Una tesi forte: l’instabilità istituzionale come effetto collaterale della democrazia sostanziale
di Simone Garilli
L’instabilità istituzionale della Prima Repubblica, lungi dall’essere elemento disfunzionale di quel sistema, fu plastica manifestazione del tentativo della classe dirigente democristiana di includere-integrare-aggregare le classi popolari rappresentante dal Partito socialista (prima fase) e dallo stesso Partito comunista (seconda fase) nell’arco costituzionale e addirittura di governo (inteso non solo in senso ristretto di potere a livello ministeriale, ma più in generale di partecipazione alla determinazione dell’indirizzo politico).
Seguendo questa tesi, potremmo concludere per una spiccata originalità della cosiddetta Prima Repubblica rispetto alle fasi precedenti e successive della nostra storia unitaria. Secondo una suggestiva interpretazione storiografica, infatti, il periodo liberale e il periodo fascista furono accomunati dall’indisponibilità da parte delle classi dirigenti nazionali a riconoscere nelle classi lavoratrici e nei loro rappresentanti sindacali e partitici interlocutori legittimi, ciò che distinse in certa misura l’Italia dalle democrazie di più antica tradizione. Anche quando le classi popolari trovarono nel giolittismo una sponda per l’ingresso in Parlamento, come accadde nella fase terminale del periodo liberale, i contrasti interni alla classe dirigente sul merito e le conseguenze della scelta furono tali da giocare un ruolo decisivo nella sottovalutazione e finanche nella partecipazione più o meno subdola di gran parte del liberalismo italiano alle violenze e all’ascesa fascista.
Del fascismo è quasi superfluo parlare, se non ricordando che la retorica popolare si accompagnò al soffocamento corporativo del conflitto sociale, alla compressione costante dei salari e infine persino all’abolizione formale dell’istituzione parlamentare, sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Piuttosto, occorre spendere due parole sul periodo neoliberale, nel quale la trasformazione è stata meno esplicita, ma di intensità ed efficacia paragonabile, se pensiamo che le classi dirigenti odierne sono le eredi generazionali di quelle che, a cavallo degli anni Novanta, hanno smantellato il sistema dei partiti popolari di massa allontanando, anche in forza del vincolo esterno europeo, i corpi intermedi di ogni genere dalle stanze del potere. Il risultato contraddittorio e disfunzionale è l’odierna democrazia maggioritaria fondata sulla decretazione d’urgenza e la spartizione dell’indirizzo politico tra i tre poteri normativi oggi vigenti (l’europeo, il nazionale, il regionale), con palese emarginazione del polo parlamentare.
Diverso qualitativamente fu, allora, l’atteggiamento della Democrazia Cristiana, che replicò al suo interno il conflitto tra reazionari e democratici tipico della fase liberale, con esiti però almeno parzialmente diversi. A poco vale l’obiezione secondo cui la DC avrebbe agito nel senso dell’inclusione delle classi popolari per allargare la base del suo consenso, perché qualsiasi fenomeno storico è guidato al contempo dagli interessi di parte e dai valori, che si alimentano reciprocamente generando un particolare ambiente fondato su consuetudini e norme condivise a grandi linee da tutti gli attori in gioco. La Costituzione del 1948, in questo senso, fondava la Repubblica democratica e la sovranità popolare sul sistema dei partiti, suggerendo implicitamente una legge elettorale proporzionale pura (o tutt’al più con soglie di sbarramento molto basse, utili più che altro a educare le piccole o piccolissime formazioni politiche al radicamento e alla costanza). Scampata per pochi voti la cosiddetta “legge truffa”, in una fase iniziale del dopoguerra in cui mordeva particolarmente lo scontro tra blocchi ideologici e si temeva, a seconda del blocco di appartenenza, alternativamente la rivoluzione proletaria e la reazione autoritaria, la Prima Repubblica non abbandonò mai il sistema proporzionale, premessa ineludibile di una “democrazia relazionale” come fu quella italiana all’apice della sua grandezza. In una tale democrazia le elezioni non si vincevano, come si suol dire oggi con estrema rozzezza, bensì con le elezioni si stabilivano provvisoriamente i rapporti di forza politici, pur sempre passibili di aggiustamenti di dettaglio in corso di legislatura. Da cui anche la spiegazione della cosiddetta “instabilità” dei governi. Si trattava, in realtà, di instabilità dei singoli ministeri, partendo dal presupposto che lo stesso Presidente del Consiglio, sia pure nella sua veste di primus inter pares, non era l’accentratore dei consensi e dell’indirizzo politico, ma pur sempre un ministro, un uomo di equilibrio tra correnti e tra partiti, e cioè in definitiva, in un sistema altamente rappresentativo, una figura di sintesi del conflitto regolato tra le parti sociali. Questo nella teoria, naturalmente. Nella realtà agivano come sempre interessi meno nobili e distorsioni più o meno gravi, ma ciò che conta ai fini di un giudizio storiografico è la tendenza generale del sistema, ed è indubbio che questa fu per larghi tratti progressiva, sia dal punto di vista della democrazia di massa che delle conquiste civili e sociali. Nemmeno si possono attribuire tutti i meriti di quella tendenza alla Democrazia Cristiana, dato che giocò un ruolo fondamentale sia il contesto internazionale, come sempre decisivo nel tracciare il perimetro delle azioni possibili, che la postura dei socialisti e, sin dal periodo transitorio che dalla caduta del fascismo porterà alla Costituzione, degli stessi comunisti, riassumibile nella formula del “partito nuovo” di paternità togliattana. E tuttavia l’originalità della Prima Repubblica sta proprio nella nuova disponibilità della classe dirigente, che trovava nella DC il suo centro regolatore.
La tesi è forte, e ignora consapevolmente un fruttuoso dibattito dottrinario sulle possibili riforme in senso efficentista del sistema di governo parlamentare. È ragionevole sostenere, sul punto, che le riforme regolamentari di Camera e Senato del 1971, approvate nel pieno di quella stagione “relazionale” o “consociativa” tra partiti di cui si è detto, aprivano la strada a forme forse addirittura eccessive di tutela delle opposizioni, con relativa estrema debolezza dei governi. Si è parlato, a questo proposito, di distorsioni “assembleari” del parlamentarismo primo-repubblicano. In una democrazia pluriclasse, nella quale il Parlamento pienamente rappresentativo è organo depositario esclusivo della funzione legislativa (salve possibilità eccezionali di delega al governo e di decretazione d’urgenza da parte di questo), l’organo esecutivo è espressione diretta dei rapporti di forza sociali e politici. Non avrebbe senso, dunque, ostacolarlo fino ad imbrigliarne l’azione, impedendo al Presidente del Consiglio di ricondurre a unità l’attuazione dell’indirizzo politico, come prescrive l’articolo 95 comma 1 della stessa Costituzione. Un conto però è sviscerare il problema rimanendo saldamente nei confini della forma di governo parlamentare, un altro è operare un subdolo mutamento della stessa impiantando nel corpo sociale istituzioni sempre meno rappresentative, e accentrando di fatto nelle mani del Presidente del Consiglio e di pochi ministri (su tutti il titolare del dicastero dell’Economia) la determinazione e la realizzazione dell’indirizzo politico, in un sistema normativo multilivello in cui poteri locali e sovranazionali contribuiscono a tracciare la rotta, al riparo dal processo parlamentare.
Molto bello il tema della stabilità.
Nel caso specifico dell’Italia credo che aver perso la seconda guerra mondiale abbia creato i presupposti perchè nessuna fazione (cattolici, comunisti, monarchici, fascisti, liberali) potesse prevalere nella stesura della nuova costituzione. Inoltre all’epoca gli USA erano probabilmente propensi a evitare un governo accentrato tipo quello del duce e quindi andava bene un proporzionale puro.
Più a lungo termine consiglio le opere di Peter Turchin riguardo i cicli lunghi e i rapporti interni alle società; quindi il tema della stabilità (che può essere dannosa).