La repressione della Cina nel Xinjiang ha molte controindicazioni
di LIMES (di Giorgio Cuscito)
I campi di detenzione nella regione potrebbero stimolare la formazione di nuove minacce agli interessi di Pechino in patria e all’estero ed essere usati dagli Stati Uniti contro la Repubblica Popolare.
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Pechino sta difendendo a spada tratta la campagna antiterrorismo condotta nella regione nordoccidentale del Xinjiang dalle critiche internazionali. Gli Usa e l’Onu affermano che qui fino a un milione di musulmani potrebbe essere rinchiuso in centri di detenzione per essere indottrinato a livello politico. Di questi individui, la maggior parte sarebbe di etnia uigura, minoranza turcofona che abita il Xinjiang (chiamandolo Turkestan Orientale) e che da anni ha un rapporto conflittuale con Pechino.
Secondo la versione ufficiale cinese, si tratta di “centri di formazione professionale” che forniscono assistenza psicologica, conoscenze legali, linguistiche (l’apprendimento del cinese mandarino), scientifiche, lavorative e storiche a coloro che, “a causa della radicalizzazione, sono sospettati di reati minori” ma non sono soggetti a sanzioni penali. In sostanza, l’obiettivo di lungo periodo è perseguire la stabilità tramite la “standardizzazione del comportamento umano”, come affermato nel 2010 da Hu Lianhe, funzionario di alto livello del Partito comunista. In sostanza, l’obiettivo di Pechino è indurli ad abbracciare gli usi e costumi degli han per garantirsi la loro lealtà alla Repubblica Popolare. Se necessario, con la repressione.
Pechino vuole mantenere saldamente il controllo del Xinjiang (che significa “Nuova Frontiera”) perché questo svolge un ruolo essenziale per gli interessi domestici e internazionali della Repubblica Popolare. La regione insieme a Tibet, Mongolia Interna e le provincie dell’antica Manciuria protegge il nucleo geopolitico della Cina (concentrato sulla costa) dalle invasioni terrestri.
Allo stesso tempo, il Xinjiang è la porta di accesso del paese all’Asia Centrale e al Medio Oriente. Per questo è uno snodo essenziale della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta), l’iniziativa infrastrutturale lanciata da Xi Jinping per connettere l’Impero del Centro al resto dell’Eurasia.
Per beneficiare della rilevanza geostrategica della “Nuova Frontiera”, Pechino ha stimolato la sua crescita economica e al tempo stesso l’ha sottoposta a una serrata sorveglianza, per prevenire gli attentati terroristici e la diffusione di comportamenti che giudica estremisti. Tuttavia, questa strategia potrebbe generare delle controindicazioni sul piano domestico ed estero.
Le reazioni di Pechino
La Cina ha preso due tipi di provvedimenti per rispondere alle pressioni internazionali. In primo luogo, ha smentito tramite gli organi di stampa ufficiale e davanti all’Onu l’esistenza di campi dei rieducazione. L’intervista rilasciata del capo del governo locale del Xinjiang Shohrat Zakir (uiguro) e il documentario pubblicato dalla televisione di Stato cinese sulle attività condotte nel centro di Hotan rappresentano l’esempio più lampante della campagna mediatica in corso.
In secondo luogo, Pechino ha legalizzato l’esistenza di questi centri modificando il “regolamento per la de-estremizzazione” del Xinjiang, entrato in vigore nel 2017. Le norme introdotte lo scorso 4 ottobre non danno tuttavia dettagli circa i metodi di assistenza e la durata delle attività. Per ora, il Xinjiang è l’unica regione in cui i centri sono autorizzati, ma non è escluso che in futuro il loro utilizzo sia esteso al resto del paese.
Le fonti ufficiali cinesi non specificano quanti individui siano presenti nei centri. A dir la verità non lo sa neanche l’Onu, che parla di una cifra che oscilla tra le decine di migliaia e un milione. Xu Xijin, direttore del quotidiano cinese Global Times (testata sorella del Quotidiano del Popolo, organo del Partito comunista) afferma che il numero è “molto più basso” rispetto al milione stimato in Occidente, ma che il governo non vuole divulgare i dati ufficiali per evitare che siano utilizzati per criticare Pechino. Tale commento lascia intende quanto il dossier Xinjiang sia sensibile per Pechino.
Lo sviluppo della campagna antiterrorismo
Negli ultimi vent’anni, la difficile convivenza nella regione tra gli uiguri e gli han (etnia maggioritaria in Cina) e la vicinanza geografica ad Afghanistan e Pakistan (focolai dei jihadismo) ha agevolato la formazione di gruppi terroristici quali il Movimento islamico del Turkestan Orientale e il Partito islamico del Turkestan, che si sono resi protagonisti di alcuni attentati nella Repubblica Popolare.
Per questo nel 2014 Pechino ha lanciato un’aspra campagna antiterrorismo, basata su dure misure di sicurezza e maldestre iniziative sociali per “deradicalizzare” la popolazione e diffondere un maggiore senso di appartenenza alla Repubblica Popolare.
Lo scorso anno, Pechino ha mostrato il pugno di ferro. In seguito a nuovi attentati nel Xinjiang e minacce provenienti dallo Stato Islamico, il governo locale ha divulgato il sopramenzionato regolamento per la de-estremizzazione. Questo prevede una lista di comportamenti vietati su scala regionale perché considerati estremisti. Per esempio, è stato proibito alle donne di indossare il burqa nei luoghi pubblici e agli uomini di portare la barba lunga. Chen Quanguo, segretario locale del Partito comunista (prima assegnato all’ugualmente strategico Tibet) ha intensificato la sorveglianza e dispiegato un maggiore numero di rappresentanti delle forze dell’ordine nella regione.
La Repubblica Popolare ha anche rafforzato la cooperazione con diversi paesi stranieri per interrompere il flusso di uiguri che raggiungevano il Sudest asiatico per poi dirigersi in Turchia. Da qui, molti di questi soggetti sono entrati in Siria e Iraq per combattere con lo Stato Islamico o con gruppi affiliati ad al-Qaida contro il regime di Bashar al-Asad. In questo campo, Pechino collabora con Damasco e i governi di Afghanistan, Pakistan, Thailandia e Indonesia.
Effetto boomerang
L’irrigidimento della campagna antiterrorismo potrebbe rivelarsi controproducente sotto quattro aspetti.
Primo. La politica ferrea di Pechino potrebbe alimentare rappresaglie nel Xinjiang e negli altri enti amministrativi dove si registra una presenza musulmana. Si stima che in Cina i fedeli dell’islam siano almeno 23 milioni, circa il 2% della popolazione totale. Tra questi vi sono anche quelli di etnia hui, che si concentrano nel “nucleo” geopolitico del paese, che include Ningxia, Gansu, Qinghai, Henan, Hebei Shandong, Yunnan.
Secondo. Le tensioni nella Repubblica Popolare potrebbero stimolare indirettamente nuovi attentati contro i cinesi all’estero, come quelli verificatisi in Pakistan, Mali, Nigeria e Kirghizistan. La minoranza uigura è presente anche in diversi paesi dell’Asia centrale confinanti con la “Nuova Frontiera”. Inoltre, diversi jihadisti appartenenti alla minoranza addestratisi in Siria e in Iraq potrebbero tentare di tornare in Cina o colpire i suoi interessi lontano dai confini nazionali.
Terzo. I rapporti tra Pechino e i governi dei paesi con una componente musulmana potrebbero complicarsi. Manifestazioni di protesta si sono già registrate in India e in Bangladesh. La Turchia sembra aver messo da parte il legame spirituale e storico con gli uiguri per stringere i rapporti con la Cina, ma in futuro l’argomento potrebbe tornare al centro del dossier sino-turco. Il Pakistan ha fatto capire che non gradisce quanto accade nel Xinjiang e ha offerto il proprio aiuto per contrastare l’estremismo religioso. Pechino ha accettato l’offerta perché il corridoio infrastrutturale sino-pakistano che unisce il Xinjiang al porto di Gwadar è strategico per lo sviluppo delle nuove vie della seta. Inoltre, il governo cinese vuole tutelare i connazionali che lavorano in prossimità dello scalo marittimo pakistano. In Malaysia, il nuovo presidente di Mahathir Mohamad ha rilasciato undici uiguri arrestati dopo esser fuggiti da una prigione thailandese e, anziché estradarli in Cina, gli ha permesso di raggiungere la Turchia. Recentemente, Kuala Lumpur ha cancellato alcuni progetti infrastrutturali concordati dal suo predecessore Najib Razak e la controparte cinese per contenere il debito pubblico malese. Pechino non vuole rinunciare a questa collaborazione, che Mahathir vorrebbe rinegoziare.
Quarto. Gli Usa potrebbero utilizzare il tema dei diritti umani quale leva negoziale nella competizione con la Cina, di cui vorrebbero ostacolare l’ascesa tecnologica e militare. Il Congresso statunitense sta infatti prendendo in considerazione misure sanzionatorie nei confronti di alcuni funzionari cinesi, tra cui Chen Quanguo. Non è escluso che Washington decida di vietare ad aziende Usa di collaborare con imprese cinesi che operano nella regione. Magari quelle che producono tecnologia finalizzata al monitoraggio della popolazione.
Gli Usa potrebbero usare il Xinjiang anche per danneggiare il nuovo corso delle relazioni tra Cina e Vaticano. Questo ha giovato all’immagine della Cina e accentuato le incertezze riguardo il futuro di Taiwan, di cui la Santa Sede riconosce la sovranità insieme a soli altri 16 paesi. Non è escluso che Washington accenda i riflettori sull’approccio di Pechino alla religione e alla tutela dei diritti umani per ostacolare le relazioni sino-vaticane.
Nel lungo periodo, la combinazione di questi quattro fattori potrebbe complicare la strategia della Repubblica Popolare nel Xinjiang. Tuttavia, a giudicare da come Pechino ha risposto alle critiche, è improbabile che nel breve periodo la campagna antiterrorismo subisca un ridimensionamento.
FONTE: http://www.limesonline.com/rubrica/repressione-cina-xinjiang-campi-rieducazione-diritti-umani-usa
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