Continua a salire la tensione tra i Paesi africani affacciati sul Mar Rosso. Gli Stati coinvolti sono Egitto, Sudan, Etiopia ed Eritrea, con spettatori interessati Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. In gioco ci sono anzitutto enormi affari economici, a cominciare dalla costruzione dalla nuova diga Grand Ethiopian Renaissance Dam, ma non solo.
L’Africa nord-orientale è infatti disseminata di questioni irrisolte da decenni (in primis il conflitto tra Eritrea ed Etiopia tra il 1988 e il 2000, ma anche le dispute territoriali tra Sudan ed Egitto). Ma, soprattutto, qui sono in palio altri interessi strategici – su tutti il posizionamento di basi e contingenti militari lungo le rive di uno dei mari da cui transitano centinaia di portacontainer e petroliere ogni giorno – che rendono particolarmente appetibile questa regione.
Le ultime tensioni e il ruolo della Turchia
Le ultime tensioni nella “regione africana” del Mar Rosso sono il risultato di un effetto domino innescato dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Khartoum alla fine del dicembre scorso, la prima di un capo di Stato turco dal 1956, anno dell’indipendenza del Sudan da Regno Unito ed Egitto.
Al termine del summit Erdogan e il presidente sudanese Omar Al Bashir hanno firmato oltre una dozzina di accordi. Tra questi, quello che ha fatto più discutere è stata la cessione temporanea del Sudan alla Turchia della località portuale di Suakin. L’intesa prevede la ricostruzione di buona parte della città andata in rovina negli ultimi anni. Sarà compito del governo turco farne riemergere i fasti ottomani (nel 1517 il porto fu conquistato dal sultano ottomano Selim I) rilanciando il turismo religioso attraverso l’implementazione dei collegamenti marittimi che portano i pellegrini a La Mecca.
Come era prevedibile, la cessione di Suakin ha innescato l’immediata reazione dell’Egitto, che ha visto nell’intesa strappata da Ankara il tentativo di Erdogan di espandere la propria sfera d’influenza nel Mar Rosso. Alla base di quest’ultimo dissapore c’è lo strappo maturato dopo il golpe militare egiziano del 2013 che portò alla destituzione del leader dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, sostenuto da Erdogan, e stabilì al potere il generale Abdel Fattah Al Sisi.
L’“intromissione” di Erdogan negli affari sudanesi è stata presa di mira dai giornali egiziani, che hanno denunciato il suo tentativo di costruire una nuova base militare sul Mar Rosso dopo averne aperta già una nell’ottobre scorso a Mogadiscio in Somalia (la più grande fuori dai confini della Turchia). A rincarare la dose sono stati i giornali sauditi. Tra questi il titolo più a effetto è stato quello pubblicato da Al-Okaz: «Khartoum consegna Suakin ad Ankara. Il Sudan in mani turche».
La risposta del Sudan
La risposta del Sudan non si è fatta attendere. L’ambasciata di Khartoum a Riad ha risposto alle accuse lanciate dai media egiziani e sauditi dichiarando che «Suakin appartiene al Sudan e nessun altro» e garantendo che l’accordo con Ankara non intaccherà in alcun modo la sicurezza dei Paesi arabi. Troppo poco, però, per fermare l’escalation. Per reagire alla fuga in avanti di Ankara, Il Cairo ha inviato centinaia di soldati in una base degli Emirati Arabi Uniti situata nella parte orientale dell’Eritrea al confine con il Sudan. Khartoum ha reagito richiamando il suo ambasciatore di stanza al Cairo. Pochi giorni dopo ha chiuso il confine con l’Eritrea e schierato migliaia di soldati nella regione di confine di Kassala poiché in possesso di informazioni secondo le quali l’Egitto si sarebbe spinto oltre inviando propri soldati anche ad Asmara.
Lo stato di agitazione è stato sintetizzato dall’allarme lanciato da Abdullah Al-Sadiq, a capo della Commissione che monitora i confini sudanesi, il quale ha accusato l’Egitto di «trascinare il Sudan in uno scontro militare diretto». Toni di questo tipo non sono nuovi tra Il Cairo e Khartoum: l’Egitto da anni accusa il Sudan di sostenere i Fratelli Musulmani e di aver dato rifugio a chi è riuscito a scappare dal Paese dopo la caduta di Morsi; il Sudan, a sua volta, accusa l’Egitto di fomentare le rivolte dei dissidenti sudanesi contro il governo del presidente Al Bashir.
Le proteste a Khartoum
Primi riflessi di questo stato di agitazione si stanno già vedendo in Sudan. Il 16 gennaio agenti della polizia in tenuta anti-sommossa hanno sparato gas lacrimogeni contro centinaia di manifestanti che protestavano davanti al palazzo presidenziale per l’impennata del prezzo del pane, raddoppiato dopo che il governo ha deciso di interrompere le importazioni di cereali e altri prodotti agricoli dall’Egitto.
Le proteste sono state organizzate dal Partito Comunista del Sudan. All’inizio di gennaio manifestazioni si erano tenute in altre parti del Paese. La settimana scorsa a protestare erano stati gli studenti dell’università di Khartoum, mentre a Geneina, nella regione in conflitto del Darfur, uno studente era stato ucciso durante scontri con le forze di sicurezza. Proteste simili in Sudan c’erano state alla fine del 2016, per il taglio delle sovvenzioni governative all’acquisto di carburante, e nel 2013, quando vi furono decine di morti tra i manifestanti.
Le tensioni per la diga etiope
Ciò che sta accadendo tra Sudan ed Egitto, e che chiama in causa Eritrea e Turchia, è collegato direttamente ai lavori di costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam sul fiume Nilo, la più grande diga di tutta l’Africa alla cui realizzazione (valore complessivo di 4,8 miliardi di dollari) partecipa in prima fila l’italiana Salini-Impregilo.
L’opera, iniziata nel 2012 è al momento al 60% del suo completamento. Una volta a pieno regime produrrà 6.000 megawatt, l’equivalente di sei centrali nucleari. L’Egitto ne osteggia la costruzione poiché teme di perdere i privilegi sulla distribuzione delle acque stabiliti con accordi risalenti al 1929 e al 1959. Per anni Il Cairo ha potuto beneficiare della maggior parte dei volumi d’acqua (l’87%) del Nilo (nettamente superiori rispetto all’Etiopia, nonostante le popolazioni dei due Paesi siano approssimativamente le stesse) così come del potere di veto su progetti di ampliamento dell’infrastruttura. Adesso, però, la nuova diga ridisegnerà gli equilibri tra i Paesi bagnati dal Nilo e ciò, sulla carta, dovrebbe andare a discapito proprio dell’Egitto che è posizionato a valle rispetto al corso del fiume.
Per minare la stabilità di Khartoum, con cui resta in sospeso anche il contezioso sul Triangolo di Halayeb ricco di giacimenti di minerali, la scorsa settimana Il Cairo avrebbe proposto all’Etiopia di escludere il Sudan dalle prossime trattative sulla diga. La proposta, non confermata dall’Egitto, sarebbe però stata respinta dal primo ministro etiope Hailemariam Desalegn, il quale recentemente ha invitato ad Addis Abeba il capo dell’esercito sudanese Emad al-Din M Adawi per rafforzare il partenariato strategico tra Etiopia e Sudan.
Con questo invito l’Etiopia ha così risposto al dispiegamento di truppe egiziane in Eritrea, con cui restano ancora aperte dispute sulla definizione dei confini condivisi nonostante siano trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra. Addis Abeba punta all’asse con Khartoum, e indirettamente con Ankara, anche nel tentativo di arginare l’allargamento dell’influenza nella regione degli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi tempi hanno posizionato proprie basi militari lungo i suoi confini (nell’est della Somalia, nel nord dell’Eritrea e ad Aden, in Yemen).
La partita per il controllo del versante africano è dunque più che mai nel vivo. Per i Paesi africani il rischio concreto è di venire sopraffatti dal gioco condotto dietro le quinte dalle potenze extra-regionali: Turchia ed Emirati, come detto, ma anche ovviamente Arabia Saudita e Qatar. A fine gennaio proprio ad Addis Abeba si terrà un nuovo vertice dell’Unione Africana. Difficile però credere che qualche foto di rito basterà per placare le tensioni.
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