Di che cosa ha bisogno il Sud: gabbie salariali o investimenti?
di IL SOLE 24 ORE
Una ricerca sui divari di produttività del lavoro tra nord e sud Italia, di Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch, presentata presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Roma Tre il 10 aprile scorso (la prima versione dello studio risale al 2014) ha fatto molto discutere per le sue conseguenze implicite o esplicite di politica economica che potrebbero essere così sintetizzate: derogare alla contrattazione collettiva in favore di quella decentralizzata (oppure differenziarla tra nord e sud), e ridurre i salari monetari al sud dove la produttività del lavoro è più bassa.
Queste conclusioni di policy sono, a parere di chi scrive, profondamente sbagliate, e non solo perché riporterebbero il paese indietro verso le note “gabbie salariali” degli anni 50 e 60 che non hanno fatto bene ed hanno peggiorato drammaticamente i divari di reddito tra nord e sud, ma anche perché non trovano solido riscontro nella evidenza empirica, per diversi motivi che cercherò di spiegare. Innanzitutto si deve osservare che nel Mezzogiorno i salari sono già inferiori di circa 20 punti rispetto a quelli del Nord Ovest e di circa 15 punti rispetto a quelli del Nord Est, come dimostrato da Franzini, Granaglia e Raitano in un paper pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia N 47 del 2016.
In secondo luogo, la composizione settoriale dell’industria al Sud è storicamente posizionata, anche a causa delle gabbie salariali ricordate prima, su settori a basso contenuto tecnologico, propensi a più bassi guadagni di produttività, e quindi con più bassi salari medi. Questo significa una cosa ben precisa, che probabilmente è la principale differenza teorica che divide sostenitori e avversari degli aggiustamenti dei salari monetari: la produttività non è una variabile esogena ma endogena, che dipende da investimenti, composizione settoriale, domanda e altri fattori di contesto socio-economici (quali infrastrutture, servizi, istituzioni, ecc). Seguendo questo approccio, che si rifà ad economisti come Keynes, Kaldor o Sylos Labini, potrebbe essere utile persino aumentare i salari piuttosto che ridurli.
Anzi, la riduzione dei salari al sud, alla vigilia della nuova rivoluzione tecnologica nota come Industria 4.0, approfondirebbe ulteriormente il gap tecnologico tra nord e sud poiché spingerebbe le imprese verso la facile scelta di intensificare gli investimenti labour intensive, sfruttando il più basso costo del lavoro, piuttosto che la scelta di investire in investimenti capital intensive, quindi in nuove tecnologie che porterebbero a maggiori guadagni di produttività. Nel lungo periodo, la riduzione dei salari potrebbe quindi portare a più bassi livelli di produttività. Infine i saldi dei flussi migratori nord-sud sono notoriamente e di gran lunga positivi al nord, a dimostrazione del fatto che non è vero che i salari reali al nord siano più bassi rispetto al sud (almeno non quelli percepiti), perché altrimenti dovremmo osservare flussi migratori netti dal nord verso il sud, mentre dall’inizio del nuovo millennio quasi 1 milione di persone dal Mezzogiorno si è trasferito al nord, e tra questi la metà sono giovani.
Lo studio di Boeri e coautori si basa sul fatto che al nord il costo della vita sarebbe più alto rispetto al sud, mentre i salari monetari sono nel migliore dei casi solo di poco più alti, quindi i salari reali al nord sarebbero più bassi rispetto al sud. Anche l’affermazione che il costo della vita al nord è più alto rispetto al sud è molto controversa. Lo studio di Boeri e coautori approssima il costo della vita ad un indice che dipende dal prezzo delle case e degli affitti. Ora, sebbene il costo di un casa o di un affitto in una città come Milano o Roma, in media, sia più alto rispetto allo stesso costo in una città del Mezzogiorno, tale indice non dice nulla rispetto alla variazione dei prezzi delle case all’interno delle stesse città, sia al nord che al sud. Come Franzini, Granaglia e Raitano argomentano, proprio rispondendo allo studio di Boeri e coautori, nel paper citato prima: «I differenziali interni ad ogni area sono enormi. Per fare solo qualche esempio, i valori massimi in alcuni quartieri di centro e periferia – in euro al metro quadro, nel 2015 – a Milano oscillano fra 9800 (Brera) e 2200 (Lambrate), a Torino fra 3100 (Castello) e 2000 (Mirafiori), a Roma fra 8400 (Aventino) e 2450 (Torre Maura), a Napoli fra 7700 (Posillipo) e 2150 (Secondigliano)».
Di fronte a queste differenze a rigore dovrebbe essere appropriato (ma evidentemente impossibile oltre che chiaramente regressivo) differenziare i salari nominali in base al quartiere di residenza piuttosto che alle due o tre macro-regioni italiane. Una simile critica all’indice utilizzato nello studio di Boeri e coautori è avanzata anche da Francesco Aiello, Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia in un articolo pubblicato sulla rivista online Open Calabria, i quali tra l’altro dimostrano in un altro articolo sulla stessa rivista che i salari nel Mezzogiorno sono già in linea con la dinamica della produttività.
C’è un’altra questione. Il relativo sottosviluppo del sud rispetto al nord non è solo una questione di salari e redditi. Al di là della proxy del prezzo delle case, già di per se controversa, come abbiamo visto, al Sud il tenore di vita è drammaticamente compromesso dalla qualità e quantità dei servizi e delle infrastrutture pubbliche (ospedali, ferrovie, autostrade ecc.) e dal continuo sotto-investimento del sud rispetto al nord, sia pubblico (come testimonia Il Rapporto Svimez del 2017), sia privato come è evidente dai dati dell’Istat. Di conseguenza, se anche fosse vero che il costo della vita al nord sia più alto che al sud, tale differenza sarebbe oltremodo compensata da servizi e infrastrutture pubbliche, come rilevato in uno studio della Banca d’Italia (di Giovanni D’Alessio, QEF, n. 385/2017). Tale questione probabilmente è il principale disincentivo, insieme ad altri importanti fattori legati alla maggiore criminalità nel sud e alla minore efficienza delle amministrazioni pubbliche locali, che non permetterebbe, come gli autori dello studio invece si auspicano, che i salari più bassi al Sud sarebbero una attrazione per lo spostamento di imprese e investimenti privati dal Nord verso il Sud. A nostro parere quindi, piuttosto che abbassare i salari al sud, sarebbe assolutamente prioritario investire su quelle infrastrutture pubbliche e migliorare i servizi oltre che aggredire pesantemente la criminalità e migliorare l’efficienza di alcune amministrazioni locali.
Infine, viene quasi spontaneo ricordare una ulteriore questione, che in questo contesto sembra più che mai rilevante: ma se è vero come è vero che la produttività al nord è più alta che al sud, perché le imprese non alzano i salari al nord in sede di contrattazione secondaria, strumento disponibile e poco diffuso? Sulla diffusione della contrattazione secondaria andrebbe fatta una seria riflessione, dove potrebbe essere ripresa la mia proposta di “Patto per la Produttività Programmata” nel quale organizzazioni datoriali, sindacati e governo dovrebbero fissare, ex ante, obiettivi di produttività e crescita degli investimenti, ai quali legare in modo stringente con incentivi e sanzioni reali, tutti i contraenti, come anche altri economisti (S. Fadda, G. Ciccarone, M. Messori, Antonioli e Pini) hanno sostenuto di recente.
* Professore di Economia del Lavoro e di Politica Economica, Università Roma Tre, ministro del Lavoro in pectore del M5S
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