Sulla natura del diritto internazionale (e dell’Unione europea)
di Simone Garilli
Dal punto di vista giuridico, ciò che manca al diritto internazionale non è una certa effettività, garantita dalla potenza egemone o da un equilibrio di potenze egemoni, ma la validità (anche procedurale) delle sue norme, che solo può discendere da una legittimità al fondo sentimentale, tipica delle nazioni.
Ora, è pur vero che le nazioni si affermano storicamente attraverso la forza del ceppo che diviene prima dominante e poi egemone, ma il punto chiave è che tale processo si risolve, infine, in una sintesi sentimentale la quale, sia pure non definitiva, risulta essere quantomeno stabile nei tempi storici. Allora, se lo Stato non si afferma a partire dal diritto internazionale, ma per forza propria, è vero anche che il diritto internazionale, inteso nella sua dimensione consuetudinaria, non si afferma per opera volontaria degli Stati, mancando un ordinamento di riferimento che legittimi la produzione di diritto. Ne deriva che il diritto internazionale ‘generalmente riconosciuto’ nasce come ‘non-luogo’ e, più precisamente, come ‘non-ordinamento’, nel quale fluttuano disposizioni non scritte per la semplice ragione che, una volta venute alle luce, nessuno le ha volute contrastare.
In termini strategici, si può esprimere da altro punto di vista il medesimo concetto: fino ad oggi, nessuno Stato è riuscito a dispiegare la forza necessaria a piegare stabilmente e omogeneamente il diritto internazionale al suo volere, trasformandolo in ordinamento, in quanto tale legittimo e riconosciuto.
Certo, la storia ha presentato diverse e cicliche approssimazioni nel senso di un dominio imperiale globale, tanto che potremmo suddividere i secoli e i millenni secondo l’ascesa e il declino delle potenze egemoni, a partire da definizioni più o meno ampie di ‘globalizzazione’ (Arrighi), ma ciò che è sempre mancato a livello globale, salvo allucinazioni politico-intellettuali, è il sentimento omogeneo verso un centro ordinatore, e dunque la sua legittimità, e la conseguente validità giuridica dei suoi atti. Manca la forza e dunque manca il diritto e, solo in subordine, è vero anche il contrario.
Tecnicamente, potremmo quindi continuare a chiamarlo ‘diritto internazionale’, purché si intenda che non si tratta di ‘ordinamento internazionale’ e che non c’è nessun appiglio storico-logico per pensare che un giorno lo possa diventare, ciò che peraltro sarebbe largamente non auspicabile per la concentrazione di forza che l’impresa richiederebbe. Agli affrettati pioneri teorici di una “fine della storia”, hanno risposto con i fatti “le storie” delle civiltà secolari o millenarie che abitano il mondo e che hanno saputo rispondere al tentativo egemonico statunitense, in primis la Russia e la Cina, ma senza dimenticare l’Iran e la Turchia. Tanto che oggi risulta sempre più difficile anche solo parlare, seriamente, di diritto o comunità internazionale, oltre che di globalizzazione.
Singolare, per inciso, che tra i più appassionati assertori di un diritto e di un governo globale, vi siano proprio i vari esponenti del pensiero (neo)liberale, che dovrebbero impallidire di fronte alla prospettiva di un super-stato ordinante tutto il globo, se fossero coerenti con il celeberrimo motto di cui si fanno spesso alfieri: “Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in modo assoluto”.
Tutto ciò premesso, è evidente che il valore del ‘diritto internazionale generalmente riconosciuto’, sia pure elevato a norma interna dell’ordinamento statale dall’articolo 10 della Costituzione italiana, cederà sempre di fronte a un conflitto insanabile con la sovranità dello Stato e con i suoi principi supremi, anche se questa verità venisse temporaneamente mascherata da una potente e malintesa retorica internazionalista. Tale retorica ha assunto le forme, in Europa, dell’europeismo, ma secondo parte della dottrina dovrebbe assumere le forme ancora più estese della globalizzazione giuridica intrinseca alla creazione dell’Onu, capace non si sa bene come di trasformare dei temporanei rapporti di forza in ordinamento fatto e compiuto.
Il punto, come detto, è che trasformare il diritto internazionale consuetudinario in ordinamento giuridico richiederebbe una forza statale ordinatrice globalmente riconosciuta. Ciò che vale per il mondo, vale a maggior ragione per l’Europa: lo Stato europeo, approdo immaginifico di sognatori di varia estrazione, non potrebbe che fondarsi sul dominio (prima) e sull’egemonia (poi) di un ceppo nazionale. Qualsiasi forma di integrazione europea che non presenti questa impronta, visceralmente violenta (per informazioni chiedere a Carlo V, Napoleone e Hitler) altro non è che diritto internazionale pattizio, ossia assoluta volontà degli Stati aderenti, come tale sempre reversibile. Presentare l’Unione europea come organizzazione ‘sui generis’, né Stato federale europeo (cioè ordinamento) né organizzazione internazionale (cioè diritto internazionale pattizio), risponde oggettivamente a un fine regressivo, risultando sempre regressivo negare la vera natura dei fenomeni, che lo si faccia coscientemente o meno.
Peccato che la tesi dell’organizzazione ‘sui generis’ sia ancora oggi tendenzialmente maggioritaria, e ben oltre i confini del mondo dei giuristi. Le ideologie non sempre crollano al crollare dei loro presupposti di fatto. Talvolta agonizzano per un certo periodo in forma parossistica prima di spegnersi o di divenire largamente minoritarie.





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