Nell’ambito delle relazioni internazionali, e non solo, uno degli ingredienti di base è la fiducia o, se vogliamo essere più precisi, la confidenza in quelli che sono e saranno gli atteggiamenti e i comportamenti della controparte. Perfino durante i decenni della guerra fredda i rapporti tra Unione Sovietica e Occidente poggiavano su questa confidenza nella prevedibilità, tant’è che l’equilibrio nella sfida nucleare aveva portato a coniare il concetto di Mad (che in inglese significa ‘pazzo’!), acronimo di Mutually Assured Distruction: in breve entrambi i contendenti erano ben consapevoli che uno scambio nucleare avrebbe portato all’annichilimento reciproco e, confidando nel buon senso altrui, i rapporti tra Mosca e Washington si potevano sviluppare in modo tutto sommato soddisfacente.
Fu in questo clima che la crisi degli Euromissili, sviluppatasi dalla fine degli anni ’70, trovò una soluzione nella stipula del trattato Inf (Intermediat Nuclear Forces), firmato da Reagan e Gorbaciov l’8 dicembre 1987, con il quale si procedette al reciproco ritiro degli SS20 da parte dell’Urss e dei Pershing e e dei Tomahawk da parte della Nato, con un allentamento della tensione che consentì in seguito di negoziare con successo il trattato Start (e quelli che ne sono seguiti: Start 2, Sort, New Start) per una sostanziale riduzione dei rispettivi arsenali nucleari. Il tutto basato sulla mutua confidenza reciproca circa la buona fede e la razionalità nella gestione di rapporti.
L’irrompere di Trump sulla scena globale ha introdotto un mutamento radicale, non tanto nei lineamenti strategici della politica americana – che mostra sostanziali segnali di continuità – quanto nel metodo: Trump ha teorizzato ed adottato consapevolmente lo strumento della imprevedibilità che, se può fornire un vantaggio negoziale nei rapporti economico-finanziari e in quelli tra entità non statuali e private, porta inevitabilmente al caos nelle relazioni internazionali.
In questo senso, la dichiarazione rilasciata ieri dal presidente Usa circa l’intendimento di ritirarsi dal trattato Inf porta allo scardinamento di tutta la complessa struttura degli accordi sulla riduzione delle armi nucleari, compreso quello sulla non-proliferazione, che portò alla rinuncia alla capacità nucleare da parte di numerosi paesi, dal Sud Africa, al Brasile, all’Argentina. Tutto ciò significa rigettare nell’incertezza e nel potenziale disordine una questione da cui dipende la stessa sopravvivenza del genere umano.
È pur vero che da anni Stati Unit e Russia si scambiano reciproche accuse sul mancato rispetto delle clausole dello Inf, a partire dallo sviluppo da parte russa del sistema missilistico Novator 9M729, ma è altrettanto vero, come osserva Kingston Reif, del think tank Arms Control Association, che la rinuncia al trattato toglie qualsiasi limite alla produzione e allo schieramento da parte russa di missili non permessi, con ciò aumentando la minaccia verso gli alleati europei che si trovano nel raggio d’azione di tali missili, scaricandone la responsabilità sugli Usa e creando un nuovo motivo di frattura della solidarietà atlantica. Proprio in quest’ottica il 15 dicembre scorso la Nato rilasciò una ben chiara dichiarazione.
Possiamo interpretare questa ulteriore mossa di Washington in modi diversi, come un messaggio a Mosca o anche come un messaggio alla Cina che, secondo l’ammiraglio Harry Harris, ex comandante dello US Pacific Command, trae un vantaggio strategico dal rispetto statunitense dell’Inf. Certamente, è un messaggio anche per noi europei, che possiamo contare sempre meno sulla solidarietà transatlantica e che dobbiamo deciderci a una progressiva convergenza delle rispettive politiche estere nazionali, tale da consentire passi concreti verso una difesa realmente comune.
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