi non essenziali, tendendo quindi a spingere l’economia in recessione.
Quando la disponibilità/fornitura d’energia diviene limitata, i suoi prezzi tendono ad aumentare.
Al manifestarsi dei primi picchi di prezzo, l’aggiunta di “complessità” consente all’economia di sopportare i costi energetici più elevati. Ci sono infatti molti modi per aggirare, temporaneamente, il problema: veicoli (ad es. automobili), fabbriche ed edifici più efficienti; combustibili nucleari o rinnovabili; utilizzo del debito per trasferire i maggiori costi ad acquirenti “futuri” di prodotti energetici; maggiore concorrenza nella produzione e distribuzione elettrica; tariffe (elettricità) che portano i prezzi al costo marginale di produzione, senza ripagare tutti i costi di produzione e distribuzione; stimolare l’economia, aumentando la disponibilità del debito e abbassando i tassi di interesse, ed altri escamotage.
Tutti tendono però a rendere il sistema economico meno resiliente anche se, almeno temporaneamente, trasferiscono una quota dei costi energetici più elevati ai cittadini futuri, alleviando il carico che grava sulle spalle di quelli attuali. L’economia può sopportare, “temporaneamente”, un prezzo più elevato dell’energia al prezzo di divenire più fragile ed “incline” al fallimento.
L’aumento di complessità ha dei limiti e sono questi che fanno fallire i sistemi economici, come succede a qualsiasi altro sistema complesso.
Come sottolinea Joseph Tainter, in “The Collapse of Complex Societies”, maggiore complessità in un sistema produce rendimenti decrescenti. Si parte, ad esempio, dal risparmio di carburante per veicoli perché è la strada meno costosa e complessa. La complessità tende poi a determinare un’estrema disparità salariale: il top della gerarchia produttiva ottiene un compenso sempre più sproporzionato in rapporto ai salari base. Nascono così, quasi “naturalmente”, molti dei problemi che stiamo vivendo: potenziali lavoratori non vogliono candidarsi per un lavoro, anche quando i posti di lavoro sembrano disponibili. I cittadini diventano infelici e ribelli. Ugo Bardi ha proposto il grafico in Fig.1 per schematizzare una situazione del genere:
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Un profilo evolutivo che approssima bene le modalità di sviluppo cicliche osservate da Turchin e Nefedov nell’analisi del crollo di diverse civiltà antiche, descritte dal loro libro “Secular Cycles”.
Dal 1981 la quantità di complessità (base monetaria/credito) aggiunta all’economia globale è stata crescente, per compensare la levitazione dei prezzi dell’energia fossile.
I prezzi delle materie prime, compreso il greggio, tendono ad essere volatili: potenzialità di stoccaggio molto limitate, rispetto alle grandi quantità utilizzate giornalmente, richiedono un equilibrio stretto tra offerta e domanda, altrimenti i prezzi aumentano o diminuiscono in misura marcata. Il greggio è la principale fonte di energia fossile per l’economia mondiale: se il prezzo del petrolio aumenta i prezzi, dal cibo a molti metalli, tende a salire, un pieno di benzina diventa più caro.
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Prima che la tendenza all’esaurimento dei giacimenti portasse a costi di estrazione più elevati, i prezzi del petrolio erano stabili e bassi (Figura 2). Materializzatesi le prospettive d’esaurimento a m/l termine, hanno imboccato un trend crescente. Non è però solo una questione di disponibilità fisica: osservando graficamente i punti di svolta nell’andamento dei corsi, appare evidente l’influenza rilevante dei fattori finanziari. In grado di portare i prezzi su livelli che non hanno alcun legame con il costo sottostante di produzione. Le variazioni dei prezzi più rilevanti coincidono con le misure espansive/restrittive delle banche centrali nel governo di credito e moneta (vedi la Fig. seguente: Prezzi mensili del petrolio Brent ed inizio e fine del Quantitative Easing negli USA. Il successivo Quantitative Easing non ha riportato i prezzi del petrolio ai max precedenti):
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La partenza del QE1 nel 2009 ha coinciso con l’inizio di un vistoso aumento dei prezzi del greggio mentre la scadenza del QE3 sembra coincidere con la fine di tale trend. Insomma, mentre i prezzi del greggio hanno un debole legame diretto con il costo d’estrazione, sono invece strettamente correlati alla quantità di moneta (alias “complessità”) iniettata nel sistema.
Durante la crisi del 1973-1974, molti pensavano che il mondo fosse a corto di petrolio, le quantità estratte stavano invece aumentando. Dal 2005 al 2008 è di nuovo forte, e immotivata, preoccupazione per la carenza di greggio. Quando, nel 2014, i prezzi del greggio sono caduti la narrazione prevalente è improvvisamente cambiata: “C’è abbondanza di petrolio, il vero grande problema mondiale è il cambiamento climatico».
In realtà non era cambiato assolutamente nulla nel trend: dal 2007 al 2019 lo shale oil USA ha solo impresso un breve slancio all’offerta complessiva. E’ però stata una ripresa non redditizia – anche se “ben finanziata” dalle banche d’investimento – per i produttori, specie dopo il citato calo del 2014 (fig. 2 e 3) e quelli hanno investito poco in nuovi impianti d’estrazione. Esauriti i giacimenti più produttivi, visto il basso livello di investimenti la produzione di shale oil continua a calare.
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In realtà l’offerta sul mercato di petrolio, carbone e gas naturale è limitata solo se non si può aggiungere ulteriore complessità (maggiore moneta/credito) per mantenere i prezzi di vendita su livelli: a) sufficienti a coprire al margine i costi totali di produzione (comprese imposte e tasse), permettendo di investire in capacità; b) abbastanza bassi affinché i consumatori mantengano un adeguato livello di consumo di combustibile (specie quelli con salari molto bassi).
Dal 2014 le “manipolazioni finanziarie” non sono però più riuscite a sostenere i prezzi e molti produttori sono falliti. Non solo: la produzione dell’elettricità con fonti alternative (dall’eolico al solare) a prezzi bassi sta facendo fallire anche i produttori con impianti ad energia nucleare. Lo shale oil ha bisogno di un prezzo di circa 120 dollari al barile, o più, per coprire tutti i costi e l’OPEC – e le sue derivazioni – non aumenterà di molto la produzione, visto che anche i suoi membri necessitano di prezzi molto più alti per coprire tutti i costi.
I modelli degli “esperti” non colgono importanti aspetti della realtà.
A fine 2014, caduti i prezzi del greggio, la convinzione era che ci fossero quantità di c.f. da estrarre ancora illimitate e che il principale problema fosse invece il cambiamento climatico. Si dichiarava infatti, diffusamente nel mondo, un alto livello di riserve accertate di c.f.. Convinzione infondata! Nel 2020, quando il consumo di c.f. è crollato, l’incidenza delle riserve sulla produzione annuale – pur congiunturalmente elevata – appariva contenuta:
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Le stime di geologi e produttori di c.f., pur essendo le migliori possibili, sono approssimative – non un dato certo – e hanno, in realtà, sovrastimato la quantità ancora da estrarre.
A fronte di bassi ritorni degli investimenti in combustibili tradizionali, e con la prospettiva di un loro abbandono, molti produttori hanno investito massicciamente in rinnovabili. I profitti delle rinnovabili sono però in gran parte risultato del vantaggio competitivo del “primo arrivato”. Distribuendo energia elettrica da rinnovabili, hanno portato i prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica tradizionale su livelli troppo bassi rispetto al break-even di molti altri produttori, dotati solo di fonti fossili, che sono falliti. Purtroppo la produzione di questi ultimi è necessaria per soddisfare adeguatamente la domanda e qui entra in scena, prepotentemente, il problema dell’intermittenza delle rinnovabili.
Molti non sono consapevoli dell’esiguità dell’apporto dato dalle energie rinnovabili all’offerta globale complessiva: nel 2020, l’eolico e il solare insieme hanno rappresentato solo il 5% della provvista energetica mondiale, l’idroelettrico il 7%. L’economia mondiale non può funzionare con il 12% (o forse il 20%, se sono incluse altre fonti alternative) del suo attuale fabbisogno energetico, non più di quanto il corpo di una persona possa funzionare con il 12% o il 20% dell’apporto calorico.
La pandemia ha indotto, per diverse vie, una caduta nella domanda di petrolio e derivati. La figura 6 mostra la contrazione del consumo di petrolio, carbone e gas naturale. I loro prezzi sono caduti (vedi fig. 2) ma il costo di produzione non è diminuito e molti produttori si sono trovati in condizioni finanziarie peggiori di prima. Alcuni hanno cessato l’attività e molti dei sopravvissuti non hanno risorse per investire adeguatamente in nuovi giacimenti, indispensabili per un eventuale aumento improvviso d’offerta. E’ praticamente impossibile aumentare la produzione di c.f. in tempi brevi: serve un “lead time” di diversi anni, posto che si trovi una strada per finanziare tali maggiori investimenti.
Il vero quesito è quindi: “Quanta complessità può sopportare l’economia globale prima che diventi troppo fragile per gestire uno shock come uno stop temporaneo causa pandemia?” Non è la quantità di c.f. nel terreno che conta: sono gli effetti collaterali dell’alto livello di complessità sull’economia che hanno un ruolo chiave.
Di fatto ogni cosa animata che cresce, ha bisogno di vincere la battaglia contro l’intermittenza.
Come accennato, gli esseri umani hanno bisogno di mangiare regolarmente. I cacciatori-raccoglitori risolvevano il problema dell’intermittenza dei raccolti spostandosi dove c’era il cibo. Aprendo l’angolo di osservazione possiamo trovare l’adattamento all’intermittenza in tutto il regno vegetale ed animale: alcuni uccelli migrano, gli orsi vanno in letargo, gli alberi decidui perdono le foglie ogni autunno e le riproducono a primavera. La stessa disponibilità di tutte le nostre risorse energetiche è intermittente: i pozzi petroliferi si esauriscono, quindi è necessario perforarne di nuovi; la biomassa bruciata come carburante deve crescere prima di essere tagliata (o di cadere); l’energia solare è disponibile solo fino a quando una nuvola non si mette davanti al sole: in inverno l’energia solare è discontinua.
L’unico sistema di tariffazione in grado di dare continuità alla fornitura di energia, generando funding (mezzi propri o di terzi) sufficiente per assicurare nel tempo l’estrazione(investimenti), è quello che soddisfa tutte le esigenze della catena di produzione e trasporto sino all’utente, partendo dalla necessità di superare l’intermittenza. Servono quindi, anche buone strade e buone scuole per gli aspiranti lavoratori alla produzione energetica. Eventuali costi associati all’inquinamento vanno inclusi nel prezzo. La maggiore offerta richiesta è zavorrata” oggi dai precedenti lunghi periodi di prezzi artificialmente compressi (per erogare la quantità di energia necessaria ad un’economia sovra-stimolata dalle politiche monetarie espansive). La perfetta efficienza del mercato funziona solo nei testi accademici: nella realtà porta a blackout ed insufficienti riserve di gas naturale per l’inverno.
Una conclusione
La complessità è andata troppo oltre. La pandemia ha spinto consumo e prezzi dei c.f. sotto i costi di produzione. Via via che l’economia riapre, i prezzi aumentano velocemente per carenza di capacità produttiva (oltre a carbon tax). Ora è improbabile che si attivi l’aumento necessario di produzione: è invece più probabile che arrivi la recessione. I fornitori di c.f. non hanno prezzi sufficientemente elevati e garantiti a l/termine ed occorrono diversi anni per aumentare la produzione quanto necessario. L’economia globale si dirige, quindi, verso la scogliera di Seneca (Fig. 1) e i danni potrebbero essere assai seri.
Il debito globale elevato, è una delle parti più vulnerabili del sistema: è una promessa di beni o servizi futuri che conta sull’energia prodotta in futuro. Se l’energia “futura” non è disponibile in misura adeguata, beni e servizi promessi non saranno adeguatamente disponibili. I governi possono cercare di nascondere questo problema con nuovo debito, ma non possono risolvere il problema di beni e servizi che saranno “mancanti”. Pure i sistemi pensionistici di ogni tipo sono vulnerabili: se vengono prodotti meno beni e servizi, essi dovranno essere ripartiti diversamente. I paesi importatori di c.f. sono quelli più colpiti dai picchi di prezzo: i paesi esportatori hanno infatti la possibilità di ridurre la quantità esportabile, se l’offerta totale è insufficiente.
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In Europa, la produzione combinata di idroelettrico, eolico, solare e biocarburanti (fig. 9) rappresenta però solo il 19% del consumo totale di energia in Europa (fig. 8): l’Europa non può quindi funzionare solo con l’apporto supplementare delle energie rinnovabili, anche sul lungo termine. Per colmare il divario tra consumo e produzione, dipende in misura elevata dalle importazioni dall’estero. Gli economisti europei mainstream avrebbero dovuto dirlo ai cittadini: “Non c’è modo di cavarsela usando le sole rinnovabili per molti, molti anni. Trattate con ogni attenzione i paesi dai cui importiamo c.f.. Firmate contratti a lungo termine con loro. Se vogliono usare un nuovo gasdotto, non sollevate obiezioni!! Il nostro potere contrattuale è molto basso!!”
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Invece, i medesimi hanno preso in carico la missione di salvare il pianeta dalla CO2: idea giusta e sacrosanta, in teoria. In pratica la triste verità è che, se l’Europa non compete per le importazioni di energia, lascia agli esportatori più c.f. da vendere ad altri paesi.
La Cina, oggi il più grande consumatore globale di energia, e il maggiore importatore mondiale di c.f. ed ha già registrato una carenza di energia elettrica che corrisponde, ancora, a continui blackout. Essa è, ovviamente, uno dei principali esportatori di merci verso il resto del mondo: se ha grossi problemi energetici, il resto del mondo non potrà più contare sul quell’export e ciò potrebbe essere un grosso guaio. Il problema di fondo è che, probabilmente, abbiamo raggiunto i limiti nell’estrazione di c.f. in modo praticamente contemporaneo. I limiti sono limiti di complessità e le rinnovabili disponibili oggi non sono in grado di salvarci, checché dicano i modelli. Temo che rischiamo di assistere, nei prossimi anni, al collasso di un’economia mondiale eccessivamente interconnessa ed eccessivamente stimolata. Sarebbe il caso di iniziare ad attrezzarsi per affrontare il problema e le sfide che porterà: forse, il Trattato del Quirinale è uno dei primi passi “di emergenza” intrapresi dal nostro Paese (con un occhio alla Libia ed al Nord-Africa).
FONTE: https://www.lafionda.org/2021/12/14/la-crisi-energetica-e-il-problema-dellintermittenza/
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